La grande epoca del film muto si può nettamente circoscrivere dal 1919
al 1929; furono dieci anni giusti in cui sbocciarono almeno venti capolavori.
Dieci anni giusti: prima c’erano state l’invenzione, la ricerca tecnica, la
guerra, e dopo ci fu la parola. Ma in quei dieci anni il cinema visse una vita
intensissima e memorabile, in un’attività che lasciò il suo segno su tutta una
generazione.
L'Europa politicamente era in pace, ma in compenso era ricca di tutte
le nevrosi; il cinema ebbe la funzione di purificare l’ambiente, di immettere un
soffio d'aria pura in un clima viziato anche intellettualmente dalla cocaina,
dalle donne vestite da uomini e dagli uomini acconciati da donne, dalle più
disparate avanguardie e dall’anarchismo degli snob. In compenso non era ancora
stupido, ipocrita e borghese. Agì con straordinaria potenza sui ceti
spiritualmente più liberi e puri della società, sul popolo e sugli
intellettuali.
Sul popolo perché il popolo trovava finalmente, dopo il melodramma
ottocentesco, uno spettacolo fatto per lui; sugli intellettuali perché il
cinema veniva loro in aiuto, li liberava da complessi irreali o malvagi, fugava
sentimenti corrotti e convenzionali, offrendo una nuova, rivoluzionaria
dimensione della realtà.
Fu allora che i più inquieti tra gli intellettuali si rovesciarono sul
nuovo mezzo espressivo: << clowns ›› mezzo falliti come Chaplin, giornalisti
nauseati del lavoro notturno come Clair, pittori senza dipinti, musici senza
ispirazione, tutti i refrattari dell'inquietissimo dopoguerra, i Murnau, gli
Sternberg, i Pabst, gli Stroheim, i Dupont, i Feyder, si trovarono presenti
all’adunata, fioriti dai climi spirituali più diversi, dalle geografie più
appartate. Diventarono un gruppetto di maestri.
Come al tempo delle antiche poetiche, il limite (leggi, per il cinema,
l’assenza della parola) servì l'arte egregiamente. Costretto a esprimersi senza
le facili risorse verbali, il cinema fu rapido, allusivo, implacabile.
Costretto al silenzio, trovò un suo originale linguaggio per esprimersi.
Intanto, dall'altra parte della barricata, assistevano al miracolo gli
adolescenti cui la nuova civiltà, in mezzo a tante miserie, offriva un compenso
che tutte le riscattava; la prima generazione cresciuta spiritualmente nel buio
dei cinematografi, non perderà più quella impronta. La critica degli spettacoli
cinematografici nacque molto tardi da noi; la ricerca del buon film richiedeva
agli appassionati finezze che appartenevano più all’arte dei segugi che alla
preparazione filologica, finezze che risulterebbero incredibili ai giovani
esteti di oggi che discutono per colonne di stampa in corpo sei su De Sica come
direttore artistico. Le pellicole arrivavano da fuori con titoli incredibili,
con storpiati i nomi degli attori, mentre il nome del regista mancava
regolarmente sui manifesti e sui cartelloni pubblicitari, e qualche volta anche
al principio dell’opera. D'altra parte l'abbondanza del prodotto e l’estrema
variabilità dei gusti del pubblico
creavano confusioni indicibili; mentre proprio da noi, con un gruppetto
di splendide attrici, veniva inventato il divismo.
Oh, la patetica confusione che nasceva allora tra il prodotto di casa
nostra, a sfondo letterario e sessuale, cui ci sentivamo legati come da un
materno cordone ombelicale, e i liberi fantasmi di fuori! Anche recentemente
una fotografia di Francesca Bertini, che abbiamo vista riprodotta su una rivista
di lusso, ha avuto il potere di toccare un cuore che non è più tenero come
allora.
1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972