lunedì 2 marzo 2020

Un leone a Culver City - A Tale of the Christ & dottor Kalmus


Il "supercolosso" Ben Hur
Ma l’ambizioso progetto di Goldwyn, accantonato solo per ragioni pratiche, non poteva restare a lungo negletto: rinsanguata dagli ultimi incassi e ormai in piena ascesa, la M.G.M. rilevò il romanzo di Wallace e decise di produrre con Ben Hur il più grande film di tutti i tempi. Messa da parte June Mathis il cui prestigio – dopo l'affare Stroheim - si era notevolmente affievolito, la sceneggiatura e la supervisione del film furono affidate a Carey Wilsonm e Bess Meredyth, e la regia a Fred Niblo.
Per il ruolo del protagonista, una volta scartata la candidatura di Valentino, ancora impegnato con la Paramount (per il quale la Mathis - non potendo fare altro - scriveva intanto lo scenario di The Young Rajah), venne finalmente prescelto Ramon Novarro, già affermatosi da qualche anno, ma che con questo film divenne celebre in tutto il mondo. La lavorazione di Ben Hur - svoltasi in parte in Italia, proprio nel momento più critico della nostra cinematografia - durò la bellezza di tre anni, e il film, il cui costo complessivo si aggirò sui due milioni di dollari, sembrò davvero aver superato in grandiosità ogni precedente: la sola scena dello stadio, con la celebre corsa delle bighe (realizzata interamente a Culver City, non a Roma) venne a costare circa duecentocinquantamila dollari. La nobiltà del tema, la persuasiva lentezza del racconto accompagnato da solenni ed edificanti didascalie, l'efficacia spettacolare di non poche sequenze, il fasto della grandiosa ricostruzione, riuscirono per vari anni a mascherarne le intime pecche: superficialità dei personaggi, schematica meccanicità degli sviluppi ·drammatici, ingenuità di troppi particolari, facilon dell'ambientazione. E Ben Hur, con gli stomachevoli contorcimenti della serpentina Carmel Myers in parrucca al platino, incaricata di insidiare la virtù del protagonista, nonché con gli spaventosi colori da libro da messa delle scene della " Via Crucis " (nelle quali tuttavia la figura del Cristo veniva prudentemente presentata di spalle o al margine del fotogramma), passò sugli schermi di tutto il mondo come un autentico capolavoro. L'unica sequenza che in qualche modo meritasse un elogiò incondizionato, per il travolgente impeto di certe riprese e per lo studiatissimo ritmo del montaggio, era' in realtà quella, già citata - e rimasta del resto famosa – della corsa delle bighe, con la gara fra Ben Hur e Messala (impersonato dall'ex-rubacuori Francis X. Bushman, ormai passato ai ruoli di "vilain"), ma il cui divertito crescendo sembrò sempre derivare, - almeno secondo i competenti - da una sequenza analoga della Messalina (1923) di Guazzoni, che Niblo aveva sicuramente già visto in Italia. Ben Hur venne comunque presentato al pubblico americano dopo un lancio colossale, solo ai primi del 1926 e in Europa e in Italia giunse ancora più tardi, e addirittura in un'edizione sonorizzata: del film circolano ancora oggi copie in formato ridotto, private delle didascalie e puntellate da un "emphasising" quanto noioso commento parlato. A proposito del colore introdotto in alcune sequenze di questo film, va ricordato come la M.G.M. sia stata la prima casa di Hollywood a dare credito al Technicolor - ancora in bicromia - del dottor Kalmus, distribuendo anzitutto il primo film realizzato col sistema sottrattivo, The ToH of the Sea (1922), che recava persino la firma di Joseph Schenck quale supervisore, quindi tutta una serie di cortometraggi a soggetto, e infine The Viking (I Vikinghi, 1929), l'ultimo film muto a colori (ma presentato sonorizzato), prodotto, come i precedenti, dallo stesso Kalmus. (continua)
FAUSTO MONTESANTI
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

Nella prima foto Carmel Myers e Ramon Novarro, nella seconda Novarro e Francis X. Bushman.

domenica 1 marzo 2020

ENRICO GUAZZONI




I REGISTI (senza peli sulla lingua)
ENRICO GUAZZONI
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

Prestami la ritorta conchiglia, o tritone di Fontana di Trevi, perché io ci dia dentro a pieni polmoni e allarghi sulle croscianti acque la fama di questo buon padre dell’italico cinema, romanissimo cive che gli diè risonanza oltre Oceano e primo perse le vie all'americano Griffizio che tant’ala stese sulla nuova arte, la quale dedalea e quasi icarea vuolsi giustamente nomare.
Quanto quest’arte del ciurma debba ai barocchi per lo spirito e per la romana origine, niuno ancor sa. Ell’ è il perenne metamorfoseo dell'immagine plasmata dal moto, e puossi ben dire nata in Roma con la celebre statua del cavalier Bernino: Dafne ramificantesi al corso e sorpresa come eterna essenza travagliata dal moto.
Ma romano fu il cinema per nascimento anche, nel 1913, quando Enrico Guazzoni diè al mondo Quo vadis? e Antonio e Cleopatra. Non la scena teatrale come suolsi immaginare, ma Roma stessa quale immenso scenario creato dai barocchi, influiva su quel nascimento.
Nel dissipato gestire, nell'esagitato brulichio, nel ventilato drappeggio con cui balenavan le cinematografiche folle intorno ai loro vecchi eroi, riverberava, ad insaputa degli stessi Guarzoni, non la ribalta teatrale ma la statuaria barocca di Roma, la vuota e mirifica drammaturgia solare, sciorinata da quegli scultori a sommo del porticato berniniano, sull`alto della facciata di San Giovaumi, lungo i parapetti di Ponte Sant’Angelo, tra le acque di Fontana di Trevi. Questa ventilata sinfonia di Roma, inaspettata marmorea trasfigurazione del motto “i cenci van sempre all’aria”, fu l’inavvertita ma onnipresente maestra d'Enrico Guazzoni. Il suo cinema, romano di pretesto e romanesco-barocco di spirito, si gonfiò, corruscò, crosciò, s'allargò, come la più nuova e la più vasta tra le fontane di Roma.
ln questa nuova macchina delle meraviglie fu immessa la vena della sensualità ottocentesca. La nuova ispiratrice segreta del nuovo spettacolo, era la Venere polputa e callipigea, vagheggiata dalla Roma godereccia dei funzionarii e dei capigabinetto: quella stessa Venere che, per immagini varianti ma ugualmente dilettose, arrideva loro dalla fontana del Rutelli e dal sipario del Brugnoli al Costanzi, dove una baldracca floridissima appariva in una specie di barbarico trionfo equestre.
Quell'ideale estetico della Venere cicciuta, celebrato ogni dì e rinfrescato nelle Naiadi del Rutelli all'Esedra, corrispondeva per un lato perfettamente all'epicureismo romanesco e, per l’alto, anche alla fantasia pittorica del tritone sensuale Boecklin, romaneggiato a sua volta in quelle sensuali e folleggianti oceanine. Un gusto vecchio, del resto, che, dall'Ottocento, si ricongiungeva ancora col Seicento, col barocco galante di qualche stampa dei tempi di Luigi XVI. Ne ricordo una bellissima in cui son già le naiadi carnose del Boecklin e del Rutelli ma assai più maestose e languide, assai più Montespan.
Enrico Guazzoni portò nel cinema quest'ideale romanesco-barocco della bellezza femminile, con quelle Terribili-Gonzales che fu, per noi ragazzi, l`indimenticabile Cleopatra. Ah, com'racano lontani allora dall'estetica della “mezza-porzione”, invalsa poi con le dive americane dello jolì! La Cleopatra che Enrico Guazzoni ci sceglieva era porzione intera, quella fatta ancora pei robusti appetiti, quella che sognano Ia plebe e gli adolescenti di tutti i secoli. Che fosforescenza aveva per lg nostre fantasie la didascalia in cui Cleopatra annunciava: “Antonio, ti ho preparata una notte d’amore”. Che programma!
Enrico Guazzoni voglia perdonarci se poniamo oggi il freno della dignità al nostro entusiasmo per la sua Cleopatra: ma siam pronti a confessargli che l’idea soda ch'eglì aveva d'una diva cinematografica ha ancora la sua potenza e che ne facciam la prova ogni giorno, quando, girando per Roma in botticella, al passaggio di qualche formosa Cleopatra, noi, gli intellettuali raffinati, ci accorgiamo d'avere gli stessi gusti del nostro vetturino.
Questo romanesco-barocco del cinema italiano, quale Enrico Guazzoni seppe imporlo al mondo sotto pretesto di storica romanità, non mancava certo d'intuizioni geniali. E della confusione stessa tra romano e romanesco non si può far colpa ad Enrico Guazzoni se essa, attraverso il barrocco, è ancor oggi inavvertita e lampante in architetti come Brasini. Il romanesco trova nella sua Roma, bell'e fatto, il più magnifico tra gli scenarii, in cui è ancora così facile drappeggiare a toga un lenzuolo.
Il cinema italiano, quale il Guazzoni l'educò, fu, in sostanza, un capolavoro postumo ma non vulgare del genio barocco romano, in quanto genio corrusco del moto.
Attraverso il genio del moto qualche intuizione cinematografica del Guazzoni riuscì a forare la scenografia barocca ed a penetrare nel vivo della vita antica. Assai prima che Fred Niblo l’avesse per il Ben Hur, egli aveva avuto l’idea della corsa delle quadrighe: un’idea per cui si tornava veramente ad una romanità palpitante anche se detestabile. Non so quanto in queste rievocazioni circensi contribuisse la pittura storicizzante ottocentesca (c'ê un celebre quadro con una quadriga in curia per le vie di Pompei) ma non v’ha dubbio che la trovata fosse, per gran parte, cinematografica e felice.
Cosa strana, la corsa stupenda era ancor più animatrice nel suono che nell’immagine: e ce ne accorgemmo nella versione sonorizzata del Ben Hur.
La vita antica aveva tre immagini sonore di cui noi moderni non sapevamo più ritrovar l’idea: questa delle quadrighe uscenti a turbine dal curcer sul lastricato del circo: quella d’una flotta rameggiante nella bonaccia: quella del grido cui s’apriva la battaglia, vero polso sonoro da cui un orecchio esperto misurava il tono spirituale di tutta un’armata.
Questa delle quadrighe era davvero una sequenza da sonorizzare, perché nel suono, ancor più che nell'immagine, era il dramma: al contrario di quel che accade nel nostro mondo in cui la corsa di cavalli è di per sé silenziosa ed il rumore è tutto esterno. Che senso poteva avere, invece, una sonorizzazione della Gerusalemme liberata? Ma il Guazzoni ha sempre amato oltremodo la Gerusalemme liberata, questa sua così poco significante creatura ch`è stata la preoccupazione e l’orgoglio di tutta la sua vita. Ci lavorava già nel 1911, l'ha presentata nel 1917, l'ha sonorizzata nel 1934.
Il Guazzoni ha sempre un po’ avuta la debolezza di non sentire il mutarsi dei tempi. Nel 1924, quando il cinema americano ci aveva già tolto da gran parte dei mercati e ci aveva superati nella spettacolosità e nella squisitezza, egli credeva ancora di potere interessare il mondo col vecchio barocco romanesco, e dirigeva una Messalina.
Lo rivedemmo nel 1932, al primo rifiorire del cinema italiano, cimentarsi col Dono del mattino: far cioè del mediocre, se non dal cattivo, teatro forzanesco. Questa sì ch'era veramente la ribalta, coi lumi ancora a petrolio.
Ma l’uomo è, in sostanza, più agile di quanto paia, e, qualche volta, sa rimettersi in carreggiata. Il re burlone fu, relativamente, un rimettersi in carreggiata: un tornare, per quanto possibile, alla pari coi tempi.
Non dico che ci fossero novità in quel film: me ne guarderò bene. Si rispolverò, per l’occasione, il trenino campestre cameriniano di Figaro e la sua gran giornata. Ma il teatro, con Armando Falconi, si fece più largo, più ventilato, più brioso. Invece dei lumi a petrolio, c’erano già le lampadine elettriche.
Negli anni successivi, il Guazzoni inclina all'oleografia sentimentale, da vecchia parete. E` il tempo dei Due sergenti e del Dottor Antonio. Vorrebbe mettersi tuttavia in paro, ma mi par che questa volta non gliela faccia più. Racconta ora le cose ultravventurose. La figlia del corsaro verde e I pirati della Malesia del Salgari, ma ha un po’ l’aria d'un nonno che non s'accorga di raccontar favole, che andavan bene, sì, per il figliuolo ma sono già un tantino vecchiotte per il nepote. Salgari è già superato per i bimbi che giuocano con la mitragliatrice e l'aeroplano e il carrettino armato.
Non vorrei finire col dire cose sgradevoli ad un uomo che ha lavorato con gran passione ed ha fatto in trent`anni un terzo appena dei film che i nostri baldanzosi registi ci scodellano oggi in dieci anni. Enrico Guazzoni non è affatto un uomo della preistoria del nostro cinema: è un carattere rappresentativo, che ha dato al cinema italiano un'impronta che non s’è mai del tutto cancellala: intuito della scena, magnificenza, corruscare di masse. ln un tempo in cui si parla tanto d’un teatro di masse, bisognerebbe ricordare che questo regista ha creato il cinema italiano mettendo in primo piano la mass. Che egli fosse superato e che la vera drammaturgia filmistica nascesse il giorno in cui il cinema avesse messo in primo piano invece della massa i volti degli eroi e delle eroine, era le com’è fatale che le arti evolvano dal grandioso allo squisito, dal macchinoso al profondo, dal teatrale all’intimo. Ma aver cominciato sotto gli auspici solari e avventati del barocco romano, aver aperto al mondo questo più vero e maggior teatro delle meraviglie ch’è spettacolo cinematografico, portando del moto e della luce significa pure qualcosa. Possa o no piacervi Enrico Guazzoni è un personaggio, un creatore, che appartiene alla storia della civiltà. Nazionale.
Eugenio Giovannetti

Opere di Enrico Guazzoni: Bruto, I Maccabei, Agrippina (1911) – Marcantonio e Cleopatra, Quo Vadis? (1913) - La Gerusalemme liberata (1911-17-31) – Giulio Cesare (1914) - Messalina (1924) – Miriam la sperduta d’Allah (1928) – Il dono del mattino (1932) – La signorina Paradiso (1934) - Re Burlone (1935) -
Ho perduto mio marito, Re di denari, I due sergenti (1936) -- Il dottor Antonio (1937) - Il suo destino (1938) – Ho visto brillare le stelle (1939) – Antonio Meucci (1940) - La figlia del Corsaro Verde, l pirati della Malesia (1941).
 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 4  24 GENNAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Via delle cinque lune diretto da Luigi Chiarini e interpretato da Luisella Beghi, Andrea Checchi, Olga Solbelli (Prdod. Cinecittà, realizz. artistica C.S C.; distr. Enic)


mercoledì 26 febbraio 2020

C'era una volta la presentazione


Contro le presentazioni

Dalle colonne del “Lavoro Fascista” ed al microfono della radio ho iniziato una crociata per l'abolizione delle presentazioni. Voglio ora rivolgermi al pubblico appassionato di cinematografo dei lettori di “Film” per esporre le ragioni artistiche e pratiche che militano a favore di questa abolizione, o quanto meno di radicale trasformazione.
Ragioni artistiche. La dignità di uno spettacolo cinematografico è gravemente offesa dall’intrusione di queste brevi antologie del film futuro, redatte in forma di miscellanea caotica, con frammenti di scene senza nesso che non danno affatto l’idea del contenuto reale delle intenzioni, del valore del film. Inoltre il produttore, nell’illusione di far colpo sul pubblico, condisce questa insalata, con delle didascalie apologetiche che potrebbero servire ad esaltare il lucido da scarpe sugli affissi delle cantonate “Il più brillante prodotto dell’annata” “due ore di continuata ilarità” “Il vertice dell’emozione e della passione” e avanti su questo tono. Tutto ciò degrada Io spettacolo.
Ragioni pratiche. Tali “presentazioni” sono assolutamente negative come richiamo pubblicitario. Il pubblico non abbocca alle qualifiche mirabolanti e non è affatto solleticato dai frammenti proiettati. Chiunque assiste a tali presentazioni ascolta, dai vicini, esclamazioni ironiche che assicurano dell’effetto sconcertante ed allontanante della miscellanea comparsa sullo schermo. A questo si aggiunga che l'inclusione degli interessantissimi corti metraggi, resa recentemente obbligatoria, suggerisce la necessità di alleggerire il programma. Ora le “presentazioni” normalmente sono due invece di una ed hanno assunto un metraggio il cui ingombro nell’economia generale, è più che evidente. Interpellati, i produttori sono stati lieti di adeire all'abolizione di una simile spesa inutile.
Rimangono gli esercenti i quali ritengono che tali presentazioni giovino a richiamare l'attenzione sui prossimi spettacoli. Per aderire a tale loro desiderio si potrebbero ridurre le “presentazioni” a un semplice annuncio tipografico contenente il titolo del film futuro, il nome del regista e quello dei suoi interpreti. Se quest'annuncio puramente tipografico è poco visivo si può anche consentire che venga riprodotta l’immagine degli interpreti principali. Comunque, dovrebbe essere tassativamente proibito:
1 – che tali presentazioni oltrepassassero la misura di 50 metri;
2 – che se ne proiettasse più di una per spettacolo.
Credo che l’opportunità di questa riforma sia oramai entrata nella convinzione dei dirigenti la nostra cinematografia e mi auguro tanto cha essa, venga al più presto applicata.
Alessandro De Stefani

Caro De Stefani, vorrei aggiungere una cosa. E perché non si dovrebbe abolire anche la parola “presentazione” che deriva dal “present” americano? Perché un film –  che è dopo tutto uno spettacolo -
deve venire “presentato” dalla tal casa, mentre gli altri spettacolo vengono “rappresentati” (da rappresentare, rappresentazione)? Quel “presenta” non da un po’ fastidio? Mi fa temere – quando lo vedo – che di li a poco, la distribuzione degli attori (“cast”) sarà chiamata “casto”. Che ne dici?
 D.

 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 7  14 FEBBRAIO 1942 XX

Presentazione, rappresentazione, prossimamente qui, infine vinse il trailer che soccombette al coming soon!
Scaletta foto: 1  Clara Calamai e Vittorio de Sica ne La guardia del corpo  (Prod. Inac, Distr. Titanus) - 2 Ilsa Werner nel film Ufa Arditi dell’oceano  (Distr. Enic) - 3 Alida Valli e Carlo Ninchi in Catene invisibili prodotto dall’Italcine e distribuito dall’Ici. (Fotografie Bragaglia, Ufa e Vaselli)

lunedì 24 febbraio 2020

CINE ma POPolare - L'ultima parola


Il favore del pubblic(in base alle cifre d'incasso) sorienta prevalentemente sui film (melo) drammatici su quelli comicicon preferenza verso i primiseguonoa distanza e nell'ordinegli avventurosi (cappa e spadapseudostorici), i musicali (riduzioni di opere lirichebiografie di musicisti famosicanzoni sceneggiate) e i patriottici (serie sulla prima guerra mondiale, serie sulla secondaserie triestina). Il sotto-gruppdei napoletani”, formacome abbiamo visto, capitolo a séInoltre, eccezion fatta per il cospicuo successdi Cielo sulla palude dovutalla capillare diffusione nelle sale parrocchiali, si può affermare che non esiste ancora in Italia una cinematografia di ispirazione religiosa, che raccolga un largo favore popolare.
A risultati tantsgradevoli quantsignificativci conduce l'analisi comparativa delle cifre 'incasso riferite al periodo 1948-1953: agli 889 milioni di Anna fanno eco i 401 di In nome della leggeagli 819 de I figldi nessuno si contrappongono i 368 di Non c'è pace fra gli ulivi e via di seguito. L'evidenza delle cifre pubblicate nel seguente quadro riassuntivo non ha bisogno di commenti esclamativi quanto di serie considerazioni sui rapporti fra cinema e pubblico inteso nel senso più ampio.
Neprimnumerde “Il Contemporaneo” Luigi Chiarini, riferendosi agli stessi dati, scriveva«Nopensiamo che queste cifre dimostrino come quefilmgiudicati brutti su un piano artisticomeritino di essere analizzati pevedere quali elementi contengono conformi alla psicologia popolare tanto nelle loro caratteristiche spettacolariquanto nel contenuto umano che rappresentano». L'istanza non potrebbe essere più giustificata quando si pensche il successo o l'insuccesso commerciale di un film è dovuto non già alle "prime'' ma giustappunto alle seconde, alle terze e alle quarte visioni: l'ultima parolaquella decisiva, non spetta alla coppia elegante di, un "Metropolitano di un ''Arlecchino", bensì agli umili spettatori di un cinemetto rionale o di paese. Le lodi della critica e di un pubblico qualificato non hanno consentito a Bellissima di incassare, fino al 30 settembre 1953, più della modesta cifra di 142 milioni Questa la realtà: chiudere gli occhi dinanzi ad essa anziché sforzarsi di comprenderla e modificarla significa – come sottolinea ancora il Chiarini - scavare un solco sempre più profondo fra la critica e la cultura cinematografica da un lato e la moltitudine degli spettatori dall'altro. (continua)
CARLO SANNITA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre

Nella foto d'apertura un momento di Non c'è pace fra gli ulivifilm del 1950 diretto da Giuseppe De Santis.

lunedì 17 febbraio 2020

Indimenticabile Folco Lulli



FOLCO LULLI PUO’ ESSERE CONSIDERATO COME UNA CREATURA DEL NEOREALISMO CINEMATOGRAFICO
Ha una «maschera» che non si dimentica
La produzione italiana non ha mai valorizzato l’attore e le sue vere possibilità
I migliori film li ha fatti all'Estero
Roma, agosto
Nel caleidoscopico mondo del cinema c'è posto per tutti. Non è no detto, ad esempio, che per quanto riguarda gli omini occorra essere il «bello» della situazione ad ogni costo, né tanto meno che le solite ammiratrici debbano comunque coricarsi con la vostra fotografia sotto il cuscino. La verità. è che in certi casi, dovendo fare affidamento soltanto sul proprio talento drammatico e sulla propria maschera che non sempre riscuote, agli effetti personali, l’unanime entusiasmo del pubblico, la carriera di un attore diventa più difficile, meno soggetta, insomma, agli estrosi capricci di una fortuna che dal punto di vista critico difficilmente si giustifica. In compenso si hanno maggiori soddisfazioni, come avviene appunto nel caso del nostro Folco Lulli, attore popolare e intelligente, che la produzione italiana non ha sempre valorizzato secondo le sue vere possibilità.
Folco Lulli, come attore, è nato nel dopoguerra. Lo si può definire una creatura del neorealismo, in quanto è stato preso, come si usa dire in gergo cinematografico, dalla strada. Debuttò nel film «Il bandito» e in breve tempo si rese conto che per recitare di fronte alla macchina da presa con efficacia e convinzione, occorre essere veramente preparati. Di qui il tormento che lo perseguitò nei primi anni e la insaziabile sete di cultura agli effetti drammatici che lo distinse, inducendolo a ridurre ai minimi termini il sonno per leggere e studiare tutto ciò che riteneva potesse tomargli utile. Tuttavia queste sue buone intenzioni non gli impedirono di partecipare all'interpretazione di films, che da un punto di vista prettamente artistico lasciavano molto a desiderare. D'altra parte il cinema ha le sue esigenze commerciali, che spesso dettano legge a produttori e registi, e di fronte alle quali vengono meno anche i migliori propositi di un attore. Così tra un film notevole ed un altro meno buono, trascorsero i primi anni della carriera di Folco Lulli, il quale attendeva sempre la buona occasione per mettere in piena evidenza il suo talento.
Clouzot, il grande e diabolico regista francese, ebbe la opportunità di incontrarsi con Folco Lulli sulla costa azzurra quando stava scegliendo gli interpreti di «Vite vendute». Osservò attentamente l'attore italiano e fu colpito specialmente dalla sua maschera; una maschera - egli disse -- che non si dimentica. Il resto è noto, dal clamoroso successo internazionale del film alla popolarità di Folco Lulli che finalmente il pubblico imparò veramente a conoscere. Da allora numerosi registi stranieri gli hanno fatto sostenere i ruoli più disparati, ma sempre in carattere con la sua maschera che ha una mobilita espressiva non comune. Essa si presta, intatti, alla caratterizzazione di personaggi tanto diversi, dal rude e semplice contadino al criminale incallito, dall’uomo sempre ingenuo e ricco di buon umore all’individuo subdolo, calcolatore e arrivista.
In questa ultimi tempi Folco Lulli ha interpretato diversi films all'estero, in Francia, Germania e Spagna. Uno dei lavori ai quali si dice particolarmente affezionato è «Ritorno alla vita», una vicenda intensamente drammatica e umana, nella quale ha avuto a fianco la grande attrice tedesca Lida Baarova che dopo una lunga parentesi di attività teatrale è finalmente rientrata nel mondo cinematografico, Alberto Closas, il noto protagonista di «La morte di una ciclista», Josephine Kipper ed altri, sotto la direzione del regista spagnolo Nieves Conde. Com'è noto, questo film nel quale Lulli sostiene un ruolo molto incisivo e stato premiato al festival di S. Sebastiano per la regia, la sceneggiatura e l’interpretazione. Fatta questa premessa, si spiega facilmente l’entusiasmo che dimostra il nostro attore nel parlarne, tratteggiandone la vicenda. «Ritorno alla vita» narra di tre uomini che dopo avere scontato in carcere le rispettive condanne rientrano nella società. Julian un medico condannato in seguito ad un incidente professionale, non crede più nella sua abilità di chirurgo. Nicola, malgrado la sua giovane moglie gli sia rimasta fedele, trova molte difficoltà nel riprendere la vita normale. Iniesta, un tipo allegro e non più giovane, beve per dimenticare suoi guai. I tre hanno appena lasciato il carcere e viaggiano, di notte sul treno, dove un bambino, ammalatosi gravemente, dovrebbe essere operato d’urgenza. Il treno è fermo in mezzo alla campagna bloccato da una bufera di neve. Mentre gli altri viaggiatori e i suoi stessi compagni vivono tutta l’angoscia del momento, Julian appare estraneo al dolore del bambino e alla disperazione di sua madre. Egli non vuole più fare il chirurgo, ma dopo una sequenza oltremodo suggestiva e drammatica, risolve finalmente il suo assillante problema e senza ulteriori indugi opererà felicemente il bambino.
Folco Lulli è un uomo estremamente semplice, modesto, amante della conversazione. Quando gli impegni della macchina da presa glielo permettono, egli siede sovente ai tavolini di un bar di via Veneto, frequentato da giornalisti e scrittori tra i quali conta molti amici. Sorride sempre Folco Lulli e appare informatissimo su tutto e su tutti, ma si astiene dal fare qualsiasi pettegolezzo. E' innamorato della Spagna e della sua gente. Dice che a Madrid si sente un poco come a casa sua perché là tutti lo conoscono e gli vogliono bene. Nonostante in molti films abbia tatto il «duro», in realtà egli è l’essere più mansueto e generoso che ci si possa immaginare, al punto che una sola goccia di sangue sia pure artificiale, cioè fatta appositamente dal truccatore per esigenze di scena, lo infastidisce. Ma se il regista di un suo film gli ordina di comportarsi in un determinato modo, egli diventa aggressivo e violento, pronto ad uccidere freddamente chiunque si oppone alle sue mire ed ambizioni, precedentemente stabilite dalla sceneggiatura del personaggio che interpreta.
Piero Pressenda
GAZZETTA DEL SUD 14 agosto 1957


venerdì 14 febbraio 2020

Un leone a Culver City - The big parade



Il trionfo della "Grande Parata,,

Fra i registi giovani e "buoni a tutto fare" sui quali l'executive producer poteva con sicurezza fare assegnamento, ve n'era in quell'epoca uno che conosceva a fondo il mestiere, King Waltis Vidor, il quale aveva cominciato giovanissimo a lavorare nel cinema, dirigendo il silo primo film nel 1918.
Nativo del Texas, semplice e tranquillo, si era già segnalato alla Vitagraph e alla First National, nonché da Goldwyn e alla prima "Metro", come un diligente esecutore, privo di una spiccata personalità ma pieno i
intuito nel dirigere gli attori: da Laurette Taylor a Virginia Valli, da Aileen Pringle a Will Rogers. A un certo momento Irvinb Thalberg gli affidò un soggetto di Laùrence Stallings, la storia di un americano qualunque travolto dalla grande guerra, suggerendogli di farne un'esaltazione dell'intertevento degli Stati Uniti nel conflitto. Lo stesso Vidor non doveva nutrire eccessiva fiducia nell'esito commerciale di un film imperniato su un argomento del genere (basti pensare all'insuccesso dei troppi film bellici nell'immediato dopoguerra) se è vero - come si racconta - che egli rifiutò una cointeressenza finanziaria nella produzione.



Ma quando The Big Parade (La grande parata, 1925) apparve sugli schermi d'America, gli scettici dovettero ricredersi poiché il pubblico decretò al film un successo senza precedenti. Nella sola New York esso tenne il cartellone per ben novantasei settimane consecutive, e la stampa specializzata lo classificò fra le opere più grandi di tutta la storia del cinema. Quando poi The Big Parade giunse in Europa, nonostante qualche risentimento locale (specie in Gran Bretagna) per l'impostazione nazionalistica del film secondo la quale la guerra sembrava essere stata vinta solo dalle truppe americane, fu il trionfo. 


John Gilbert e Renée Adorée divennero stelle internazionali, King Vidor uno dei maggiori registi americani del momento e la Metro Goldwyn Mayer una ditta di primissimo ordine, impegnata a produrre non solo film commerciali ma anche autentiche opere d'arte, le quali onoravano il cinematografo. In realtà The Big Parade, che pure rientrava nella migliore tradizione realistica del cinema americano e risentiva ad esempio della benefica influenza di Griffith (basti pensare a Isn't Life Wonderful?, realizzato in Germania e presentato poco prima, nel 1924), era un'opera romantica e superficiale, impregnata di facile retorica e di detestabili sentimentalismi: ma furono proprio questi elementi deteriori, forse, dovuti non tanto al talento di Vidor che si rivelava in pieno anche nei momenti più discutibili, quanto alla furberia di Thalberg a determinarne il successo. Vidor stesso, in seguito, dovette ammettere che ad esempio la scena più famosa del film, quella in cu la ragazza francese si aggrappa al soldato americano per impedirgli di partire per il fronte, riusciva - è vero - a "strappare le lacrime", ma era essenzialmente il frutto di un compromesso. Di ben altro vigore era tuttavia la sequenza della marcia dei soldati nella foresta, narrata con un esemplare crescendo, attraverso un accorto e cosciente uso del montaggio. Il successo del film si rinnovò comunque anche a distanza di anni: ricordo che ancora nel 1935, in Italia, ne circolava un'edizione sonorizzata che all'intensità della sequenza citata, ad esempio, aggiungeva la spettacolare suggestione degli elementi sonori. (continua) 
FAUSTO MONTESANTI
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

Nella seconda foto, è riconoscibile al centro, in piedi, King Vidor mentre dirige i protagonisti in una scena d'amore in esterni. Nella terza John Gilbert e Renée Adorée in una scena del film medesimo.