giovedì 30 marzo 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 2

Neanche la poesia ha smesso in questo secolo la lode della campagna e della fedeltà alla terra. Pensiamo alla persistenza delle qualità contadine nella poesia di uno Esenin - la toskà, nostalgia malinconica del passato e del villaggio perduto; la religiosità; I'umanitarismo e il lirismo della sua poesia procedono dalla matrice contadina - e prima ancora di un Kljùev, che, tradizionalista per tensioni (anche religiose) e cultura ma novatore per accenti (assorbí parecchio dell'ornato simbolista), spasimò nell'antagonismo campagna-città cercando di comporlo in una religiosità totalizzante che pretendeva coinvolgere anche Lenin e la rivoluzione: ottenendo il ripudio "ufficiale" che si può immaginare.
Ma è certo difficilmente numerabile la schiera dei minori che di georgicità fecero professione trovando però raramente la composizione del loro temperamento culturale con le esigenze nuove di una mediazione politica dell'arte. Pensiamo a Pëtr Vasìl'evic Onèšin, a Sergéj Klyökòv, ad Aleksandr širjàevec, poeti schietti, ma troppo romanticamente innamorati della terra per avvertire le urgenze dei tempi nuovi e, in qualche modo, adattarvisi.
Tra i prosatori - torniamo ad essi - che accettarono la rivoluzione pur senza militarvi e che si proposero di coadiuvare con la propria attività il proletariato a consolidare il suo potere, meritando cosi l'ambigua e non sempre contestata qualifica di “compagni di strada" non si può dimenticare Lìdija Nikolàevna Sejfùllina, che con i suoi racconti e alcuni dei suoi romanzi [« Humus ››, « Virinèja ›› e « Sulla propria terra ») acclamò con temperata (e femminilmente trepida) rettorica alla terra e alla sua gente emancipata dalla rivoluzione.
E nell'ambito della grande fortuna che dopo i primi anni trenta toccò al romanzo storico, val la pena rammentare autori come Viašeslàv Jàkovlevic šiškòv e Ol'ga Dmitrievna Forš. Entrambi, pur nel novero di altre loro rivisitazioni del passato, tornarono anch'essi al frequentato motivo della rivoluzione contadina e a Pugaëëv, dichiaratamente assurto ad antesignano della volontà di liberazione delle classi subalterne dal proprio secolare servaggio ›[l'Emeljàn  Pugašëv di šiškòv fu pubblicato nel '44, il Radiššev della Forš nel `39].
Ma intanto il romanzo sovietico di "fiction" stava procedendo regolarmente sui binari parenetici di confermazione della rivoluzione e dei suoi obiettivi, prima che venisse istituzionalizzato il “ realismo socialista" come canone estetico-politico, nel primo Congresso degli scrittori del 1934. Indice dell'interesse con cui gli scrittori di estrazione contadina [o attenti comunque a quella realtà] seguirono le reazioni del loro ambiente alle novità della rivoluzione e ai problemi che la costruzione di quel tipo di socialismo poneva, sono per esempio l'emblematico « Cemento ›› di «Fëdor VasìI'evìc Gladkòv (bisogna cementare se stessi e la rivoluzione, occorre scompaginare insieme i mattoni dello stato dei contadini e degli operai), «Bruski ›› di Fëdorlvànovic Panfërov, il « Capàev » di Dmitrij Andréevic Fúrmanov (lodatissimo romanzo per aver trasfigurato quel rappresentante della classe contadina lavoratrice in eroe tipo della sua classe) e i racconti di vita contadina di Aleiksàndr Sergéevic Nevèrov.
Non occorrerà poi spendere troppe parole per rammentare lo spazio e il rilievo che occupano in « Il placido Don ›› e in ›« Podnjataja celina ›› [t.ital.: « l dissodatori ››) di ›I\Mlichaìl Aleksàndrovic šolochov al tema del trionfo della collettivizzazione della terra oltre e contro le resistenze e la tragedia ch'essa comportò.
Maggior considerazione per l'uomo biologico che sopravvive oltre le “quadratura” dell'uomo di classe spicca invece esplicitamente nei vivaci e coloriti racconti di vita contadina - soprattutto nella raccolta « Sulla terra - firmati da Vladìmir  Matvéevic  Bachmètev, "scrittore proletario" che converge sulla campagna. E intanto dalla campagna vengono direttamente a testimoniare aspirazioni, resistenze e dubbi prima e dopo il Nep e la collettivizzazione i romanzi di Pëtrilvànovic Zamòjskij, i racconti e il romanzo «« Il quinto amore ›› di Michail Jàikovlevic Karpov, le novelle di Jàkov Evdokimic Koròbov (esemplare diorama della difficoltà che incontrarono i primi rapporti tra la gente delle campagne e il proletariato operaio] e i racconti di Rodiòn Michàjlovic Akùl'šin.
Anche i territori della poesia intanto eran percorsi dalla consegna proclamata nel congresso degli scrittori del '42 con i versi « non si canta soltanto, si scolpisce, si fucina, si costruisce ». A frotte i poeti si adattarono, piú o meno di buon grado, a riordinare la propria « domestica azienda poetica ››, con risultati esteticamente piú o meno esaltanti. Non mancò chi riuscí a mantenersi entro il partijnost, l'ordinazione di partito, senza venir meno alla propria vocazione di devozione alla campagna e alla natura come - siamo ormai nel secondo dopoguerra -Nikolàj Leopòl'dòvic Braun con « Le pianure della mia patria » e con “La terra in fiore”  o come il piú raffinatamente metaforico Pàvel 'Nikolàevic šubin.
Nel quadro poi del drastico giro di vite con il quale il comitato centrale del Pc intese, nell'agosto del'46, stroncare le tendenze “non sane" il “cosmopolitismo" e “formalismo”, correlativi estetici dell'imputazione di deviazione] che in letteratura disturbavano « l'adempimento dei grandi compiti posti all'arte dalla nuova tappa dello sviluppo storico ››, riprese forza la vena 'minore' - se rapportata al 'grosso' tema della ripresa industriale della riedificazione dell'agricoltura e della ripresa della vita dei kolchozy. Romanzi e racconti tornarono alla campagna, al suo nuovo volto storico, con stacco piú diligente che ispirato e con risultati piú documentari che artisticamente commendevoli, quando non addirittura schematici: basterà fare i nomi di Semën Pëtrovic Babaèvskij, di Juri Grigòr'vic Làptev, di Galina Evgèn'evna Niikolàeva.
Il disgelo e le sue smorzate liberalità, l`atmosfera nuova quanto instabile che si stabili anche in letteratura dopo il rapporto Kruscëv al XX congresso del Pc sono eventi noti e recenti per esigere campionature piú esaustive.
Per quel che si sa, gli anni sessanta e settanta vedono in letteratura un fenomeno di decentramento “tematico” analogo a quello, appena intravisto però, che si nota in cinematografia con il decentramento produttivo nelle repubbliche periferiche e con il tentativo di recupero delle singolarità etniche e culturali delle diverse repubbliche sovietiche. Anche in letteratura sembra avvertirsi dunque un fenomeno parallelo di riconoscimento dello Hinterland: quello cosmico per cui gli scrittori si dedicano alla scoperta o riscoperta del mare o dello spazio (basterà ricordare i padri della fantascienza Adàmov, Beljàev, Efrèmov e Kazàncev) e quello geografico che porta alla rivelazione dell'amor di terra lontana, la Siberia (Anatòliij Pàvlovic Zlòbin, Leonid  Ivànovic lvànov,per esempio), la regione dell'oltre Baikal (Boris Aleksàindrovic Kostjukòvskij, ll'jàMichàilovic Lavròv) e quella dell'Altaj'(Sergéj Ivànovic Zalšlginlç e il piú anziano e autorevole Afanàsij Lazàrevic Koptèlov, accreditato dalla critica sovietica d'esser stato il primo, già a metà degli anni trenta, con il romanzo « ll grande campo dei nomadi ››, ad aver celebrato I'importanza della rivoluzione socialista nella vita delle piccole comunità. .Sono naturalmente, queste, terre periferiche rispetto al « meridiano fondamentale ›› che è Mosca; non lo sono per questi autori che vi son nati e che le conoscono come conoscono il terreno su cui hanno edificato la propria casa. Si confessa šukšin (c. -Benedetti, int. cit.): «Su questi temi ero autonomo, audace, attivo. Una volta scelto il campo ho deciso di coltivarlo; per fare altre cose, bisognerebbe viver tre volte per raccontar tutto ».
E in questo comparto convenzionale e in questa dimensione della letteratura russo-sovietica contemporanea sembra potersi collocare, a buon diritto, Vasilij Makàrovic šukšin.
C`è un altro autore contemporaneo cui šukšin viene talora apparentato ed è difficile dire con quanta attendibilità, almeno fino a quando, di šukšin, non si conoscerà l'opera omnia. E' Michàil Michàjlovic Zòššenrko. Morto sessantatreenne nel '58, Zòšöenko è il piú brioso campione di quell'umorismo satirico che «è un tarlo inammissibile per una ferma struttura ufficiale di letteratura che si proponga di esaltare “l'uomo nuovo socialista". La demistificazione dell'eroe positivo, del ritratto a tutto tondo, dell'integro e integrale interprete della rivoluzione, dell'industrializzazione e della collettivizzazione, la rivelazione di una realtà double-face è una presunzione imperdonabile per un uomo di lettere che debba dipendere dai burocrati. A poco a poco, l'autore di -« I racconti di «Nazar Il'ic signor Sinebrjùchov ››, di « Cittadini stimati», di i« Gente nervosa ››,con i suoi aneddoti in diretta - skaz o divagazione - con la sua fiera pretesa di non essere « né comunista né monarchico ma russo ››, con la sua assenza nello sforzo di fiancheggiamento che gli scrittori compirono al tempo della grande guerra nazionale contro il nazismo, con la ripresa imperterrita dell'autobiografismo in « Prima del sorgere del sole ››, la cui pubblicazione fu avviata nel 1943 sulla rivista  « Oktjabr' ››, con quel suo imperversare in mezzo a quel mondo piccolo-borghese di sussieghi, piccinerie e ostinazioni che la rivoluzione non aveva saputo rimuovere, diventò inevitabilmente (insieme alla Achmàtova] il capro espiatorio della stretta di freni contro le  “tendenze non sane” in letteratura (cosmopolitismo, formalismo e, appunto egotismo), che comportò l'espulsione dei due dall'Unione degli scrittori e una non breve mora alla facoltà di pubblicare.
                                                                                                                             (continua)
 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

mercoledì 29 marzo 2017

La letteratura della terra e Vasilij Šukšin - pt. 1

Ed è questa, in fondo, una costante della cultura - e della letteratura russe: un valore indeclinabile, che non è un ripiegamento intellettuale verso le malie delle georgità o un cedimento di nostalgia alla natura, primigenio "provocatorio" della cultura.
E' una costante che ha una radice nella stessa tradizione della gente di campagna. La quale ha espresso nel canto la fedeltà alla propriaidentità e il proprio epos nei canti bylinici, autentiche occasioni divita collettiva indicizzate dal nomadismo dei cantori. La vita comunitaria dunque della gente della campagna è stata da sempre rinvigorita da questo tessuto connettivo, da questo patrimonio comunque che veniva esaltato nelle occasioni rituali di incontro - pesche stagionali, taglio dei boschi, ricorrenze religiose o etniche – ovvero
attraverso l'incessante itinerare degli umili artigiani che di villaggio in villaggio portavano, oltre al loro mestiere, il patrimonio, via via piú consistente, di questa melica corale contadina.
Le byline - res gestae cioè, avvenimenti di fatto accaduti, sedimento epico formatosi per gradi nei secoli con i bogatyriper protagonisti, a respingere ad una ad una le minacce che dall'esterno insidiavano la patria russa - sono dunque il patrimonio piú genuino del mondo rurale russo, soprattutto nel Sever[nord della Russia), nella Siberia e nei territori tenuti dal cosacchi.
Le byline sono il primo indice di una particolare spiritualità, lirica, fantasiosa e schietta, e di una sensibilità ruvida e appassionata che fascia la propria terra e la garantisce da ogni sfida piú o meno intimidatoria [al fondo, remoto, aleggia sempre costante e tenace lo spettro tartaro] che venga da fuori. E oggi l'esterno è la città,I'industrializzazione, il consumismo, con tutte le loro malattie sociali.
Accanto a questa espressione folk, spontanea emitica, v'è naturalmente nella cultura russa anche tutta una tradizione di attenzione alla terra e alla sua gente, che fu per secoli crucciata dalla servitù della gleba fino all'editto di emancipazione di Alessandro ll, del 3 marzo 1861.
Così in letteratura (e giusto per venire a tempi piú prossimi] dai vagheggiamenti idealizzanti di Sergèi Timofeevic  Aksàkov e dello stesso Ivan SergvèevicTurgénev, si passa nella seconda metà dell'Ottocento a tutta una produzione di rincalzo all`abolizione della servitú, una produzione che rivisita in lungo e in largo le miserie e le iniquità della vita contadina. Una tensione che avrebbe avuto probabilmente ancora in Lev Nikolàevic Tolstoj la sua espressione piú acuta e appassionata se il grande scrittore avesse condotto in porto il progetto del '77 -- l'anno della sua crisi - di un grande elogio del popolo delle campagne e della sua forza che si esprime soprattutto, appunto, nella devota coltivazione della terra.
E anche nel Novecento questa attenzione alla terra non smette, nei territori della letteratura. Ed è questa solerte auscultazione della campagna e della sua gente che šukšín prosegue, ponendosi in buona, in ottima compagnia. Impossibile in questa sede definire il quadro organico di questi interessi e di questa produzione. E' giocoforza procedere per nominazioni e per riferimenti; i quali però già indicano i sensi dell'estremamente modulata serie di approcci e di compromissioni con questa tematica.
Giusto per non rifarci direttamente al campione del realismo socialista, Maksìm Gorkij, ricorderemo alcuni dei suoi seguaci, quelli che piú direttamente, anche se non esclusivamente, seguirono la campagna e la sua gente nel lento moto di metamorfosi sociale e politica; e iniziarono l'inventario delle inferenze di questo cambiamento nell'anima del contadino russo.
Già nel corso della rivoluzione del 1905 Stèpan Gavriloviö Petròv detto Skitàlec, il “vagabondo” scriveva i suoi racconti sulla campagna russa, primo ragguaglio su un mondo che si muove. E tra i racconti di Sergej Nikolàevic Sergéev Ciènskij, uno degli esponenti del realismo critico prerivoluzionario, campeggia «Tristezza dei campi ››, acuminata parabola del superamento dei crucci per lo star bene.
Con grande forza espressiva Aleikséj Pàvlovic šapygin recupera le sue origini contadine e il timbro del mondo bilinico nel romanzo « 'L'eremitaggio bianco ›› che è del 1915: e poi, nel '27, colla rievocazione quasi filologica dell'epopea di quell'indomito`contadino che nel 1670 riuscí con la sua ribellione a far tremare il trono degli zar, Strèpan Razin, un precursore di Pugacëv. E šukšin infatti, come dicemmo, confermerà il significato storico di quella ribellione e la perenne attualità di quel gesto - il no detto a un mondo  lontano, assente, che si  fa vivo imponendo parametri, comportamenti ed esazioni - intestando a Razin il romanzo cinematografico «Sono venuto a darvi la libertà ››.
Prima della conversione alla drammaturgia - e « Pugaëëšcina » (t.l.: I tempi di Pugacëv] è nel 1924 il suo biglietto di visita come autore teatrale - anche Konstantin  Andréevic Trenëv, lui pure di origine contadina, fissò la sua attenzione sullo status della vita della sua gente in una serie di ben azzeccati racconti.
Autonomi rispetto a Gor"kìj ed anzi esponenti della diffusa corrente del realismo critico che precede la rivoluzione d'ottobre sono Semën Pàvlovic Pod'jàöev e lvàn Egoròvic Vladimirov. Essi son gli ultimi campioni di una linea di intelligenciia contadina, di formazione per lo piú autodidattica, che s'era spontaneamente e inorganicamente costituita nella seconda metà del secolo con il proposito di rendere testimonianza quasi cronachistica ai tempi e alle situazioni esistenziali e sociali della gente delle campagne. I loro racconti, sovente di vena autobiografica, sono estremamente interessanti oltre che come documento sociologico e come rilevazione del fermento politico che attraversa la loro gente, anche dal punto di vista linguistico perché si nutrono di quella espressività singolare, della rotta freschezza e arguzia di quel dialogo. Non a caso l'uno e l'altro diverranno dopo la rivoluzione diligenti rubricatori della "ricostruzione socialista" delle campagne. Le quali d'ora in avanti, anche in seguito al grande decollo dell'alfabetizzazione, avranno sempre meno autori “genuini”, espressi cioè direttamente dalle province per testimoniare la vita della gente dei campi sarà in aumento invece la schiera dei cantori d'elezione, prosatori e poeti che scelgono la terra come materia di canto e termine del loro ingaggio sociale.
Prima che questa proletarizzazione delle campagne e di conseguenza anche della letteratura sulla campagna venisse acquisita  fu quasi un'avvisaglia - uno scrittore di estrazione liberalborghese, Viktor Vasil’evic  Mùjzel, proprio “piegandosi” da gentiluomo sulla vita miserevole dei contadini e raccontandola, andò oltre la "disposizione" del nostro Verga e trovò il destro per accostarsi alla sinistra politica.
Chi invece questo passo non seppe e non volle fare, rifiutando anzi con il gesto eloquente dell'esilio le prospettive rivoluzionarie, fu lvàn Alekséevic Bùnin. In lui l'estrazione sociale - i suoi erano grossi proprietari terrieri ridotti male - determinò unidirezionalmente il plurimo impegno di letterato - non ebbe neanche studi regolari , impegno che però raggiunse una prima acme, dopo i racconti “preparatori”, in due romanzi, « La campagna » e « Valsecca ››, che all'inizio degli anni dieci consacrarono il suo grande talento di narratore, che otterrà il riconoscimento del Nobel nel 1933.
ln questa "lunga suite epico-lirica” in due tempi emerge la sua sostanziale fedeltà alla tradizione: nel recupero dell'umanitarismo ottocentesco, nella celebrazione della natura e delle sue sane lusinghe, nell'ossequio a un tema di fondo - la campagna e i rapporti tra padrone e contadini, accomunati in fondo alla severa e tribolata religione della terra - sempre scompaginato dal fantasmagorico irrompere delle vicende e dei protagonisti che conciliano ì loro dissidi aspri o futili nella consapevolezza d'una soggezione a un destino comune.
Contemporaneo di Bùnin, autodidatta e fedele fino in fondo alla patria russa, interprete tra i piú originali del realismo, capace d`una scrittura icastica, dalla quasi fisica palpabilità cosi lo giudicò Gor'kij - fu Michail Michàilovic Prìsvin. Egli tè probabilmente il piú alto interprete contemporaneo della pietas verso la natura colta come sfondo della vita umana; e della stupefazione dell'uomo, che fiorisce soprattutto tra l'umile gente creatrice di fiabe, di fronte alle meraviglie di quella: tensioni che trovano il loro vertice nella raccolta di novelle « Lo sgelo della foresta ››, 1945. 
                                                                                                                        (continua)

 Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

lunedì 27 marzo 2017

Espressionismo sullo Stretto




Oggi al Royal, per il ciclo organizzato dal circolo <<Barbaro» e dal Gruppo siciliano del Sncci, con il concorso dell‘amministrazione comunale, saranno proiettate le due parti del film di Fritz Lang.
Il dottor Mabuse é un dominatore senza scrupoli che guida una banda di assassini, falsari e altri criminali e con il loro aiuto terrorizza la società. Egli. Procedendo scientificamente, ipnotizza le vittime predestinate e sfugge all’identificazione assumendo identità diverse.
Lang girò questo film nel I922 ed è forse il suo primo film importante dopo <<Destino».
Le scene notturne di <<Mabuse» furono girate in studio. II treno sopraelevato, che allora emozionò il pubblico, era un treno giocattolo fotografato in studio e sovrimpresso alla scena, girata precedentemente, della strada di notte.

IL SOLDO, 12 aprile 1980

Organizzato dal circolo <<Barbaro»
Da oggi a Messina un ciclo
dei film
                                          dell’espressionismo tedesco
di Alfonso Moscato
C’è un film famoso <<Il gabinetto del dott. Caligari» (Das Cabinet des Dr. Caligari,1920) che a detta degli storici sarebbe l'iniziatore dell’espressionismo cinematografico tedesco. Oggi lo si può vedere come un giallo di discreta forza narrativa immerso in una congerie di elementi scenografici da baraccone da fiera. Ma può essere visto — ed è stato visto — anche in maniera differente.   Sarebbe un'archetipo, perché lo sforzo fatto nel film di coordinare scenari, interpreti, illuminazione e azione è sintomatico del senso di organicità strutturale che da questo film in poi si manifesta sullo schermo tedesco». Sarebbe anche un' anticipatore, essendo il personaggio di Caligari “il tipico precursore di Hitler in quanto usa il potere ipnotico per piegare al suo volere il suo strumento”.
Le frasi tra virgolette sono del sociologo Siegfried Kracauer, tratte dal suo Cinema tedesco dal <<Gabinetto
del dottor Calegari» a Hitler pubblicato in America nel 1947. Secondo Kracauer i film rispecchiano quei profondi strati della mentalità collettiva che giacciono più o meno sotto il livello della coscienza. Per cui l’indagine critica sul cinema tedesco degli anni 20 permette di approfondire la conoscenza della Germania prehitleriana, rivelando che all'origine dei film espressionisti c'è un morboso disamore dei tedeschi per la propria epoca: incapace di risolvere le proprie contraddizioni la borghesia tedesca si ridusse all’evasione in un universo fantastico.
Queste affermazioni di Kracauer furono ampiamente ironizzate da Umberto Barbaro il quale, nel suo <<Il cinema tedesco» mise in dubbio, addirittura, l'esistenza in Germania di un espressionismo cinematografico. Più drastici di Barbaro, tanti hanno detto che o tutto il cinema (migliore) è, anche oggi, espressionista o niente lo è. La discussione continua.
Pero alcune caratteristiche si possono evidenziare che, pur non essendo esclusive dei film attribuiti all'espressionismo, ci si trovano sempre e spesso tutte insieme; la caratterizzazione non realistica degli attori (ottenuta a volte con truccature orripilanti) l’importanza dell‘architettura, non di rado geometrizzante o bizzarra’; il demonismo; il misticismo.
L’espressionismo cinematografico tedesco si pub considerare una parte di quel più ampio movimento che si diffuse in Europa centrale tra il 1907 e il 1927, protraendosi, per lo spettacolo, fino al 1933. Fondandosi sull'inconscio o esplorandolo, l‘espressionismo cercava di forzare i limiti della <<normalità» per andare alle radici delle angosce delle aure o delle esaltazioni. L'espressionismo cinematografico si sviluppò soprattutto in Germania dal 1920 in poi. Quello che è curioso - ma non tanto- constatare come l’espressionismo trionfò nelle varie arti prima della guerra, nel cinema invece dopo la guerra. Il cinema al solito arrivava in ritardo arrancando dietro alle novità. (Un caso simile l’abbiamo avuto in Italia con il Neorealismo).
Non per nulla si formò, negli stessi anni, un movimento di reazione all'espressionismo visto come un'esperienza anacronistica e non popolare: la <<Nuova oggettività» i cui autori portarono sullo schermo la strada e i suoi personaggi e ci fu una pubblicistica di sinistra che cercò di interessare gli strati popolari a questo tipo di cinema-per-il-popolo.
Stranamente — come è piena di stranezze la storiografia - si è parlato più dell’espressionismo cinematografico che della <<Nuova oggettività» o anche del <<Cinema da camera» che, sempre in reazione al barocchismo estetico e morale dell’espressionismo, metteva in scena pochi personaggi e ambienti ristretti e realistici. Comunque, i nomi di sceneggiatori, registi, scenografi, attori abitualmente citati come espressionisti sono tanti e meritevoli.
Il ciclo che all'espr'essionismo tedesco dedica il circolo <<Umberto Barbaro» di Messina si ferma ad alcuni dei più noti, principalmente ai registi Fritz Lang e Friedrich Murnau dei quali vengono proiettati i film più significativi degli anni 20. Però Murnau si pose a un certo punto fuori, se non contro, la corrente espressionista, piegando verso il <<cinema da camera» di cui il suo <<L'ultima risata» è considerato il risultato migliore. Come si vede, i veri autori difficilmente si lasciano integrare in una prospettiva unica e unitaria.
Gazzetta del Sud / Anno 20  n. 96 / Giovedì 10 Aprile 1980

Ancora una volta il Don Orione va incontro al Barbaro. E sì, perché Alfonso Moscato è stata la mente, come Ubaldo Vinci il braccio, del cineforum Don Orione.



domenica 26 marzo 2017

先生




giovedì 23 marzo 2017

SETTE PERSONAGGI IN CERCA DI SPETTATORI

Abituare il pubblico a saper vedere il film

Quarta domanda: Nella “recensione” il critico quale criterio dovrebbe seguire?

LA SCALA: Sempre una critica obiettiva e spassionata.
ARENA: La critica deve essere sempre sincera. Il critico però, entrando in sala, dovrebbe abbandonare il bagaglio della sua preparazione per immedesimarsi in un qualsiasi spettatore, senza simpatie od antipatie preconcette. Insomma il critico deve spersonalizzarsi e contenere il suo giudizio entro certi limiti, senza andare a ricercare il «pelo nell'nuovo» ovverossia difetti irrilevanti, che solo una cognizione tecnica profonda può far cogliere.
STERRANTINO E CRISAFULLI: Quello che sente, mettendo sulla carta i sentimenti e le reazioni che in lui sono suscitati dalla visione del film. Tuttavia il critico non dovrebbe disdegnare di considerarsi uno spettatore qualsiasi, ricorrendo alla sua preparazione, laddove è necessario, per illuminare il lettore.
SCOZZARI: Non soltanto il racconto succinto della trama, ma anche una critica estetica; al film visto.
BELLAMACINA e CUSCINA’: Sincerità ed obiettività, senza esagerare. Insomma una critica per abituare il pubblico a saper << vedere >› il film, per contribuire ad un'educazione cinematografica dello spettatore.
LOTETA e CARNABUCI: La Critica deve essere obiettiva, chiara, semplice, scevra da intellettualismi. Cioè è indispensabile, soprattutto per far accettare agli altri il proprio giudizio.

MINACCIA DELLA TV?

Quinta domanda: La Televisione, in un prossimo domani, può togliere spettatori alle sale cinematografiche?

LA SCALA: Si. Nei primi tempi, però, una minima parte, perché l’alto costo degli apparecchi televisivi non consentirà a tutti l’acquisto. Tuttavia il cinema possiede nel “cinemascope” e nei successivi perfezionamenti l’usbergo contro ogni minaccia.
ARENA: Molto nei piccoli centri; una certa percentuale nel capoluogo. La T.V., l'ho detto anche in recenti convegni dell'AGIS, di cui sono un presidente regionale, in Italia è un serio pericolo se la nostra industria cinematografica non saprà reagire convenientemente come in America.  Il << cinemascope» è appunto l’antidoto alla T.V., il mezzo per incatenare alle sale cinematografiche quelli che sono gli spettatori tradizionali.
STERRANTINO E CRISAFULLI: Penso di si anche se l'alto costo del televisore nei primi anni limiterà il numero
degli abbonati Ma il cinema ha nella qualità, dei film e nelle realizzazioni, maestosi per dovizia di scenari e mezzi, le carte buone per contenere la minaccia. 
SCOZZARI: Non credo che potrà sottrarre una larga percentuale: Specialmente nei primi tempi, quando soltanto le classi abbienti potranno permettersi il lusso dell’apparecchio ricevitore.
BELLAMACINA e CUSCINA’: Si. E' uno spettacolo che può distrarre, seduti comodamente in casa. Perciò il «cinema ›› ha preso la contromisura: il << cinemascope ». «La Tunica» ha riportato un grosso successo e convincerà che dopotutto non si può abbandonare il «vecchio» cinema

LOTETA e CARNABUCI: La T. V. in un primo tempo toglierà spettatori al cinema come a tutti gli altri spettacoli, ma dopo il primo periodo di curiosità; l’afflusso del pubblico al cinema tornerà normale.

 Gazzetta del Sud  Martedì 16 marzo 1954

mercoledì 22 marzo 2017

Ieirofania e cratofania in Stanley Kubrick


Nel documentario Dio è il regista, nel film il regista è Dio. (Alfred Hitchcock)

ln 2001: A Space Odissey [1965-68) di Stanley Kubrick, più o meno direttamente ispirato al romanzo “Childood's End” di Arthur C. Clarke, molti si sono chiesti corsa significhi il monolito nero che si vede ricorrere più volte nel film, a sollecitare le successive fasi dell'evoluzione dell'umanità. Si le assistito così a tutta una proliferazione di conati interpretativi, la maggior parte dei quali hanno scomodato la divinità. Ma la risposta è un'altra. Forse è stata la sua evidenza a provocare effetti di accecamento.
Un bicchiere cade al suolo dal quale trapela la luce e provoca un gesto di raccolta da parte di David Bowman (Keir Dullea), ormai giunto al termine del Viaggio, al cospetto del proprio Doppio morente. È seguendo questo gesto lentissimo e circospetto che scopriamo l'ultimo dei suoi « lo », vecchissimo le fetale, colto nel gesto con cui si stabilisce o ci si separa da qualcosa; al termine di questo movimento scopriamo il monolito nero, a fianco del capezzale dell'Ultimo Uomo, quale fattorie di una nuova rinascita. La macchina da presa non si lascia intimidire e punta dritta su «di esso [si vedrà che non è il caso di chiamarlo Lui] con una carrellata in avanti. Adesso, quando in campo c'è solo il monolito nero, la sua superficie coincide con quella dello schermo rabbuiatosi all'improvviso [come in un « fondu ››]. Subito dopo lo schermo nero, e cioè la superficie del monolito [dato che non ci sono stati stacchi o altri « fiat ››], si riaccende per effetto dell'apparizione di innumerevoli stelle luccicanti. È in questo momento che sorge I' immagine di ciò che è andato maturando: l'Uomo Nuovo nato da un atto di auto-creazione davvero perfezionistica in quanto frutto di vicissitudini interamente umane. Ecce Homo.
È nella conclusione del film che finalmente si mostra cosa sia il monolito nero; una dissolvenza in nero, un elemento di notazione cinematografica, un effetto della scrittura cinematografica. Anche qui l'unica intrusione tollerata da pane della divinità è quella del Regista-Dio-Demiurgo. la cui apparizione è garantita dalla connotazione della macchina da presa di attributi [fenomeno che si era già riscontrato nelle analogie tra macchina da presa e Macchina dei Tempo in Wells) che ne fanno la più mondana e secolarizzata delle ieirofanie e cratofanie.
Franco Ferrini, in BN fascicolo 3/4, 1974

lunedì 20 marzo 2017

Concettualizzare i sentimenti, Sentimentalizzare i concetti

La musica di un film può anche essere pensata prima che il film venga girato (cosi come se ne pensano i volti dei personaggi, le inquadrature, certi attacchi di montaggio ecc.): ma è solo nel momento in cui viene materialmente applicata alla pellicola, che esso nasce in quanto musico del film. Perché? Perché l'incontro e l'eventuale amalgama fra musica e immagine ha caratteri essenzialmente poetici, cioè empirici.
Ho detto che la musica si “applica” al film: è vero, in moviola l'operazione che si compie è questa. Ma l'“applicazione” può essere fatta in vari modi, secondo varie funzioni.
Lo funzione principale è generalmente quella di rendere esplicito, chiaro, fisicamente presente il tema o il filo conduttore del film. Questo tema o filo conduttore può essere di tipo concettuale o di tipo sentimentale. Ma per la musica ciò è indifferente: e un motivo musicale ha la stessa forza patetica sia applicata a un tema concettuale che o un tema sentimentale. Anzi, la sua vera funzione è forse quella di concettualizzare i sentimenti (sintetizzandoli in un motivo) e di sentimentalizzare i concetti. La sua è quindi una funzione ambigua (che solo nell‘atto concreto si rivela, e viene decisa): tale ambiguità funzione della musica è dovuta al fatto che essa è didascalica e emotiva contemporaneamente.
Ciò che essa aggiunge alle immagini, o meglio, la trasformazione che esso opera sulle immagini, resta un fatto misterioso, e difficilmente definibile.
Io posso dire empiricamente che ci sono due modi per “applicare” la musica alla sequenza visivo, e quindi di darle “altri” valori.
C'è “un’applicazione orizzontale e un’applicazione verticale.
L’applicazione orizzontale si ha in superficie, lungo le immagini che scorrono: è dunque uno linearità e una successività che si applica a un'altra linearità e successività.  In questo caso i “valori” aggiunti sono valori ritmici e danno un'evidenza nuova, incalcolabile, stranamente espressiva, ai valori ritmici muti delle immagini montate.
L’applicazione verticale (che tecnicamente avviene allo stesso modo), pur seguendo anch'essa, secondo linearità e successività, le immagini, in realtà ha la suo fonte altrove che nel principio: esso ho lo suo fonte nella profondità. Quindi più che sul ritmo viene od agire sul senso stesso.
I valori che essa aggiunge ai valori ritmici del montaggio sono in realtà indefinibili, perché essi trascendono il cinema, e riconducono il cinema alla realtà, dove lo fonte dei suoni ha appunto una profondità reale, e non illusoria come nello schermo. In altre parole: le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria, analoga a quella che in pittura si chiama prospettiva, benché infinitamente più perfetta.
Il cinema è piatto, e lo profondità in cui si perde, per esempio, una strada verso l'orizzonte, è illusoria. Più poetico è il film, più questa illusione è perfetta. La suo poesia consiste nel dare allo spettatore l'impressione di essere dentro le cose, in uno profondità reale e non piatta (cioè illusoria). Lo fonte musicale - che non è individuabile sullo schermo - e nasce da un “altrove" fisico per suo natura “profondo” ~ sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della
vita.
Pier Paolo Pasolini

Nota allegata all’album GM del 1983 Morricone – La musica nel cinema di Pasolini