giovedì 12 marzo 2020

Antonio Gramsci a Hollywood



Jay Roach, Bombshell, 2019

Chi l'avrebbe mai detto che Antonio Gramsci, segretario del Partito Comunista d'Italia, sarebbe divenuto produttore a Hollywood!

mercoledì 11 marzo 2020

Rule number one



“Rule number one of corporate America, you don't sue your boss”.
“Regola 1 del capitalismo americano: non denunci il tuo capo”.
Jay Roach, Nicole Kidman, Bombshell, 2019

lunedì 9 marzo 2020

Carlo Campogalliani

I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARLO CAMPOGALLIANI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI
Toc, toc …,
Chi è là?
Fasulein, a barbir, il barbiere.
Aspetta ben un monumento.
Risata dei bimbi innanzi il casotto dei burattini, sotto il voltone del Podestà, la volta nera dei secoli nel centro di Bologna. Come dimenticare questo trillo d’argento nel segreto della metropoli rutilante dell’ Emilia?
I burattini avevano tanto da dire nella Bologna di cui eravamo studenti, e non soltanto sotto il voltone del Podestà! Ricordo una festa in cui il casotto dei burattini celava la contessina Isolani e Alfredo Testoni improvvisanti innanzi ad un elegante uditorio: e quei singolari “burattini in persona”, specialità tutta bolognese, per cui attori talvolta eccellenti rappresentavano, burattineggiando alla perfezione, drammi e farse.
Campogalliani! Era il sovrano di quel mondo: un burattinaio celebre, che i bolognesi consideravano come la cioccolata Maiani, insuperabil vertice della squisitezza. Il culto per quel nome s’è allora così approfondito in me, che ad esso sento ancor congiunto il fiore delle mie feste galanti ed il mio amore per la truculenza burattinesca, la sola che io tolleri in quanto non retorica dell’orrido, come la truculenza ordinaria, ma brivido fantastico e trillante sicumera.
Campogalliani: è ancora per me la festa dell’assurdo, che mi carezza il cuore: la bionda tedesca che mi traeva al centro d’un immenso cortile bolognese, perché le sedessi accanto e le interpretassi le facezie d’un Fasulein che imperversava nei freddi bagliori di una lampada ad acetilene. Ah, festa magica d’argento, degna d’un Piazzetta o d’un Guardi, innanzi ad un drammone burattinesco, in cui Fagiolino, tra lazzi gioviali, accumulava cadaveri, sul banco dei giudici, in nome della giustizia popolare!
Il regista Carlo Campogalliani, emiliano anch’esso, ha, senza dubbio, qualcosa del genio della famiglia: la truculenza inventiva, la popolaresca faraggine. Quante volte i suoi film hanno riscosso in me la nostalgia delle mie feste galanti burattinesche di Bologna, o, più precisamente, per un eccesso di truculenza, mi hanno costretto a rifugiarmici! Il Campogalliani regista dà un po’ troppo nella truculenza ordinaria, nella retorica dell’odio, in quel ch’io non amo. Mi spiegherò con qualche esempio.
Carlo Campogalliani è un uomo che, dal 1914 ad oggi, in ventotto anni, ha diretto una settantacinquina di film; ma egli stesso, modesto quanto laborioso, ci fa capire che non val la pena di ricordar tanti titoli e, dando un esempio di spiritosa discrezione, si limita a rammentarcene una mezza dozzina. Sulle orme di qualche storico, noi dovremmo limitarci a ricordarne uno solo, del 1914: Maciste contro la Morte . E’ un titolo perfettamente rappresentativo del genere campogallianesco e ci ricongiunge col Campogalliani bolognese, col genio della famiglia, in quanto, con un Fasulein al posto di Maciste, potreste trovarlo annunciato, in uno stampatello maiuscolo, sotto il volto del Podestà o presso un altro casottino celebre, ove un forzuto e gioviale eroe stia per accumulare cadaveri sul banco dei giudici.
Ma non è questo ancora il regista ch’io conosco. Io ricordo d’avere imparato a conoscere il regista Campogalliani nel film La lanterna del diavolo (1934). Era là la più orripilante storia di malfattori, montanari, e, poiché allora non c’era film senza un tabarin, anche quei malfattori d’alta cima avevano voluto il loro tabarin e la loro vampira. Che cosa fosse quel “paradiso artificiale” d’alta montagna, quel covo di sinistre raffinatezze, è cosa ch’io non vi saprei dire. Era un tal vertice dell’assurdo, che, per tollerante ch’io fossi, mi rivoltava e “mi ripigneva là dove ‘l sol tace”: alla prima giovinezza, cioè, al Campogalliani più vero e maggiore, quello riposante, ch’aveva lumeggiato di tanto sorriso e di tanta argentea luce i miei ricordi. Quella vamp montanara in calze di seta, dalle occhiaie bistrate, golfi della lusinga e dell’orrore! Ahi, quanto diversa dalla rosea bionda che m’aveva appreso come Fagiolino sapesse essere gaio anche ammonticchiando cadaveri, e come due amici possano amare la stessa donna e dividersela in perfetta pace, quale tenero crafen o croccante kiffel. Adorabile e profonda saggezza del Campogalliani bolognese, come mi parevi tradita dalla tetraggine, dal lugubernio del Campogalliani regista!
Fedel in questo al genio bolognese della famiglia, il Campogalliani regista è. Innanzi tutto, l’uomo che ha bisogno d’inventare il suo drammone, la sua grossa macchina: è l’uomo che ha ancora la fantasia dell’orrido: o meglio, che la ritrova in sé, sempre più infantile ed imperiosa col passare degli anni. Da giovane, si rassegnava a filmeggiare tele drammatiche come Romanticismo (1914) e, sino a pochi anni or sono, anche tele brillanti come I quattro moschettieri (1936): ma nell’ultimo cinquennio il regista Campogalliani ha bisogno di farsi un soggetto di suo gusto, di montare un gran truculento macchinone, di lugubrrizzarselo a suo talento. Quest’esigenza è diventata indeclinabile, atavica, oseremmo dire. Ma finché fantastica e soggettizza, il Campogalliani regista può dirsi ancora ispirato dal demone familiare. Il guaio serio comincia quando deve tradurla in cinema, la sua macchina, e non trova più che un’infilata d’oleografie senza colore, una più arruffata e grigia dell’altra. Piccolo, nitido boccascena dell’atavito teatrino, tutto colore, tutto scintille! Aurora sfringuellante della fantasia anche attraverso i gelidi abissi dell’orrido, dove, dove sei fuggita?
Il lugubre, il macchinoso di cotesti drammoni illividentisi scheletrizzanti nell’Artide filmistica, come cercasse di vecchie navi, fa talvolta una gran pena al cuore ansioso di farfalle solari e memore dell’antico Eliso. Eppure, anche cotesto sperduto della festa burattinesca padana, cotesto grigio naufrago dell’Artide cinematografica, ha i suoi felici momenti.
Io ho seguito con simpatia cordiale il drammone campogallianesco e più rappresentativo, Il bravo di Venezia: o, meglio, l’ho seguito con la stessa attenzione ultravigile con cui avrei potuto seguire il dramma faragginoso d’uno dei tragici elisabettiani minori. Ebbene: debbo dire che la mia attentissima simpatia ha avuto il degno premio.
Ad un certo punto, il drammone, affastellato e torvo nel suo grigiume, s’illumina. Si è nella casa del Bravo, del tremendo boia: ed il vecchio servo, che teme in ogni rumore la voce satanica d’un denunciatore che porti una nuova vittima, è pervaso da un folle orrore. Non so neppur io per quali vie del senso o dello spirito, o dell’uno e dell’altro insieme, ma è certo che la scena filmistica raggiunge qui d’improvviso l’altezza d’un vero tragico orrore. Un felice caso, forse, ha voluto che il sovraccarico d’effetti, sotto cui il lugubrizzatore stava per soffocare questa scena, non si avvertisse. Mi dicono che quel servo dovrebbe essere cieco e che questo, secondo le intenzioni del regista, dovrebbe giustificare il terrore. Ma nessuno avverte, per fortuna, cotesta cecità di cui non c’era affatto bisogno: ed il terrore, appunto perché naturale e candido, può diventar persuasivo. Una squisita lezione di semplicità attraverso quest’affastellatore ampolloso, che ha disertato il nativo piano dell’orrido infantile e trillante.
Restare infantili: è il suo imperituro segreto della forza e dell’allegria, sia, tremenda o sia leggera. Avere anche in faccia ai pedanti che riformano la lingua, il coraggio delle proprie cantonate, perché la vita è tutta una cantonata che soltanto col coraggio si raddrizza e ritrova un significato. Ecco quel genere di saggezza che manca al nostro troppo lugubre Campogalliani. Portare qua e là, accanto ai crocevia solatii, o per viali popolosi o per cortili festanti, il proprio casottino leggero, e improvvisare a cuore ugualmente leggero: ecco una gloria che il nostro regista non dovrebbe mai dimenticare quando s’accinge a coprir di negrofumo le cinematografiche superfici. Più semplicità, più festa, più sole, la semplicità del vero infantile e del vero tremendo, è quel che occorre ai suoi film. Modena e la Ghirlandina, Bologna e il Podestà: tutta a forza e la soavità della pianura padana, attraversata da un cuore in festa: ecco quel che dovrebbe sountare un certo giorno, in un film di Carlo Campogalliani.
Nel regista Campogalliani, presso alla torbida e soverchiante vena drammatica, mi par di scorgerne una più umile, più limpida, in film come Stadio e Montevergine. Questa limpidità, più franca, più scorrevole, dovrebbe, un certo giorno, prevalere. Aver tanto lavorato e non veder mai chiaro, dev’essere pur penoso anche per un lavoratore paziente come questo.
Nessuno vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva: e, soprattutto, che vada verso il popolo con una più schietta semplicità, con un più ingenuo orrido, con una più leggera fantasia.
Eugenio Giovannetti

Opere rappresentative di Carlo Campogalliani: Romanticismo, Maciste contro la Morte (1914) – Il medico per forza (1930) – La lanterna del diavolo (1931) – Stadio (1934) – I quattro moschettieri (1936) –Montevergine, La notte delle beffe (1939) – Cuori nella tormenta (soggetto e regia), Il cavaliere di Kruia (1940) - Il bravo di Venezia (soggetto e regia) (1941) – Perdizione (in lavoro).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 5  31 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Voglio vivere così  di produzione Sangraf –Pegoraro con Silvana Jachino, Ferruccio Tagliavini, Luigi Almirante, Carlo Campanini, Giovanni, Grasso, Nino Crisma.

domenica 8 marzo 2020

Girls in horse opera



DA BELLE PUPATTOLE A TERRIBILI “PISTOLERE”
Le fanciulle del West
Nei nuovi films americani della prateria si è trasformata l’eroina: è
divenuta anch’essa un’avventuriera e va in giro con le armi alla cintura

Il pubblico non bada, ma qualcosa va mutando nella formula del più tipico, film americano, quello West. E non ci bada perché la trasformazione avviene gradualmente, per lenti passaggi. Non potrebbe essere diversamente; guai ad apportare radicali e subitanei mutamenti a un tema come questo che da oltre cinquant'anni (i primi films del genere datano dal 1903) continua a riscuotere un successo non mai esausto. Si cominciò a fabbricarli in serie, oggi si chiamano: «westerns» o films della prateria, o films dei pionieri; ma all'inizio si dissero «horse operas» ovvero films di cavalli. Dalla rozza psicologia dei films prodotti con meccanica stereotipia, negli anni in cui la sola Compagnia detta «Bigon» riusciva a metterne assieme ben 185 nello spazio di nove mesi, alla più approfondita analisi dei tipi e delle situazioni, quale oggi si tenta, la transizione non risulta meno importante per il fatto di essersi compiuta senza bruschi mutamenti.
L'interminabile romanzo dei colonizzatori degli Stati occidentali del Nord - America, derivato dall'urto fra gente perbene e avventurieri senza scrupoli nel secolo scorso subito dopo le immigrazioni dell’Europa (scandinavi, specialmente inglesi e tedeschi: ossia presbiteriani, battisti, luterani) è ancora oggi raccontato come un’antitesi fra bene e male. Ma la divisione fra i due mondi non è più netta come nei primi films, e sempre più spesso ci s'imbatte in tipi complessi, buoni e cattivi assieme, come è in realtà la maggior parte di noi e specie nelle società, primitive.
Gli uomini sono dominatori di «westerns». Attori atletici, permanentemente a cavallo, impersonano gli eroi di questo capitolo di storia divenuto leggenda. I loro nomi acquistano notorietà, l'uno succedendosi all'altro, da Broncho Billy che fu il primo a Tom Mix che fu il secondo, a William Hart che gli successe e poi via via sino ai contemporanei, fra i quali, emerge John Wayne. Anche i nomi dei loro cavalli sono divenuti popolari. E le donne? Le fanciulle del West ebbero sempre, in questi films, una parte quasi passiva, comunque modesta; ed è proprio il loro contributo che ha dato caratteristiche, ora, ai films della prateria.
Furono per molti decenni solo belle pupattole. Si trattava quasi sempre, della vezzosa figlia di un proprietario di una fattoria, ingiustamente vessata dai predoni, o costretta ad un matrimonio odioso con un ricco furfante. Il baldo «cow - boy» aveva il compito di battersi solo contro tanti, fu la sua salvezza e di sposarla all'epilogo. Più tardi primeggiano figure femminili di natura spregiudicata: cominciarono a battersi, ebbero cavallo e pistola.
Nella terza fase si ammise che potesse trattarsi di ballerine o di cantanti da taverna per cercatori d’oro; in certi casi, la loro purezza poté contaminarsi e ci si decise di accettarle anche come cortigiane ma non dissolute: comunque ansiose di redenzione ballavano il «can - can» provocando frenetici entusiasmi di omaccioni zuppi di «gin» che esprimevano il loro consenso fragoroso sparando per aria con l’una o l'altra delle due pistole che portavano alla cintura; quando non sparavano con tutt'e due e non prendevano di mira le bottiglie o la testa dell'oste. Dipendeva dal grado di euforia e dal temperamento.
Oggi e per opera del regista Ford, la fanciulla del West non vive di vita riflessa, alla ombra dell'eroe; oggi ha anche essa i suoi umori e i suoi slanci. Tra uomini avventurieri, donne avventuriere.
Spesso l'eroina è tanto sarcastica quanto piena di coraggio; la compagna intrepida dei «desperados» Marlen Dietrich protagonista di Rancho notorious, ha dato un esempio di questo nuovo tipo di donna per «cow - boys» prive di scrupoli e scanzonata quanto gli uomini che le stanno attorno. Altre volte come in Duello al sole, o come ne Il mio corpo ti scalderà è toccato a Jennifer Jones o a Jeane (sic) Russell di raffigurare creature di furibonda sensualità talvolta in chiave di tragedia e talvolta di satira. Dalla fanciulla angelica, debole e apprensiva alla scatenata erinni.
Probabilmente ai tempi dei cercatori d'oro e delle battaglie contro gli indiani, vissero nei paesi senza legge del West, donne dell'uno e dello altro tipo oppure angeliche e diaboliche insieme. E se moralmente ci urtano, non c'è dubbio che le ragazze meno serafiche offrono materia più incandescente ai films. Come i paesi miti e felici, anche le donne miti e felici sono senza storia. Ad ogni modo, lo studio psicologico s'è raffinato nelle pellicole della prateria, da quando le protagoniste non sono soltanto dolci creature, pronte a sventolare il fazzoletto quando torna a casa, attraverso i sentieri tra le rocce, il cavaliere prode che ha sgominato i nemici. Le pellicole del West hanno conservato molto della loro originaria struttura; ma anche se non sempre appare parecchia strada s'è fatta da mezzo secolo fa, allorché Broncho Billy ne metteva assieme cinque ogni settimana.
E' noto che quando gli chiesero come facesse a trovare soggetti per tanti film egli rispose, con spavalderia da «gaucho»: Vede noi non cambiamo i soggetti, cambiamo soltanto i cavalli.
Ed è anche vero che la donna ha fatto troppo cammino nella vita sociale nostra e di altri paesi; ella sa combattere, affrontare i casi, le avversità della vita, sa guardarsi dalle insidie del mondo, sa che ha una missione da compiere a bene dell’umanità con qualunque mezzo, con molto impegno, ed è cosciente che sta sopratutto in lei la possibilità di portare nuove affermazioni ai canoni delle convivenze sociali. 
TERESA CAVALIERI
GAZZETTA DEL SUD 7 giugno 1955


giovedì 5 marzo 2020

Apertura al pubblico



Nella foto l'ingresso e la scala per la tribuna del cinema Metropol di Messina tra via Garibaldi e piazza Filippo Juvara.

mercoledì 4 marzo 2020

CINE ma POPolare - comici contro melodrammatici



 Questa scissura fra intellettuali e non intellettuali, fra cultura e ceti popolari è un dato tipico dell'attuale realtà italiana nel cinema come nelle altre arti. Anche le opere del realismo cinematografico e letterario di questo dopoguerra – tranne alcune poche significative eccezioni - non hanno profondamente interessato e commosso il più vasto pubblico di spettatori e lettori, che vive fuori della cerchia degli amatori e dei cultori specializzati.
Quali le ragioni di questo fenomeno? Non pretendiamo certamente di esaurire in poche righe la grossa e complessa questione: ci limiteremo ad alcune considerazioni, che ci sembrano importanti, esortando altri ad intervenire con il contributo della propria intelligenza ed esperienza.
Qualche anno fa, assistendo in un cinema di Sora (Frosinone) alla proiezione di Tormento, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare le impressioni di un artigiano e di un piccolo commerciante: ambedue, pur criticando qualcuna delle molte ingenuità ed improbabilità disseminate nel film, espressero parere favorevole perché «quel che conta è la vittoria finale dell'innocenza e della giustizia sui ribaldi e sulle stesse avversità della sorte». Questo, senza dubbio, non è tanto un giudizio critico e di gusto, quanto un atteggiamento etico, che è condiviso dalla stragrande maggioranza degli spettatori di provincia e, in genere, dai pubblici popolari. Se in codesto atteggiamento la grossolanità del gusto e la carenza critica sono aspetti negativi, la sanità della struttura morale, malgrado l'ingenuo radicalismo, ne costituisce l'aspetto positivo. Non altrimenti potremmo spiegare i il formidabile successo commerciale dei numerosi film melodrammatici prodotti in questi ultimi anni. La presenza nel cast di nomi famosi e cari alle folle (Nazzari, Sanson, Marzi) può salvare un film il cui scenario sia del tutto inconsistente (le statistiche degli incassi dimostrano che uno scenario nullo, senza attori famosi, si risolve quasi sempre in un disastro commerciale), ma non determinarne il trionfo. In altri termini, il divismo - pur senza disconoscerne il peso – non basta da solo a far superare il mezzo miliardo d 'incasso: questo è anche il parere di numerosi esercenti di provincia da noi interrogati sull'argomento. Ad esempio, Core 'ngrato, con un cast niente affatto celebre presso i pubblici di provincia e di paese (Del Poggio, Ferzetti, Latimore), ha incassato finora quasi seicento milioni e continua a mietere successi: ciò accade perché lo scenario è riuscito ad interessare e commuovere i più umili spettatori, pur senza varcare i confini della convenzione melodrammatica. L'abile mestiere del regista, il tessuto emotivo della trama e il finale comunque edificante sono, in linea di massima, bastevoli garanzie di successo commerciale. Notiamo ancora che i grandi pubblici popolari sono costituzionalmente avversi ai film che esprimono una concezione della vita radicalmente pessimistica o comunque scettica: accettano la dialettica del bene e del male, della gioia e del dolore, della fortuna e della sfortuna, però desiderano una soluzione ottimistica o, quanto meno, aperta alla speranza. Semplicismo, d'accordo; preferibile comunque a certo calligrafismo ancora in voga o, addirittura, all'ipocrisia dei vari "messaggi".
Il minor successo commerciale dei film comici a fronte di quelli melodrammatici ci dice che lo spettatore popolare non vuole ridere ad ogni costo e considera il cinema come uno "svago" in senso lato, una variazione importante nel ritmo consueto della sua giornata: questo, sicuramente, è un aspetto positivo della semplice psicologia popolare. Invece, assai di frequente ci è accaduto di sentir dire a certe persone cosiddette colte che loro vanno al cinema solo per distendere i nervi e che quindi vogliono ridere, ridere e ancora ridere: i film che tentano di scuotere l'inerzia dello spettatore, sollecitandone la riflessione e l'autentica commozione, sono classificati da costoro dei "mattoni"· (continua)
CARLO SANNITA 
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre


martedì 3 marzo 2020

Legge di guerra



Ci sono dei film dimenticati che oggi resuscitano grazie all’operosità di alcuni attivisti del nostro tubo quotidiano. E’ il caso di Legge di guerra di Bruno Paolinelli (1923-1991) che richiama i film di Rossellini di quel periodo. Il film andò in censura e successivamente nelle sale nel 1961. La regia di Paolinelli è sobria ma efficace per l’apporto di Giuseppe Berto che ogni tanto per sbarcare il lunario scriveva per il cinema. A lui si affiancano sul set Aldo Scavarda, Camillo Bazzoni, Arturo Zavattini e Vittorio Storaro; il gruppo degli attori da Mel Ferrer, una volta tanto nel personaggio, Peter Van Eyck, Jean Desailly che subito dopo sarà con  François Truffaut ne La Peau douce e un nutrito gruppo di attori jugoslavi visto che era una coproduzione con la Jugoslavia.  Senza alcuna retorica il film ci mostra le scelte difficili che a volte dovettero fare i partigiani per liberare la nazione dai nazisti. Bruno Paolinelli sarà anche il produttore di un altro interessante film, questa volta in coproduzione con la Francia: La Cecilia ‒ Storia di una comune anarchica di Jean Luis Comolli.