David Lean, Brief Encounter,1945
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
lunedì 25 novembre 2019
domenica 24 novembre 2019
giovedì 21 novembre 2019
Pasolini/Dovzenko
Aleksandr
Dovzenko, Taccuini
Sono
stato in questi giorni all’università di Trieste; anzi, per essere esatto alla «Casa
dello Studente», per invito, sia dell'Arci che ha organizzato l'«autogestione»
della «Casa dello Studente», sia, inizialmente, di un gruppo di studenti che
segue un corso sul cinema italiano degli anni Sessanta, tenuto da Lino Miccicchè.
C'erano
circa settecento studenti, il grande e nudo salone era gremito; ma silenzioso,
ordinato. Il tema del dibattito era un tema trattato da me, frammentariamente,
proprio su queste pagine: Cultura borghese – cultura marxista
- cultura popolare. ….
…
Oltre all’adorabile Marianne Moore, offro alla meditazione dei giovani marxisti
anche il libro di un regista sovietico che, provenendo dagli anni Ruggenti del
formalismo russo, ha dovuto vivere appunto il periodo del culto della
personalità e del realismo socialista: Aleksandr Dovzenko. Strano, ma anche a
lui che faceva film (quei pochi che riusciva a fare) sul nativo mondo ucraino,
affrontando i temi della Rivoluzione attraverso la naturale concretezza realistica
del poeta, da una parte, e dall’altra attraverso la squisitezza tecnica, così
asciutta, netta, inventiva, priva di ogni specie di sentimentalismo, anche formale,
della Scuola formalistica - anche a lui, e attraverso la viva voce di Stalin in
persona, veniva consigliato di entrare in fabbrica e di vedere in un operaio
comunista che vi lavorava l’unico modello umano positivo possibile.
Così
il povero Dovzenko — come il suo amico Majakovskij - come i suoi colleghi più
autorevoli Ejzenstejn e Pudovkin - è stato costretto per tutta la vita a difendere
la sua ideologia formale adattandosi ad accettare discussioni tanto interminabili
quanto cretine. Dall’altezza intellettuale degli anni Venti, in cui si era formato,
è stato costretto a degradarsi a un livello intellettuale di una bassezza
penosa, tutto fatto di luoghi comuni, di ricatti accademici, di confronti puerili.
Dovzenko non era un uomo forte, e non era molto forte neanche come scrittore.
Il suo lungo martirio, forse proprio per questo, appare in tutta la sua spaventosa
miseria nei Taccuini che lo testimoniano. Il dover difendere il minimo
ovvio diritto possibile di un autore, contro un’ignoranza di carattere, si, franchista
o fascista, senza per questo disperatamente venir meno alla fede comunista
(rinunciando a qualsiasi specie di «gesto») vale certamente la Siberia; se non è
peggio.
Pier Paolo Pasolini
Settimanale TEMPO, 12 aprile 1974
mercoledì 20 novembre 2019
Un leone a Culver City - Rudolph & Alla
Il mito di Valentino
La "Metro Picture Corporation" era stata fondata nel 1915 da un gruppo di distributori di film, ribellatisi al monopolio della "Motion Picture Patents Company" e passati alla produzione, sotto la
presidenza di Richard Rotbland. Nel 1919 gli
studios della Metro venivano acquistati da Marcus Loew, padrone di un'importante catena di sale cinematografiche,
e dal suo socio Nicholas Schenck, ai quali faceva capo la "Loew's Consolidated Enterprises". La produzione della nuova " Metro " non tardò ad affermarsi sul piano anzitutto della qualità, grazie al
successo di alcuni film di prestigio, il più famoso
dei quali rimane senza dubbio The Four Horsemen of the Apocalypse ("I quattro cavalieri dell'Apocalisse", 1921), di Rex Ingram, tratto
dal popolare romanzo di Ibanez
ridotto per lo schermo da Juné Mathis. Affidato a un
regista giovane e sufficientemente malleabile, il film fu soprattutto il risultato -
spettacolarmente straordinario -
di un considerevole sforzo produttivo, un'opera cioè che
pur non recando il segno di una
personalità dominante si segnalava all'attenzione della
critica come
il prodotto di una vasta ed affiatata collaborazione, costruito
essenzialmente in funzione di un
grande successo di pubblico. La risonanza del titolo e del soggetto
avrebbe inoltre supplito
alla mancanza di grandi nomi di "stars". The Four Horsemen fu
infatti il film delle rivelazioni: lngram e la Mathis in
primo luogo, che da quel momento divenivano
rispettivamente un regista e una scenarista adatti a
produzioni di grande impegno; Alice
Terry, la protagonista femminile, promossa di punto in
bianco al rango di "star
"; e infine – la più sensazionale di tutte
- Rudolph Valentino (un
oscuro attore italiano, passato
fino ad allora quasi inosservato in convenzionali ruoli di "vilain'')
che con l'insolito personaggio di "Julio
Desnoyers" portava sullo schermo un tipo inedito di "eroe", destinato a rivoluzionare i canoni del
fascino virile allora in voga. Fra i film cui Valentino
prese parte alla Metro, prima
di passare alla Paramount, vi fu
anche Camille (La
signora dalle camelie,
1921), con Alla Nazimova, la
più intellettuale e sofisticata
delle attrici del tempo, la quale
interpretò e persino produsse per la ditta
alcuni film ricordati di solito per una certa quale stravaganza
della loro impostazione
figurativa spesso in aperta
polemica con la produzione corrente: uno
di questi
fu The Red Lantern (1919), diretto da Albert
Capellani. (continua)
Fausto Montesanti
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE
Nella prima foto Rodolfo Valentino in The Four Horsemen of the Apocalypse (I quattro cavalieri dell'Apocalisse,
1921), di Rex Ingram; nella seconda Alla Nazimova in The Red Lantern (1919), di Albert Capellani.
domenica 17 novembre 2019
GIOVACCHINO FORZANO
I REGISTI (senza peli sulla lingua)
GIOVACCHINO FORZANO
DI EUGEGIO GIOVANNETTI
lmmobil resta a ver la terra
inchina un ginocchio a pregar ...
La paterna baritonal voce di Guglielmo Tell quanta onda
d'immagini sommuove dalle perdute stagioni!
Tutta un’età, cui volti ad essa appartenenti e di cui essa
dolcemente si colora, ecco risollevare, d'un tratto sull'ala grave del canto! Profondità, trepide della memoria,
pieghe avvolgenti del paterno mantello, che solo la baritonal voce sa
riscuotere e ricomporre intorno all'algore della mental solitudine, eccovi
ancora, a sommo dei pensieri, con le note di papà Rossini cui l'anima
s’affidò e s’affida.
Al primo freddo d'autunno non ci avvolgiamo ancora di quella
tal voce, di quel tepor luminoso cha riaffiora d'improvviso in noi dalla grande
estate ottocentesca della passione e della patria? I solari e accurati volti
della nostra estate paesana, della nostra «stagione d'opera» in cui quell'estate
culminava, non si riassunsero un giorno nel volto di quell’onesto baritono che
dette al nostro provinciale teatrino un esemplare, un indimenticabile Guglielmo
Tell?
Quanto di questo buon pathos baritonale, grave e luminoso,
scenografico e carezzante, cui l'anima non sa resistere anche se la mente protesti, Giovacchino Forzano ha
saputo portare nel cinema italiano! Che qualcosa protesti innanzi ad un film di
Giovacchino accade molte volte, in quanto la nostra mente, nella sua mattinale
limpidità, in cui par riflettersi ancora per un attimo la platonica Mente
divina, odia tutto le furberie ed i lenocinii d'una bassa teatralità: ma
l'anima, nata e rimasta farfalla, si lascia pur prendere dalla baritonal
finezza del cinema forzanesco. Arriva sempre, in un film forzanesco, la scena
in cui l'anima, imberluccata come l’uditorio di qualche stornellante
trasteverino, è costretta a far coro e ad ammettere: «come canti bè! come canti bè!»
Ricordo l'esordio del regista Forzano in Camicia nera, La mente aveva un bel mettersi
in guardia contro la furberia scapinesca dell'uomo di teatro: arrivava il
momento in cui bisognava cedere, in cui l'emozione vi pigliava alla gola, in cui l’anima si ricordava di
appartenere, grammaticalmente almeno, al genere femminile, d’esser cioè nata
per commuoversi ad un certo punto, per illanguidirsi, per lasciarsi rapire.
L’uomo di teatro, l’irresistibile cantore, aveva vinto anche nel cinema, vi
aveva messo nel sacco insieme con gli altri, vi portava via, volente o nolente.
Che ci starebbero a fare nel mondo gli oratori, gli uomini di teatro, i cantori
squillanti o soavi, se non avessero su di voi questo tremendo potere?
Cantore squillante, Giovacchino Forzano? No: quello ch'egli
porta nel cinema è il patetico delle grandi arie, la dolcezza grave e
nostalgica, una punta d'accoramento, che, come tessitura melodica, non va mai,
di solito, oltre il sol. Quello che conta è per lui, la tempestività, la
chiarezza, la teatralità della nota.
0 speranze perdute, o memorie...
Non già che gli manchi, volendo, la baldanza, lo squillo di
Eacamillo nella Carmen:
Toreador … la festa del valor…
Ma non è il suo genere. Giovacchino Forzano, come regista, è
l’uomo dell'emozione nobile ed alta. Non gli chiedete il pittoresco, il descrittivo, il piƒ-paƒ del baritono degli Ugonotti: chiedetegli la grande movenza,
il linguaggio sostenuto del cuore, l’eloquenza degli eterni affetti. Come i
veri uomini di teatro, Giovacchino Forzano attinge soltanto a quelli che sono i
sentimenti eterni: l'odio generoso e l'amore come costruttiva speranza. Nessun
abisso; nessuna profondità; ma la media più emozionante e più rasserenante.
Che il dramma storico lo attraesse anche nel cinema, e
particolarmente nel cinema, era fatale. Il dramma storico è l’atmosfera stessa
del grande patetico e dell’emozione: è, si direbbe, l'emozione allo stato
gasoso. Ma che il Forzano qui, come sommuovitore di masse a scopo filmistico,
abbia rivelata una sapienza più fine e più spettacolosa che quella d’un Guazzoni o d'un De Mille,
io non direi. Nei suoi film storici sono ancora, più o meno, le masse della
Scala, senza alcuna nuova dynamis filmistica: senza le prospettive magnificanti d’un Gance, senza l'intuito poetico d'un Lang. ln altri
termini, anche nel cinema forzanesco, siamo ancora al vecchio culto scenografico della «massa per la massa», al
quello che, in una Traviata della
Scala, proporzionando la folla degli invitati alla vastità e alla dignità del
boccascena, trasformava il pranzo di Violetta in un banchetto elettorale.
Il film storico e spettacoloso è stato, in sostanza, il più
rovinoso equivoco di Giovacchino. Anche nei drammi filmistici, la vera forza di
Giovacchino deriva dalla foga del cantabile, dalla veemenza emotiva e subitanea
degli «a solo», dalla persuasività dilagante di qualche sentimento nobile
quanto elementare. Ho sempre avuto il sospetto che il fondo vero di quest'uomo
di teatro sia non il dramma spettacoloso, per cui egli non è che un Sardou in diciottesimo, ma il mimo arguto ed idilliaco,
di cui avrebbe potuto essere un ravvivante e popolare maestro. In età della
nostra meno convulse, e meno ansiose di dramma, Giovacchino sarebbe forse
fiorito come commediografo limpido e a fior di terra, e non avrebbe mai pensato
a mescolarsi con figure di shakespeariana levatura, che – lui personalmente
-non lo riguardano né punto né poco.
Non ci doliamo tanto del falso truce ch'egli ci ha dato,
quanto ci doliamo dello schietto, del mattinale, del festante, ch'egli avrebbe
potuto darci e, per la pressura dei tempi, non ci ha dato. Quel che di
veramente grandioso egli ci dava, non era- farina del suo sacco, ma in fondo al
suo sacco è pure un dono del mattino, un che di terso e di trillante, tra il
grillo e il passero, una felicità canora appartiene a lui solo e che vorremmo
ancora sentire.
Troppo superficialmente il critico Adriano Tilgher chiamava «giovacchinate»
le cose teatrali di Giovacchino. Noi riconosciamo volentieri che, in fondo alla facilità con cui Giovacchino giovacchineggia, è qualcosa che somiglia alla felicità in quanto questa è voce terriera di gjrillo, di rana, dì passero.
Non tutto è usignolo o allodola nella sinfonia dello spirito: non tutto, è lirica solitudine. Il passero è
il cordiale baritono della natura, che potrebbe dire qualcosa di buono a tutte le ore, a patto, s’intende, di non
impreziosire come un canario e di non volar alto come l’aquila.
Nei film storici del nostro Giovacchino il passero s’affanna
troppo e non ha quasi mai la sua schietta voce. Di tanto tramenio, di tanto
fracasso, non una nota che sia rimasta. La vena sommessa del cantore, la vena
della tenerezza giocosa, è infinitamente più schietta. Ah, se il nostro
Giovacchino fosse stato sempre all'altezza umile e giuliva d'un baritono rossiniano, forte
nel Guglielmo Tell come nel Barbiere
di Siviglia! Per questa felicità versatile, per questa popolaresca, limpidità,
il nostro uomo era forse nato. Il cinema lo ha obbligato troppo a sforzar la nota, e, nello stesso tempo, a
darsi un contegno; a limitarsi per un lato, a strafare per l’altro; a raffazzonare,
a camuffare, a rimediare, a rimpasticciare per ogni verso. Lo rimproveravamo
d'aver le mani buche del prodigo; ed il cinema quale gliel’avevano congegnato,
ne faceva un crivello, una graticola, un bucataio, qualcosa che deve affannarsi
da mattina a sera e da sera a mattina, per non istringer mai nulla o non
conchiuder che a grandissimo stento.
Il cinema ha proprio minacciato d'inaridire questo cantore
istintivo, dall’inesauribile vena. Serate dolci della bella stagione piene di raganelle vicine, e blandie
dagli echi di qualche serenata lontana, ecco un tragico regista che, solo in mezzo al suo gramo castello di
celluloide, si trambascia pensando a Tredici
uomini e un cannone, il nuovo film dopo gli strepitosi storici Villafranca,
Campo di Maggio, Fiordalisi d'oro.
Un cannone! Ecco il nuovo tremendo baritono cui bisogna
pensare.
II cannone? Ma è proprio un baritono, o non è piuttosto,
come pensava il poeta Ragazzoni, un tenore
scoppiante, un tenore petardiero? Da piccoli, abbiamo tanto
sentito parlare d'un tenore Tamagno la cui voce, tutti dicevano, «tuonava come
il cannone». Maturatosi con quest'idea, il poeta Ragazzoni aveva creduto, un
giorno, di poter finalmente invertire le parti. Ricordo il sorprendente, melodrammatico effetto che faceva il verso ragazzoniano:
Il cannone, Tamagno delle battaglie...
Ma io vorrei tornare ad invertire le parti e, restituendo
l'immagine alla primitiva grandiosa semplicità, son tentato a chiedermi oggi:
non è stato, non è Giovacchino Forzano il cannone dei baritoni? Non è la voce naturalmente grave e paterna, che, al cinema, ha dovuto d'un
tratto scoppiare, tonitruare, rimbombare, fragoreggiare, rotolar d'eco in eco
e, dilagando per le ultime convalli, affievolirsi lenta nello stupor della vallata?
Nell'inane stupor del nostro cinema, Giovacchino Forzano è
passato cosi, come la più roboante cannonata.
Ci ha lasciati con una nostalgia infinita del mezzitoni,
delle inflessionì
carezzose, delle paterne dolcezze ammonitrici, delle
prospettive verdi di rimpianto e d'idillio, per cui soltanto la voce baritonale
pare nata. Maneggioni assassini del cinema, siete voi che di questo facile e
felice cantore avete fatto il gigione tonitruante che, per la vallata grigia
del film, deve passare come la metaforica cannonata del Barbiere di Siviglia, non lasciando che vuoto e
rimpianti dietro di sé:
alla fin trabocca e scoppia,
si propaga, si raddoppia,
e produce un'esplosione,
come colpo di cannone,
come colpo di cannone!
Le sue commedie più riposate e più serene dovevano portarle
altri al cinematografo. A lui, dopo qualche alloro iniziale e dopo. tanto
chiasso e tanto mondano rumore, il cinema non riservava più che noie e triboli
senza fine.
Ma non è detta l'ultima parola. Non è detto che Giovacchino
Forzano debba cantare già, col Filippo II del Don Carlos:
Dormirò solo nel manto mio regale.
Vogliamo sentirlo finalmente in una serenata lieve, in un
film tiepido e chiaro come una mattinata d’aprile, in qualcosa che blandisca
l’anima, come la serenata mozartiana di Don Giovanni:
Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro ...
Non insistiamo, per non aver l’aria degli onesti
borghesi che intendono farsi pagare dal celebre concertista il grazioso invito
fattogli ed il buon pranzo datogli. Un grande pianista, credo fosse Listz, in
circostanze sìmili, data una manata sulla tastiera, voltava le
spalle dicendo: «tenete: per il vostro pranzo».
Eugenio
Giovannetti
Opere di Giovacchino Forzano: Camicia Nera, Villafranca
(1933) -- Campo di Maggio, Maestro
Landi (1934) – Fiordalisi d’oro, Colpo vento, Tredici uomini e un cannone (1936) – Sei bambine e il Perseo (1939-40) - Il re d’Inghilterra non paga (1940-41).
film SETTIMANALE DI
CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 6
7 FEBBRAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Rossini diretto da Mario Bonnard e interpretato da Nino Besozzi,
Armando Falconi, Camillo Pilotto, Paola Barbara (Produzione Nettunia Film)
giovedì 14 novembre 2019
mercoledì 13 novembre 2019
Emilio "el Indio" Fernández - & Gabriel Figueroa
Il cinema di Fernandez si ispira appunto alla
particolare suggestione del paesaggio messicano e si avvale d’un repertorio
caratteristico di colore indigene. Diceva recentemente Figueroa ad amici romani
- e il suo discorso vale sicuramente anche per Fernandez - che egli non
potrebbe lavorare fuori del Messico, in un paese che non è il suo, in mezzo ad
una realtà che gli è estranea. E il fondamento della sua collaborazione con
Fernandez - diceva ancora Figueroa - è appunto nello stesso modo che entrambi
hanno di sentire il Messico.
(1) André Camp: “Aperçus sur le cinéma mexicain” in «La revue du cinéma,
n. 5, luglio 1948.
Nella foto il cinematographer Gabriel Figueroa con Emilio Fernandez sul set di Duelo en las montañas, 1950
Nella sua scoperta del paesaggio messicano Fernandez
ha tratto proficue indicazioni dalle esperienze compiute da artisti messicani
contemporanei attivi in altri generi, particolarmente dai pittori. Figueroa ha
dichiarato ad André Camp (1):
“Il nostro cinema è essenzialmente pittorico.
La scuola messicana di pittura, è la prima del mondo. Diego Rivera, Clemente
Orozco, David Alfaro Siquieros sono i maggiori pittori della loro generazione.
Essi hanno creato uno stile che esprime perfettamente l'anima e le aspirazioni
del paese. Per noi, la via era già tracciata: non avevamo che da tradurre in
immagini ciò che essi sviluppavano in quadri e affreschi”. I pittori messicani,
raccolti attorno al dottor Atl nell'Accademia di S. Carlos, fin dall’inizio del
secolo si ispirarono infatti, non senza intenzione polemica verso la cultura pittorica
europea, alla tradizione indigena.
Nella pittura del suo paese Fernandez trovò appunto,
già catalogato, tutto quel materiale illustrativo che egli andava cercando.
Molti spunti dei suoi soggetti erano già stati individuati dall’iconografia
della pittura messicana contemporanea. Il motivo di Enamorada, ci rinvia, per esempio, ad un quadro di Orozco “Le donne
dei soldati”, dipinto verso il 1928 e Maria
Candelaria fa subito pensare alle venditrici di fiori, così frequenti nei
quadri di Rivera.
Sappiamo inoltre che Fernandez e Figueroa
intrattengono stretti rapporti con i pittori messicani. Fernandez è amico
intimo di Diego Rivera, che egli venera come un maestro e cui sottopone, in
visione privata, i suoi film appena ultimati. Sappiamo anche che talvolta Figueroa
studia preventivamente assieme a Rivera il disegno delle sue inquadrature.
Alcune inquadrature di Maclovia sono
state integralmente dettate da Rivera. Rio
Escondido, nella versione originale, si apre con la visione degli affreschi
di Rivera nel palazzo del governo di Città del Messico (la sequenza è stata tolta,
naturalmente, nella versione nostrana, intitolata Il mostro di Rio Escondido, dal distributore italiano).
Va tuttavia rilevato che nonostante questi palesi
accostamenti, diciamo così, di genere, il cinema di Fernandez si distingue
dalla pittura messicana per un diverso stile figurativo. Mentre infatti la
pittura nonostante il suo assunto illustrativo, risente qua e là di stimoli
espressionistici, le immagini di Fernandez e di Figueroa non escono da un
romanticismo naturalistico. (continua)
Franco Venturini in
BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 - APRILE
1951
Nella foto il cinematographer Gabriel Figueroa con Emilio Fernandez sul set di Duelo en las montañas, 1950
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