giovedì 21 novembre 2019

Pasolini/Dovzenko



Aleksandr Dovzenko, Taccuini

Sono stato in questi giorni all’università di Trieste; anzi, per essere esatto alla «Casa dello Studente», per invito, sia dell'Arci che ha organizzato l'«autogestione» della «Casa dello Studente», sia, inizialmente, di un gruppo di studenti che segue un corso sul cinema italiano degli anni Sessanta, tenuto da Lino Miccicchè.
C'erano circa settecento studenti, il grande e nudo salone era gremito; ma silenzioso, ordinato. Il tema del dibattito era un tema trattato da me, frammentariamente, proprio su queste pagine: Cultura borghese cultura marxista - cultura popolare. ….
… Oltre all’adorabile Marianne Moore, offro alla meditazione dei giovani marxisti anche il libro di un regista sovietico che, provenendo dagli anni Ruggenti del formalismo russo, ha dovuto vivere appunto il periodo del culto della personalità e del realismo socialista: Aleksandr Dovzenko. Strano, ma anche a lui che faceva film (quei pochi che riusciva a fare) sul nativo mondo ucraino, affrontando i temi della Rivoluzione attraverso la naturale concretezza realistica del poeta, da una parte, e dall’altra attraverso la squisitezza tecnica, così asciutta, netta, inventiva, priva di ogni specie di sentimentalismo, anche formale, della Scuola formalistica - anche a lui, e attraverso la viva voce di Stalin in persona, veniva consigliato di entrare in fabbrica e di vedere in un operaio comunista che vi lavorava l’unico modello umano positivo possibile.
Così il povero Dovzenko — come il suo amico Majakovskij - come i suoi colleghi più autorevoli Ejzenstejn e Pudovkin - è stato costretto per tutta la vita a difendere la sua ideologia formale adattandosi ad accettare discussioni tanto interminabili quanto cretine. Dall’altezza intellettuale degli anni Venti, in cui si era formato, è stato costretto a degradarsi a un livello intellettuale di una bassezza penosa, tutto fatto di luoghi comuni, di ricatti accademici, di confronti puerili. Dovzenko non era un uomo forte, e non era molto forte neanche come scrittore. Il suo lungo martirio, forse proprio per questo, appare in tutta la sua spaventosa miseria nei Taccuini che lo testimoniano. Il dover difendere il minimo ovvio diritto possibile di un autore, contro un’ignoranza di carattere, si, franchista o fascista, senza per questo disperatamente venir meno alla fede comunista (rinunciando a qualsiasi specie di «gesto») vale certamente la Siberia; se non è peggio.
Pier Paolo Pasolini
Settimanale TEMPO, 12 aprile 1974

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