Ci sono dei film dimenticati che oggi resuscitano grazie all’operosità
di alcuni attivisti del nostro tubo quotidiano. E’ il caso di Legge di guerra di Bruno Paolinelli (1923-1991) che richiama i film
di Rossellini di quel periodo. Il film andò in censura e successivamente nelle
sale nel 1961. La regia di Paolinelli è sobria ma efficace per l’apporto di
Giuseppe Berto che ogni tanto per sbarcare il lunario scriveva per il cinema. A
lui si affiancano sul set Aldo Scavarda, Camillo Bazzoni, Arturo Zavattini e
Vittorio Storaro; il gruppo degli attori da Mel Ferrer, una volta tanto nel
personaggio, Peter Van Eyck, Jean Desailly che subito dopo sarà con François Truffaut ne La Peau douce e un nutrito gruppo di attori jugoslavi visto che
era una coproduzione con la Jugoslavia. Senza alcuna retorica il film ci mostra le
scelte difficili che a volte dovettero fare i partigiani per liberare la
nazione dai nazisti. Bruno Paolinelli sarà anche il produttore di un altro
interessante film, questa volta in coproduzione con la Francia: La Cecilia ‒ Storia di
una comune anarchica di Jean Luis
Comolli.
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
martedì 3 marzo 2020
lunedì 2 marzo 2020
Un leone a Culver City - A Tale of the Christ & dottor Kalmus
Il
"supercolosso" Ben Hur
Ma l’ambizioso progetto di Goldwyn, accantonato
solo per ragioni pratiche, non poteva restare a lungo negletto: rinsanguata dagli
ultimi incassi
e
ormai in piena ascesa, la M.G.M. rilevò il romanzo di Wallace e decise di produrre con Ben Hur il più grande film di
tutti i tempi. Messa da
parte
June Mathis il cui prestigio –
dopo l'affare Stroheim - si era
notevolmente affievolito, la sceneggiatura e
la supervisione del film furono affidate a Carey Wilsonm e Bess Meredyth, e
la regia a Fred Niblo.
Per il ruolo del protagonista, una volta scartata
la candidatura di Valentino, ancora impegnato con la Paramount (per il quale la Mathis - non potendo fare altro -
scriveva intanto lo scenario di The Young Rajah), venne finalmente
prescelto Ramon Novarro, già affermatosi da qualche anno, ma che con questo
film divenne celebre in tutto il mondo. La lavorazione di Ben Hur - svoltasi in parte
in Italia, proprio nel momento più critico della nostra cinematografia - durò la bellezza di tre
anni,
e il
film, il cui costo complessivo si aggirò sui due milioni di dollari, sembrò davvero
aver superato in grandiosità ogni precedente: la sola scena dello stadio, con la
celebre corsa delle bighe (realizzata interamente a Culver City, non a Roma)
venne a costare circa duecentocinquantamila dollari. La nobiltà del tema, la
persuasiva lentezza del racconto accompagnato da solenni ed
edificanti didascalie, l'efficacia spettacolare di non poche sequenze, il fasto
della grandiosa ricostruzione, riuscirono per vari anni a mascherarne le intime pecche: superficialità
dei personaggi, schematica meccanicità degli sviluppi ·drammatici, ingenuità
di troppi particolari, facilon dell'ambientazione. E Ben Hur, con gli
stomachevoli contorcimenti della serpentina Carmel Myers in parrucca al platino, incaricata di
insidiare la virtù del protagonista, nonché con gli spaventosi colori da libro da messa
delle scene della " Via Crucis " (nelle quali tuttavia la figura del Cristo veniva prudentemente
presentata di spalle o al margine del fotogramma), passò sugli schermi di tutto
il mondo come un
autentico capolavoro. L'unica sequenza che in qualche modo meritasse un elogiò incondizionato,
per il travolgente impeto di certe riprese e per lo studiatissimo ritmo del montaggio, era' in realtà quella,
già citata - e rimasta
del resto famosa – della corsa delle bighe, con la gara fra Ben Hur e Messala
(impersonato dall'ex-rubacuori Francis X. Bushman, ormai passato ai ruoli di "vilain"), ma il cui divertito crescendo
sembrò sempre derivare, - almeno secondo i competenti - da una sequenza analoga
della Messalina
(1923)
di Guazzoni, che Niblo aveva sicuramente già visto in Italia. Ben Hur venne comunque presentato
al pubblico americano dopo un lancio colossale, solo ai primi del 1926 e in Europa
e in Italia giunse ancora più tardi, e addirittura in un'edizione sonorizzata:
del film circolano ancora oggi copie in formato ridotto, private delle
didascalie e puntellate da un "emphasising" quanto noioso commento parlato. A proposito del colore introdotto in alcune
sequenze di questo film, va ricordato come la M.G.M. sia stata la prima
casa di Hollywood a dare credito al Technicolor - ancora in bicromia - del dottor Kalmus, distribuendo anzitutto il primo film
realizzato col sistema sottrattivo, The ToH of the Sea (1922), che recava persino la firma di Joseph
Schenck quale supervisore, quindi tutta una serie di cortometraggi a soggetto, e infine The Viking (I Vikinghi, 1929), l'ultimo film muto a colori (ma presentato sonorizzato), prodotto, come i precedenti, dallo stesso Kalmus. (continua)
FAUSTO MONTESANTI
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE
Nella prima foto Carmel Myers e Ramon Novarro, nella seconda Novarro e Francis X. Bushman.
domenica 1 marzo 2020
ENRICO GUAZZONI
I REGISTI (senza peli sulla lingua)
ENRICO GUAZZONI
DI EUGEGIO GIOVANNETTI
Prestami la ritorta conchiglia, o tritone di Fontana di Trevi,
perché io ci dia dentro a pieni polmoni e allarghi sulle croscianti acque la
fama di questo buon padre dell’italico cinema, romanissimo cive che gli diè risonanza
oltre Oceano e primo perse le vie all'americano Griffizio che tant’ala stese
sulla nuova arte, la quale dedalea e quasi icarea vuolsi giustamente nomare.
Quanto quest’arte del ciurma debba ai barocchi per lo spirito
e per la romana origine, niuno ancor sa. Ell’ è il perenne metamorfoseo dell'immagine plasmata dal moto, e
puossi ben dire nata in Roma con la celebre statua del cavalier Bernino: Dafne
ramificantesi al corso e sorpresa come eterna essenza travagliata dal moto.
Ma romano fu il cinema per nascimento anche, nel 1913,
quando Enrico Guazzoni diè al mondo Quo
vadis? e Antonio e Cleopatra. Non
la scena teatrale come suolsi immaginare, ma Roma stessa quale immenso scenario creato dai barocchi, influiva su quel nascimento.
Nel dissipato gestire, nell'esagitato brulichio, nel
ventilato drappeggio con cui balenavan le cinematografiche folle intorno ai
loro vecchi eroi, riverberava, ad insaputa degli stessi Guarzoni, non la
ribalta teatrale ma la statuaria barocca di Roma, la vuota e mirifica drammaturgia
solare, sciorinata da quegli scultori a sommo del porticato berniniano,
sull`alto della facciata di San Giovaumi, lungo i parapetti di Ponte
Sant’Angelo, tra le acque di Fontana di Trevi. Questa ventilata sinfonia di Roma,
inaspettata marmorea trasfigurazione del motto “i cenci van sempre all’aria”,
fu l’inavvertita ma onnipresente maestra d'Enrico Guazzoni. Il suo cinema,
romano di pretesto e romanesco-barocco di spirito, si gonfiò, corruscò, crosciò, s'allargò, come la più nuova e la più vasta tra le
fontane di Roma.
ln questa nuova macchina delle meraviglie fu immessa la vena
della sensualità ottocentesca. La nuova ispiratrice segreta del nuovo spettacolo,
era la Venere polputa e callipigea, vagheggiata dalla Roma godereccia dei
funzionarii e dei capigabinetto: quella stessa Venere che, per immagini
varianti ma ugualmente dilettose, arrideva loro dalla fontana del Rutelli e dal
sipario del Brugnoli al Costanzi, dove una baldracca floridissima appariva in una
specie di barbarico trionfo equestre.
Quell'ideale estetico della Venere cicciuta, celebrato ogni
dì e rinfrescato nelle Naiadi del Rutelli all'Esedra, corrispondeva per un lato
perfettamente all'epicureismo romanesco e, per l’alto, anche alla fantasia pittorica
del tritone sensuale Boecklin, romaneggiato a sua volta in quelle sensuali e
folleggianti oceanine. Un gusto vecchio, del resto, che, dall'Ottocento, si
ricongiungeva ancora col Seicento, col barocco galante di qualche stampa dei tempi di Luigi XVI. Ne ricordo una
bellissima in cui son già le naiadi carnose del Boecklin e del Rutelli ma assai
più maestose e languide, assai più Montespan.
Enrico Guazzoni portò nel cinema quest'ideale
romanesco-barocco della bellezza femminile, con quelle Terribili-Gonzales che
fu, per noi ragazzi, l`indimenticabile Cleopatra. Ah, com'racano lontani allora
dall'estetica della “mezza-porzione”, invalsa poi con le dive americane dello jolì! La Cleopatra che Enrico Guazzoni
ci sceglieva era porzione intera, quella fatta ancora pei robusti appetiti,
quella che sognano Ia plebe e gli adolescenti di tutti i secoli. Che fosforescenza
aveva per lg nostre fantasie la didascalia in cui Cleopatra annunciava:
“Antonio, ti ho preparata una notte d’amore”. Che programma!
Enrico Guazzoni
voglia perdonarci se poniamo oggi il freno della dignità al nostro entusiasmo
per la sua Cleopatra: ma siam pronti a confessargli che l’idea soda
ch'eglì aveva d'una diva cinematografica ha ancora la sua potenza e che ne
facciam la prova ogni giorno, quando, girando per Roma in botticella, al
passaggio di qualche formosa Cleopatra, noi, gli intellettuali raffinati, ci
accorgiamo d'avere gli stessi gusti del nostro vetturino.
Questo romanesco-barocco del cinema italiano, quale Enrico
Guazzoni seppe imporlo al mondo sotto pretesto di storica romanità, non mancava
certo d'intuizioni geniali. E della confusione stessa tra romano e romanesco non si può far colpa ad Enrico Guazzoni se essa,
attraverso il barrocco, è ancor oggi inavvertita e lampante in architetti come
Brasini. Il romanesco trova nella sua Roma, bell'e fatto, il più magnifico tra
gli scenarii, in cui è ancora così facile drappeggiare a toga un lenzuolo.
Il cinema italiano, quale il Guazzoni l'educò, fu, in
sostanza, un capolavoro postumo ma non vulgare del genio barocco romano, in
quanto genio corrusco del moto.
Attraverso il genio del moto qualche intuizione
cinematografica del Guazzoni riuscì a forare la scenografia barocca ed a
penetrare nel vivo della vita antica. Assai prima che Fred Niblo l’avesse per
il Ben Hur, egli aveva avuto l’idea della corsa delle quadrighe: un’idea
per cui si tornava veramente ad una romanità palpitante anche se detestabile. Non so quanto in queste rievocazioni
circensi contribuisse la pittura storicizzante ottocentesca (c'ê un celebre
quadro con una quadriga in curia per le vie di Pompei) ma non v’ha dubbio che
la trovata fosse, per gran parte, cinematografica e felice.
Cosa strana, la corsa stupenda era ancor più animatrice nel
suono che nell’immagine: e ce ne accorgemmo nella versione sonorizzata del Ben Hur.
La vita antica aveva tre immagini sonore di cui noi moderni
non sapevamo più ritrovar l’idea: questa delle quadrighe uscenti a turbine dal curcer sul lastricato del circo: quella d’una
flotta rameggiante nella bonaccia: quella del grido cui s’apriva la battaglia,
vero polso sonoro da cui un orecchio esperto misurava il tono spirituale di tutta
un’armata.
Questa delle quadrighe era davvero una sequenza da sonorizzare,
perché nel suono, ancor più che nell'immagine, era il dramma: al contrario di
quel che accade nel nostro mondo in cui la corsa di cavalli è di per sé silenziosa
ed il rumore è tutto esterno. Che senso poteva avere, invece, una
sonorizzazione della Gerusalemme liberata?
Ma il Guazzoni ha sempre amato oltremodo la Gerusalemme
liberata, questa sua così poco significante creatura ch`è stata la
preoccupazione e l’orgoglio di tutta la sua vita. Ci lavorava già nel 1911, l'ha
presentata nel 1917, l'ha sonorizzata nel 1934.
Il Guazzoni ha sempre un po’ avuta la debolezza di non
sentire il mutarsi dei tempi. Nel 1924, quando il cinema americano ci aveva già tolto da gran parte dei
mercati e ci aveva superati nella spettacolosità e nella squisitezza, egli credeva ancora di potere interessare
il mondo col vecchio barocco romanesco, e dirigeva una Messalina.
Lo rivedemmo nel 1932, al primo rifiorire del cinema
italiano, cimentarsi col Dono del mattino:
far cioè del mediocre, se non dal cattivo, teatro forzanesco. Questa
sì ch'era veramente la ribalta, coi lumi ancora a petrolio.
Ma l’uomo è, in sostanza, più agile di quanto paia, e,
qualche volta, sa rimettersi in carreggiata. Il re burlone fu, relativamente,
un rimettersi in carreggiata: un tornare, per quanto possibile, alla pari coi tempi.
Non dico che ci fossero novità in quel film: me ne guarderò
bene. Si rispolverò, per l’occasione, il trenino campestre cameriniano di Figaro
e la sua gran giornata. Ma il teatro, con Armando Falconi, si fece più largo, più ventilato, più brioso. Invece dei lumi a
petrolio, c’erano già le lampadine elettriche.
Negli anni successivi, il Guazzoni inclina all'oleografia
sentimentale, da vecchia parete. E` il tempo dei Due sergenti e del Dottor
Antonio. Vorrebbe mettersi tuttavia in paro, ma mi par che questa volta non
gliela faccia più. Racconta ora le cose ultravventurose. La figlia del corsaro verde e I
pirati della Malesia del Salgari, ma ha un po’ l’aria d'un nonno che non
s'accorga di raccontar favole, che andavan bene, sì, per il figliuolo ma sono già un tantino vecchiotte per il nepote.
Salgari è già superato per i bimbi che giuocano con la mitragliatrice e l'aeroplano
e il carrettino armato.
Non vorrei finire col dire cose sgradevoli ad un uomo che ha
lavorato con gran passione ed ha fatto in trent`anni un terzo appena dei film
che i nostri baldanzosi registi ci scodellano oggi in dieci anni. Enrico Guazzoni non è affatto un uomo della preistoria del nostro
cinema: è un carattere rappresentativo, che ha dato al cinema italiano
un'impronta che non s’è mai del tutto cancellala: intuito della scena, magnificenza,
corruscare di masse. ln un tempo in cui si parla tanto d’un teatro di masse,
bisognerebbe ricordare che questo regista ha creato il cinema italiano mettendo
in primo piano la mass. Che egli fosse superato e che la vera drammaturgia
filmistica nascesse il giorno in cui il cinema avesse messo in primo piano
invece della massa i volti degli eroi e delle eroine, era le com’è fatale che
le arti evolvano dal grandioso allo squisito, dal macchinoso al profondo, dal
teatrale all’intimo. Ma aver cominciato sotto gli auspici solari e avventati
del barocco romano, aver aperto al mondo questo più vero e maggior teatro delle
meraviglie ch’è spettacolo cinematografico, portando del moto e della luce
significa pure qualcosa. Possa o no piacervi Enrico Guazzoni è un personaggio,
un creatore, che appartiene alla storia della civiltà. Nazionale.
Eugenio Giovannetti
Opere di Enrico Guazzoni: Bruto, I Maccabei, Agrippina (1911) – Marcantonio e Cleopatra, Quo Vadis? (1913) - La Gerusalemme liberata (1911-17-31) – Giulio Cesare (1914) - Messalina (1924) – Miriam la sperduta d’Allah (1928) – Il dono del mattino (1932) – La
signorina Paradiso (1934) - Re Burlone
(1935) -
Ho perduto mio marito,
Re di denari, I due sergenti (1936) -- Il
dottor Antonio (1937) - Il suo destino (1938) – Ho visto brillare le stelle (1939) – Antonio Meucci (1940) - La
figlia del Corsaro Verde, l pirati
della Malesia (1941).
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO
TEATRO E RADIO ANNO V - N. 4 24 GENNAIO
1942 XX
La testata si riferisce al film Via delle cinque lune diretto da Luigi Chiarini e interpretato da
Luisella Beghi, Andrea Checchi, Olga Solbelli (Prdod. Cinecittà, realizz.
artistica C.S C.; distr. Enic)
mercoledì 26 febbraio 2020
C'era una volta la presentazione
Contro le presentazioni
Dalle colonne del “Lavoro Fascista” ed al microfono della
radio ho iniziato una crociata per l'abolizione delle presentazioni. Voglio ora
rivolgermi al pubblico appassionato di cinematografo dei lettori di “Film” per
esporre le ragioni artistiche e pratiche che militano a favore di questa
abolizione, o quanto meno di radicale trasformazione.
Ragioni artistiche. La dignità di uno spettacolo
cinematografico è gravemente offesa dall’intrusione di queste brevi antologie del
film futuro, redatte in forma di miscellanea caotica, con frammenti di scene
senza nesso che non danno affatto l’idea del contenuto reale delle intenzioni,
del valore del film. Inoltre il produttore, nell’illusione di far colpo sul
pubblico, condisce questa insalata, con delle didascalie apologetiche che
potrebbero servire ad esaltare il lucido da scarpe sugli affissi delle
cantonate “Il più brillante prodotto dell’annata” “due ore di continuata ilarità”
“Il vertice dell’emozione e della passione” e avanti su questo tono. Tutto ciò
degrada Io spettacolo.
Ragioni pratiche. Tali “presentazioni” sono assolutamente
negative come richiamo pubblicitario. Il pubblico non abbocca alle qualifiche
mirabolanti e non è affatto solleticato dai frammenti proiettati. Chiunque
assiste a tali presentazioni ascolta, dai vicini, esclamazioni ironiche che
assicurano dell’effetto sconcertante ed allontanante della miscellanea comparsa
sullo schermo. A questo si aggiunga che l'inclusione degli interessantissimi
corti metraggi, resa recentemente obbligatoria, suggerisce la necessità di
alleggerire il programma. Ora le “presentazioni” normalmente sono due invece di
una ed hanno assunto un metraggio il cui ingombro nell’economia generale, è più
che evidente. Interpellati, i produttori sono stati lieti di adeire
all'abolizione di una simile spesa inutile.
Rimangono gli esercenti i quali ritengono che tali
presentazioni giovino a richiamare l'attenzione sui prossimi spettacoli. Per
aderire a tale loro desiderio si potrebbero ridurre le “presentazioni” a un semplice
annuncio tipografico contenente il titolo del film futuro, il nome del regista
e quello dei suoi interpreti. Se quest'annuncio puramente tipografico è poco
visivo si può anche consentire che venga riprodotta l’immagine degli interpreti
principali. Comunque, dovrebbe essere tassativamente proibito:
1 – che tali presentazioni oltrepassassero la misura di 50
metri;
2 – che se ne proiettasse più di una per spettacolo.
Credo che l’opportunità di questa riforma sia oramai entrata
nella convinzione dei dirigenti la nostra cinematografia e mi auguro tanto cha
essa, venga al più presto applicata.
Alessandro
De Stefani
Caro De Stefani, vorrei aggiungere una cosa. E perché non si
dovrebbe abolire anche la parola “presentazione” che deriva dal “present”
americano? Perché un film – che è dopo
tutto uno spettacolo -
deve venire “presentato” dalla tal casa, mentre gli altri
spettacolo vengono “rappresentati” (da rappresentare, rappresentazione)? Quel
“presenta” non da un po’ fastidio? Mi fa temere – quando lo vedo – che di li a
poco, la distribuzione degli attori (“cast”) sarà chiamata “casto”. Che ne
dici?
D.
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO
TEATRO E RADIO ANNO V - N. 7 14 FEBBRAIO
1942 XX
Presentazione, rappresentazione, prossimamente qui, infine
vinse il trailer che soccombette al coming
soon!
Scaletta foto: 1 Clara Calamai e Vittorio de Sica ne La guardia del corpo (Prod. Inac, Distr. Titanus) - 2 Ilsa Werner nel film Ufa Arditi
dell’oceano (Distr. Enic) - 3 Alida Valli e Carlo Ninchi in Catene invisibili prodotto
dall’Italcine e distribuito dall’Ici. (Fotografie Bragaglia, Ufa e Vaselli)
lunedì 24 febbraio 2020
CINE ma POPolare - L'ultima parola
Il favore del pubblico (in base alle cifre d'incasso) si orienta prevalentemente sui film (melo) drammatici e su quelli comici, con preferenza verso i primi: seguono, a distanza e nell'ordine, gli avventurosi (cappa e spada, pseudostorici), i musicali (riduzioni di opere liriche, biografie di musicisti famosi, canzoni sceneggiate) e i patriottici (serie sulla prima guerra mondiale, serie sulla seconda, serie triestina). Il sotto-gruppo dei “napoletani”, forma, come abbiamo visto, capitolo a sé. Inoltre, eccezion fatta per il cospicuo successo di Cielo sulla palude dovuto alla capillare diffusione nelle sale parrocchiali, si può affermare che non esiste ancora in Italia una cinematografia di ispirazione religiosa, che raccolga un largo favore popolare.
A risultati tanto sgradevoli quanto significativi ci conduce l'analisi comparativa delle cifre d 'incasso riferite al periodo 1948-1953: agli 889 milioni di Anna fanno eco i 401 di In nome della legge; agli 819 de I figli di nessuno si contrappongono i 368 di Non c'è pace fra gli ulivi e via di seguito. L'evidenza delle cifre pubblicate nel seguente quadro riassuntivo non ha bisogno di commenti esclamativi quanto di serie considerazioni sui rapporti fra cinema e pubblico inteso nel senso più ampio.
Nel primo numero de “Il Contemporaneo” Luigi Chiarini, riferendosi agli stessi dati, scriveva: «Noi pensiamo che queste cifre dimostrino come quei film, giudicati brutti su un piano artistico, meritino di essere analizzati per vedere quali elementi contengono conformi alla psicologia popolare tanto nelle loro caratteristiche spettacolari, quanto nel contenuto umano che rappresentano». L'istanza non potrebbe essere più giustificata quando si pensi che il successo o l'insuccesso commerciale di un film è dovuto non già alle "prime'' ma giustappunto alle seconde, alle terze e alle quarte visioni: l'ultima parola, quella decisiva, non spetta alla coppia elegante di, un "Metropolitan" o di un ''Arlecchino", bensì agli umili spettatori di un cinemetto rionale o di paese. Le lodi della critica e di un pubblico qualificato non hanno consentito a Bellissima di incassare, fino al 30 settembre 1953, più della modesta cifra di 142 milioni Questa la realtà: chiudere gli occhi dinanzi ad essa anziché sforzarsi di comprenderla e modificarla significa – come sottolinea ancora il Chiarini - scavare un solco sempre più profondo fra la critica e la cultura cinematografica da un lato e la moltitudine degli spettatori dall'altro. (continua)
CARLO SANNITA
CINEMA
quindicinale di divulgazione
cinematografica Volume XII Terza serie Anno VII – 1954 10 Novembre
Nella foto d'apertura un momento di Non c'è pace fra gli ulivi, film del 1950 diretto da Giuseppe De Santis.
domenica 23 febbraio 2020
lunedì 17 febbraio 2020
Indimenticabile Folco Lulli
FOLCO LULLI PUO’
ESSERE CONSIDERATO COME UNA CREATURA DEL NEOREALISMO CINEMATOGRAFICO
Ha una
«maschera» che non si dimentica
La produzione italiana non ha mai
valorizzato l’attore e le sue vere possibilità
I migliori film li ha
fatti all'Estero
Roma, agosto
Nel caleidoscopico mondo del cinema
c'è posto per tutti. Non è no detto, ad esempio, che per quanto riguarda gli omini
occorra essere il «bello» della situazione ad ogni costo, né tanto meno che le
solite ammiratrici debbano comunque coricarsi con la vostra fotografia sotto il
cuscino. La verità. è che in certi casi, dovendo fare affidamento
soltanto sul proprio talento drammatico e sulla propria maschera che non sempre
riscuote, agli effetti personali, l’unanime entusiasmo del pubblico, la
carriera di un attore diventa più difficile, meno soggetta, insomma, agli
estrosi capricci di una fortuna che dal punto di vista critico difficilmente si
giustifica. In compenso si hanno maggiori soddisfazioni, come avviene appunto
nel caso del nostro Folco Lulli, attore popolare e intelligente, che la
produzione italiana non ha sempre valorizzato secondo le sue vere possibilità.
Folco Lulli, come attore, è nato
nel dopoguerra. Lo si può definire una creatura del neorealismo, in quanto è
stato preso, come si usa dire in gergo cinematografico, dalla strada. Debuttò
nel film «Il bandito» e in breve tempo si rese conto che per recitare di fronte
alla macchina da presa con efficacia e convinzione, occorre essere veramente
preparati. Di qui il tormento che lo perseguitò nei primi anni e la insaziabile
sete di cultura agli effetti drammatici che lo distinse, inducendolo a ridurre
ai minimi termini il sonno per leggere e studiare tutto ciò che riteneva
potesse tomargli utile. Tuttavia queste sue buone intenzioni non gli impedirono
di partecipare all'interpretazione di films, che da un punto di vista
prettamente artistico lasciavano molto a desiderare. D'altra parte il cinema ha
le sue esigenze commerciali, che spesso dettano legge a produttori e registi, e di
fronte alle quali vengono meno anche i migliori propositi di un attore. Così
tra un film notevole ed un altro meno buono, trascorsero i primi anni della
carriera di Folco Lulli, il quale attendeva sempre la buona occasione per mettere
in piena evidenza il suo talento.
Clouzot, il grande e diabolico
regista francese, ebbe la opportunità di incontrarsi con Folco Lulli sulla
costa azzurra quando stava scegliendo gli interpreti di «Vite vendute». Osservò
attentamente l'attore italiano e fu colpito specialmente dalla sua maschera;
una maschera - egli disse -- che non si dimentica. Il resto è noto, dal
clamoroso successo internazionale del film alla popolarità di Folco Lulli che
finalmente il pubblico imparò veramente a conoscere. Da allora numerosi registi
stranieri gli hanno fatto sostenere i ruoli più disparati, ma sempre in
carattere con la sua maschera che ha una mobilita espressiva non comune. Essa si
presta, intatti, alla caratterizzazione di personaggi tanto diversi, dal rude e
semplice contadino al criminale incallito, dall’uomo sempre ingenuo e ricco di
buon umore all’individuo subdolo, calcolatore e arrivista.
In questa ultimi tempi Folco Lulli
ha interpretato diversi films all'estero, in Francia, Germania e Spagna. Uno
dei lavori ai quali si dice particolarmente affezionato è «Ritorno alla vita»,
una vicenda intensamente drammatica e umana, nella quale ha avuto a fianco la
grande attrice tedesca Lida Baarova che dopo una lunga parentesi di attività
teatrale è finalmente rientrata nel mondo cinematografico, Alberto Closas, il
noto protagonista di «La morte di una
ciclista», Josephine Kipper ed altri, sotto la direzione del regista spagnolo
Nieves Conde. Com'è noto, questo film nel quale Lulli sostiene un ruolo molto
incisivo e stato premiato al festival di S. Sebastiano per la regia, la
sceneggiatura e l’interpretazione. Fatta questa premessa, si spiega facilmente
l’entusiasmo che dimostra il nostro attore nel parlarne, tratteggiandone la vicenda.
«Ritorno alla vita» narra di tre uomini che dopo
avere scontato in carcere le rispettive condanne rientrano nella società.
Julian un medico condannato in seguito ad un incidente professionale, non crede
più nella sua abilità di chirurgo. Nicola, malgrado la sua giovane moglie gli
sia rimasta fedele, trova molte difficoltà nel riprendere la vita normale.
Iniesta, un tipo allegro e non più giovane, beve per dimenticare suoi guai. I
tre hanno appena lasciato il carcere e viaggiano, di notte sul treno, dove un
bambino, ammalatosi gravemente, dovrebbe essere operato d’urgenza. Il treno è fermo in
mezzo alla campagna bloccato da una bufera di neve. Mentre gli altri viaggiatori e i suoi stessi compagni
vivono tutta l’angoscia del momento, Julian appare estraneo al dolore del
bambino e alla disperazione di sua madre. Egli non vuole più fare il chirurgo,
ma dopo una sequenza oltremodo suggestiva e drammatica,
risolve finalmente il suo assillante problema e senza ulteriori indugi opererà
felicemente il bambino.
Folco Lulli è un uomo estremamente semplice, modesto,
amante della conversazione. Quando gli impegni della macchina da presa glielo
permettono, egli siede sovente ai tavolini di un bar di via Veneto, frequentato
da giornalisti e scrittori tra i quali conta molti amici. Sorride sempre Folco
Lulli e appare informatissimo su tutto e su tutti, ma si astiene dal fare
qualsiasi pettegolezzo. E' innamorato della Spagna e della sua gente. Dice che
a Madrid si sente un poco come a casa sua perché là tutti lo conoscono e gli
vogliono bene. Nonostante in molti films abbia tatto il «duro», in realtà egli
è l’essere più mansueto e generoso che ci si possa immaginare, al punto che una
sola goccia di sangue sia pure artificiale, cioè fatta appositamente dal
truccatore per esigenze di scena, lo infastidisce. Ma se il regista di un suo
film gli ordina di comportarsi in un determinato modo, egli diventa aggressivo
e violento, pronto ad uccidere freddamente chiunque si oppone alle sue mire ed
ambizioni, precedentemente stabilite dalla sceneggiatura del personaggio che
interpreta.
Piero Pressenda
GAZZETTA DEL SUD 14 agosto 1957
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