Non per nulla ad Umberto, tornato dall'ospedale e in
cerca del cane e della servetta, compare invece sulla vetrata nel fondo del corridoio
l'ombra minacciosa della padrona: un momento figurativo che, come a volte
capita nel cinema di De Sica - e un altro lo abbiamo ricordato più sopra per
quel che riguarda i ricchi borghesi di Miracolo
a Milano - sembra attinto a certa iconografia disneyana. Il corridoio,
insomma, è il teatro emblematico del calvario morale del protagonista all'interno
dello spazio chiuso e ostile della casa.
Il nucleo di base della corsia dell'ospedale, invece,
rende un'effimera impressione di ordine, di serenità, di pacificazione.
Naturalmente, l'impressione e falsa. La vita dell'ospedale poggia sulla
menzogna, sull’ipocrisia, e il bianco che ne è il colore dominante, se da un lato
attenua il rigore arcigno del primario e della suora, mostra bene d'altro canto
la sua funzione di copertura tutt'altro che efficiente. La corsia si allunga
verso la fine dell'ampia sala, mostrando una successione ordinata di lettini e
malati. Ma l'indifferenza e la meschinità vi allignano non meno che negli altri
spazi di Umberto: due figli in visita mostrano apparente cordoglio davanti al
padre morente, ma appena rimasti soli si lanciano in una discussione di interessi
economici, il vicino insegna al protagonista l'importanza della menzogna
melliflua, la suora raccomanda i devoti per un prolungamento dell'ambito
soggiorno distribuendo rosari e biscotti, ecc. , ecc.
Infine, il giardino pubblico, ritmato sul lato destro
dell'inquadratura dall'intermittenza delle panchine e da un filare di alberi.
Il giardino è il teatro della risoluzione finale del protagonista, del suo vero
e proprio testamento, che però viene rifiutato con un sorriso sprezzante dall’istitutrice
della bambina cui Umberto vorrebbe affidare il cane, per lui l'unico amico
fedele, per la donna soltanto un grattacapo e un’occasione di lavoro in più.
Passato il ponticello — una mitologica porta sulla morte — e fallito il suo
tentativo di suicidio, Umberto tornerà ad inserirsi nella prospettiva del
giardino, nel suo verde animato e strillante, perdendosi per una volta in essa
mentre uno sciame di ragazzini vocianti invade lo schermo. Per un momento
brevissimo e assoluto Umberto ha trovato una sua pace dimentica in un surrogate
di natura, in uno spazio infinito perché infinita è la dimensione prospettica
che ce lo porge *.
Solo a quel punto Umberto e veramente morto, alla vita
ed al film. Nessuna caduta dalla finestra sul selciato percorso dalle rotaie del
tram, nessun treno che travolga in un vortice di polvere e di fumo un vecchio
ed il suo bastardo dagli «occhi intelligenti »: soltanto un campo lunghissimo
nel quale l'immagine ludica della loro triste vita sfuma nelle mille
possibilità della morte. (continua)