domenica 7 maggio 2017

Странные люди - Strana gente

La novellistica fusa e fluente dei primi due film si scompone, nel terzo, in capitoletti autonomi tenuti assieme da un piú intenso rap- porto di appartenenza dei protagonisti alla natura e da una loro qualificazione inequivoca al ruolo di stravaganti E’,anzi, forte la tentazione di parlare di Strannye ljudi come di un tentativo di confermare l'apoftemma  prustiano per il quale siam tutti costretti, proprio per render sopportabile la realtà, a tener desta in noi qualche piccola follia.

 Il film è un trittico esplicito. Il primo episodio è Fratello mio. Paška abita e lavora in un villaggio. Un giorno se ne parte per la città, Yalta, per far visita al fratello. Si ritrovano dopo,molto tempo. Ciascuno racconta cosa, intanto, gli è capitato. Il maggiore ha divorziato, e pensa di risposarsi. Ne parla a Paška, presentandogli le « varianti» tra cui può scegliere.
Si recano insieme in casa d'una di queste possibili fidanzate. Paška parla con entusiasmo alla bambina, che è la figlia di questa vedova, della campagna. E Ie racconta la fiaba dei fiori e del cuculo.
Paška, quindi, visita la città. Ma dopo un sol giorno decide di tornare a casa.
Per non far sfigurare il fratello, racconta di non esserci mai stato e di aver perso i solidi. Deve giustificarsi cosí davanti alla fidanzata che glieli  aveva procurati. Si conferma cosi nel ruolo di « svitato ››.
Secondo episodio: Colpo fatale. Bronka, un vecchio contadino, viene ammonito per il suo comportamento bizzarro dal presidente del soviet. Vengono intanto da lui, dalla città, dei cacciatori per invitarlo ad una battuta. Dopo un battibecco con la moglie che gli chiede dei soldi, Bronka si avvia. Durante una sosta, Bronka chiede ai suoi giovani compagni se si ricordino degli attentati a Hitler. Racconta poi di essere stato lui stesso l’autore di uno degli attentati. Era il 22 giugno 1943: alla sua audacia e ad una Browning con i proiettili avvelenati sarebbe toccato di vendicare la patria e di liberare il mondo da Hitler. Bronka rievoca come gli capito di fallire.
Il terzo episodio, Meditazioni, è  dedicato a Matvèj lvànovic, responsabile amministrativo del suo villaggio. L'episodio descrive le riflessioni e i tormentati sogni di questo vecchio che ha dedicato tutta la vita al lavoro e che non riesce a seguire i ritmi del cambiamento. Dice degli scontri e delle incomprensioni con la gente che lo circonda e soprattutto con la nu-ova generazione: il giovane appassionato di musica che gli impedisce iI sonno suonando la fisarmonica la notte e che gli ricorda con le sue canzoni la morte del fratello minore: il giovane scultore che dedica tutto il suo tempo a intagliare statue di legno; la stessa sua figlia, che non riesce ad entrare all'università e che però rifiuta un lavoro  quaIsiasi . La figlia lo obbliga anzi ad un incontro-scontro con la moglie che gli confessa finalmente di averlo sposato non già per dovere -- com'egli aveva creduto ma per amore. Matvèj difende le sue convinzioni anche attraverso un sogno. Epperò alla fine, nel corso di un ultimo incontro con lo scultore, ne approva le scelte, confermando senso e valore al «nuovo ».

La bizzarrie, in un qualsiasi corpo sociale, può diventare una sorta di necessario anti-corpo contro le monotonie e le passività grame nel vivere. Salutare presenza, quella degli strambi, ci dice šukšin. E' di fronte alle loro “ammonizioni' che vengono meno le sicurezze dei savi, cioè le baldanze abituali di tutti. Quel loro mettere 'in dubbio le convenzioni della vita sociale ed affettiva, quel loro scrollare dalle fondamenta le abitudini e i sistemi di classificazione sussunti col latte “materno” sono una sfida a quella “logica' che ci assicura le quietudini e le sazietà d'ogni giorno.
Gli “strambi” nei film di šukšin stanno naturalmente in campagna. La loro bizzarria tè il correlativo dell'instintività campagnola di front alle quadrate logiche che si nutrono in città e che ne costituiscono il malioso fascino. La trilogia che qui ne esce è di una freschezza sbarazzina e melanconica insieme, che fa crescere un film teso, e polito, modulato con accortezza sui registri di una rustica -e il termi-ne è tutt'altro che restrittivo - comédie humaine.
La bizzarria ha le sue varianti, naturalmente. E šukšin ne illustra tre.
La prima è la variante patetica. La novelletta del giovane Paška che se ne viene in città a trovare il fratello che non vede da tempo e che trova tanto cambiato da non reggere l'urto di quella diversità - e a quest'urto un altro se ne aggiunge, quello di una città austera e incomprensibile -  è l'ennesima va-riazione del motivo, caro a šukšin, della inconciliabilità dei due mondi, ovvero della confusione che la città mette in chi l'avvicina con devota confidenza in lei.
Paška denuncia una delle situazioni dell'Erlebnis di šulkšin quando dirige il film: « Non sono riuscito a capire bene -cosí si confessava con Benedetti [int. cit.] che cosa deve trovare un uomo di campagna nella sua vita nuova. Voglio, questo è certo, che riesca a trovare qualcosa di vero, di non artificiale di solido. Qualcosa di campagnolo ».
Paška non riesce a trovar quel "qualcosa di noto" che egli viene incosciamente cercando in città. Il suo vagabondare per le strade, l’inattesa distonia con il fratello lo mettono in iscacco, lo risolvono ad accettare la sua resa, senza ammetterla di fronte agli altri.- La menzogna con la quale si pr-esenta ai suoi e alla fidanzata è appunto un modo diverso di dire la verità, di riconoscere la propria erranza e di rientrare nel proprio personaggio. Se viene creduto è anche perché quel suo mentire è necessario agli altri, perché gli sia restituito il suo ruolo di specchio necessario; a se stesso per chiudere la parentesi dalla sua ricercata esenzione dalla funzione che è sua: riscontro della “normalità".
Un'altra variante della bizzarria dà vita al secondo capitoletto del film di šukšin. [Ed le un delizioso entr'acte di una specie di rustico teatro dell'assurdo. L'affabulazione di Bronka e del suo immaginario attentato a Hitler è uno straordinario “crescendo” musicale di invasamenti, di commozioni, di esaltazioni, di sbalordimenti, di sgomenti, talmente ben modulati da rendere assolutamente credibile l'assolo del vecchio contadino dinanzi agli sbalorditi compagni; ospiti venuti dalla città. La loro confusione è  mediata, metaforicamente, dallo spento ruminare delle vacche che ficcan gli occhi nell’impossibile occhio della camera, quasi a dire il potere di suggestione che docilmente viene recepito attraverso le meccaniche dei mass-media. Bronka conosce la via di altre suggestioni. È vero. Ma non a caso esplode con il suo assolo dopo che ha litigato con la moglie capziosa, che lo molesta con una questione rasoterra, i soldi per tirare la giornata.
Di fronte alle esazioni del quotidiano Bronka ha bisogno di un colpo d'ala. Di quel suo solito colpo d'ala che lo tragga fuori come una droga che-assicura immantinente un trip nel mare dell'immaginario ove dolce e il naufragio  da una realtà meschina e grama e che trasfiguri la sua realtà di emarginato, ma rispettato e invocato, nell'aura di un epos eroico a sua misura, in fondo l'eroismo non è forse solo uno dei tanti modi di rivelarsi goffi e bizzarri? E allora?
Un terzo momento della bizzarria può essere la scontrosità. L'irritabile stanchezza di Matvij lvànovic è il frutto di una sollecitudine spesa senza misura per gli altri, giorno per giorno, in una responsabilità che logora. Se oggi ha in uggia il presente è perché è tutto preso dalla memoria del futuro. II futuro apre enormi spazi di invenzione sulle monotonie che il presente misura con pedante pigrizia. La morte diventa un pensiero dominante e la curiosità dopo è cosi viva che a Matvèj lvanovic riesce facile di inventarsi un fantastico funerale. E con la morte la memoria dell’amore che torna, altro termine della bilancia, attraverso la candida figura del'l'amore giovanile che sguscia ed erompe attraverso la scorza delle incomprensioni presenti.
E quando il vecchio avverte che l'amore -- quello che rammemora, perduto, e quello, solo ora rivelato, della moglie - è il vero futuro, quello che è entrato in lui per trasformarsi in dinamica di dedicazione, molto prima di essere "accaduto", allora solamente rientra dal suo straniamento e accetta il presente "mutuato" attraverso il sofferto confronto con lo scultore nelle cui mani il legno già vivo rivive per una seconda creazione, non indegna della prima.
La vita è una tenace recidiva. E Matvèj lvanovíc quando ancora per una volta riconosce nella remissività degli altri, a lui d'intorno, l'ostinazione di questa legge che ha I'età dei suoi anni.

  
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

giovedì 4 maggio 2017

Il Technicolor di Natalie Kalmus si addice a Gene Tierney










Femmina Folle (Leave her to Heaven), 1945


mercoledì 3 maggio 2017

Post Tenebras Music




Di questo film, e di tutta la filmografia,  di un celebratissimo regista, vanno salvati il formato in 4:3 e questa disprezzata cover, It's A Dream, di Neil Young per voce di Nathalia Acevedo, per altro alla maniera di Patti Smith.

In the morning when I wake up and listen to the sound
Of the birds outside on the roof
I try to ignore what the paper says
And I try not to read all the news
And I'll hold you if you had a bad dream
And I hope it never comes true
'Cause you and I been through so many things together
And the sun starts climbing the roof

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away
It's only a dream
Just a memory without anywhere to stay

The Red River stills flows through my home town
Rollin' and tumblin' on its way
Swirling around the old bridge pylons
Where a boy fishes the morning away
His bicycle leans on an oak tree
While the cars rumble over his head
An aeroplane leaves a trail in an empty blue sky
And the young birds call out to be fed

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away
It's only a dream
Just a memory without anywhere to stay

An old man walks along on the sidewalk
Sunglasses and an old Stetson hat
The four winds blow the back of his overcoat away
As he stops with the policeman to chat
And a train rolls out of the station
That was really somethin' in its day
Picking up speed on the straight prairie rails
As it carries the passengers away

It's gone
Only a dream
And it's fading now
Fading away
Only a dream
Just a memory without anywhere to stay

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away
It's only a dream
Just a memory without anywhere to stay

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away

martedì 2 maggio 2017

Umberto Domenico Ferrari

Umberto D.
Se dovessi raccontare la genesi della storia di « Umberto D. ›› dovrei risalire al 1948. La prima idea fu quella di un povero vecchio che aveva sì un cane, ma sopratutto una figlia, per amore della quale pensava persino al delitto. Poi la figlia scomparve, restarono il vecchio e il cane e venne alla luce la padrona di casa.
Se la memoria non m'inganna, la figura della padrona di casa trovò il suo spunto in un fatto che commosso che commosse tutta l’Italia; per non incorrere  in querele, dirò soltanto che si trattò di una padrona di casa così spietata da costringere al suicidio il suo inquilino. Ancora dalla vita, ho preso il motivo per la giovane donna di servizio: quando da Milano mi trasferii a Roma nel 1940 abitai una camera d’affitto e conobbi questa donna di servizio che telefonava di notte alle caserme di Roma intrecciando rapporti con carabinieri, genieri, cavalleggeri, e che so io. Era buona, candida e leggermente stupida.
Chi volesse sapere la ragione del titolo, eccola qui.
Il titolo nacque senza ragione. Era un titolo, e mi piaceva moltissimo, poi cercai di giustificarlo: il mio personaggio chiamava Umberto Domenico Ferrari, ma per modestia si accontentava di firmare Umberto D. Ferrari.
Ora sapete anche i segreti. Vedrete come l’arte di Vittorio De Sica, che mostra qui più che
mai le sue radici umane, abbia dato a questi personaggi il sigillo di una verità che supera di gran lunga la cronaca.
Cesare Zavattini
IL NOTIZIARIO DI MESSINA E DELLA CALABRIA, Domenica 23 dicembre 1951


giovedì 27 aprile 2017

Walker/Parker


Era un tipo massiccio e villoso, dalle spalle diritte e quadrate, le braccia troppo lunghe in un paio di maniche troppo corte. Indossava un vestito grigio stazzonato dal tempo e dalla trascuratezza ...
Richard Stark, The Hunter, 1962
John Boorman, Senza un attimo di tregua, 1967

mercoledì 26 aprile 2017

Gli dei sono dei, gli uomini sono uomini



Sia nella serenità
Che nella malattia
Nessuno
può essere valutato.
Io vi accederò
Per osservare
Le profondità del cuore.
Finché questo mondo, questi corpi,
questi paesi esisteranno,
in ogni angolo della terra,
in ogni regno,
consenti a questo figlio di Dio
di vedere e di non trascurare nulla.
Gli dei sono dei,
gli uomini sono uomini.
Chiunque egli sia
Io lo servirò.
Ti ringrazio.

Naomi Kawase, 2つ目の窓 Futatsume no mado - StillTheWater

domenica 23 aprile 2017

Ваш сын и брат

Vostro figlio e fratello

Vašm syn i bratz  che si ebbe anch'esso e ancora prima di uscire le stroncature di « Literaturnàja Gazeta ›› - prosegue e approfondisce alcuni motivi dell’Erlebnis di šukšin già presenti in Zivët takòj paren senza che vi intervenisse la preoccupazione di un giudizio morale, che qui, invece, è esplicita.

E' domenica. Le ragazze di un piccolo villaggio in Crimea sono a passeggio in riva al fiume Katun in disgelo. Le donne puliscono i tappeti, gli uomini fanno crocchio, bevono o brigano con ii piccoli lavori di casa.
Steipàn Voevodin torna a casa da lontano. In anticipo. Era atteso per l’autunno. E' stato in carcere perché ha menato pugni quando non era il  caso. Stepàn racconta a suo padre della vita del carcere: si stava bene, si mangiava a sufficienza, si vedevano due film alla settimana.
La sera nei corso dell’animato convivio per il suo ritorno, vecchi e giovani cantano assieme la gioia, l'amicizia e l'amore. Si balla. Nel pieno dell'allegria, però, si viene a sapere che Stepàn è scappato di prigione. Gli mancavano appena tra mesi per scontare la sua condanna. Ora gli toccheranno altri due anni
di carcere...
Suo fratello Maksìm, « il ragazzo che non da retta a nessuno ›, è operaio in un cantiere edile nei sobborghi della grande città. Riceve una lettera. Sua madre gli scrive di soffrire di radicolite. Ha sentito dire che il veleno di vipera fa miracoli. Gli chiede di trovarglielo nella grande città.
Maksim comincia la lunga caccia: nelle farmacie, nei laboratori, il veleno non c’è. Alla fine affronta risoluto il direttore della farmacia principale e ottiene quel che vuole, il Vipratox.
Ignati vive anch'egli in città. Fa il professore di educazione fisica e dirige una palestra. Ha sposato la bella šula. Dopo cinque anni decide di tornare a casa, a visitare i suoi. Porta con sé un monte di regali per tutti. Suo padre lo trova cambiato: « E' venuto per darsi delle arie: ha portato dei regali ». Tra i due comincia una sottile schermaglia che si accende ancora quando Vasilij, il fratello piú giovane, torna dal suo lavoro di carpentiere.
Vassia saluta con impaccio la sua bella cognata. l due fratelli vanno al fiume a bagnarsi. Il padre rimprovera a Ignatl di sprecare il suo vigore fisico in città e stimola invano Vassia a misurarsi col fratello piú vecchio. Agli occhi dei padre, Vassia rappresenta la fedeltà alla terra che l'ha nutrito.
Arriva una lettera. E' di Stepàn. « Carissimi genitori, sto bene e lavoro sodo. E' presto per dirlo, ma spero di tornare in autunno. Vi saluta. vostro figlio e fratello: Vaš syn I brat ››.

Il tema della ricerca dell’identità di un giovane che vive in campagna negli anni dei secondo dopoguerra moltiplicando le occasioni di comunicazione con la gente e le opportunità di conoscere le diversità del mondo che cambia intorno a lui, avvalendosi della mobilità nuova che vien ampliandosi anche fuori dai centri urbani (il camion per i lavori tra i kolchozy]  si amplifica e si precisa qui nel confronto tra vita di campagna e vita di città e nel riscontro degli esiti che hanno le vite di quattro fratelli che hanno fatto scelte esistenziali diverse: il piú giovane restando fedele alla terra  Vassia lavora col legname - i maggiori scegliendo la strada del|'inurbamento. -
« La campagna è uscita sulla strada, anzi sull’autostrada ›› dice šukšin [C. Benedetti, int. cit.]. Le distanze si sono talmente accorciate che ora i due mondi, prima impermeabili, si trovano in pieno processo di osmosi. Ma in questo processo è la campagna e la sua gente a non guadagnarci dal punto di vista etico ed esistenziale. Certo questa gente ha acquisito nuove tecnologie e la meccanizzazione del lavoro agricolo ha corretto la sua assillante fatica; in una parola i contadini sono decollati verso prospettive meno faticanti. Ma la gente che ha abbandonato la terra, cioè le sue radici, si trova ora a dover compiere una scelta ben piú "radicale", dopo quelle banali dei portamento e del comportamento convenzionato urbano.
Vaš syn i brat è  il primo severo discorso di šukšin sul che fare? di questa gente che ha ‘ tradito ‘ la campagna e si trova appena nella prima fase di confusa e malaccorta assuefazione alla città e nella città.
šukšin traspone anche questa volta dai suoi racconti - e lo fa di film in film con una padronanza espressiva piú composta e ilare - il grande motivo del confronto dialettico tra i due mondi. E lo personalizza nella vicenda plurima che coinvolge la vecchia casa di campagna presieduta e presidiata dal padre (e accanto gli sono, come ulteriori dimensioni di quel mondo di affetti, la madre, una sorellina sordomuta che sprizza joie de vivre, e il figlio “fedele”, il piú giovane, il piú flessibile al fascino del padre) e i tre fratelli piú anziani che hanno scelto la città, accettandola a livelli diversi di integrazione.
Il primo, Stepan, è quello che ne ha sofferto piú dolorosamente l'impatto: la rissa che gli ha meritato il carcere è segno della sua indisponibilità e insofferenza ad accettare tout court le regole altre della vita urbana. Stepàn è un onorato ribaldo che si fa i suoi mesi di prigione ma non resiste fino infondo alla nostalgia della sua casa e scappa, stupidamente, solo tre mesi prima che spiri la condanna. Accortamente šukšin ci rivela questo particolare in meclias res, quando ha già coinvolto il suo lettore nell'onda di simpatia schietta e spontanea con cui la sua gente, in una sequela di conviti, di canti, di brindisi e di danze festevoli, abbraccia Stepàn tornato a casa prima del previsto. La ‘stupidità’ che l'uomo della polizia gli rinfaccia le in fondo dello stesso spessore di quella che Paška ribatteva alla giornalista in ospedale. La gente di città (luogo dell'esprit de géométrie e manifesto della razionalizzazione) è gente accorta, sia fare i suoi calcoli, conosce
a memoria le leggi della convenienza. Ma ignora la nostalgia, perché non saprebbe neanche dove tornare. Stepan sí, in qualche modo ha tradito la terra madre, lo spirito autentico della Russia; e la vita gli ha imposto il suo - e qui torna - uno dei Leit-motiven di šukšin, quello della inevitabilità della pena dopo ogni errore -- contrappasso. Sta pagando, è disposto a pagare fino in fondo, persino - stupidamente -  di piú di quanto basterebbe. Infatti, quando gli manca l'aria, non può fare a meno di tornarsene a tirar il fiato nella casa del padre. «Dovevo riprendermi. Ora son pronto a farmi tutto il carcere che volete ››.
Dopo l’integrato “a forza", c'è un secondo livello di integrazione. E' quello di Maksìm che sente la città, nella quale ha scelto un suo lavoro “sicuro”, se non straniera e ostile, certamente fredda e indifferente. Non cerca l'inserimento perché ne avverte la differenza. Fa parte per se stesso esorcizzando così l`idea di esser
respinto. E quando è costretto, dalla malattia della madre e dalla necessità di trovarle quella medicina speciale che solo quel mondo custodisce, a confrontarsi con le insensibilità e le indolenze della città e della sua gretta parte burocratica, soffre ad una ad una le stazioni della sua estraneità. šukšin suggerisce qui esplicitamente l`idea che la società socialista può ignorare la solidarietà e la sollecitudine, sociale quanto e piú delle società borghesi.
E che, come e piú che nelle società borghesi, ciò che “sblocca” è poi la conoscenza influente, la raccomandazione di chi conta.
Ignati rappresenta il terzo e non superabile grado dell'integrazione. Della città ha accettato in pieno la logica e le sue conformità, a cominciare dal codice linguistico « neutro, senza sfumature, quasi da gazza ladra, da uccello che cinguetta velocemente ››. E' un pezzo d'uomo: i suoi muscoli che potevano fecondare la terra sono qui messi al servizio di uno dei miti compensativi nella debosciante civiltà dei confort, il culturismo. La sua casa, le sue abitudini, la moglie sbozzacchita e sussiegosa, costituiscono tutto un mondo
di « oggetti ›› acquisiti col suo lavoro, cosí insolito e quindi cosí ben remunerato. Se torna dal padre dopo tanto tempo non tè per nostalgia, come per Stepàn. E' per la curiosità di misurare la distanza che lo separa dalle sue origini, è per un inconfessato desiderio di ostentazione del suo acquisito decoro. I regali che reca con sé e con tanta profusione da infastidire il suo vecchio sono l'accertamento del proprio successo e l'indice di ciò che si può avere in città.
Significativamente il suo vecchio gli oppone, per un confronto fisico che non avrà luogo, l'intatta e incorrotta vigoria fisica - che è proiezione della sanità morale - del fratello piú giovane, Vassia. Il confronto dovrebbe essere la verifica della sua ammonizione a lgnati: « Dov'è che hai preso la tua forza? Qui. E qui la devi spendere ››. Ma proprio ora la “persuasione” del padre si spunta. Il no di Vassia a confrontare la sua forza con quella di Ignati è omologo, per energia ed autorità, alla eccitazione del padre che ama tutti i suoi figli e tutti critica (con partecipazione Stepàn, con sarcasmo Ignati, con indulgenza Vassia) ma senza debolezze perché cerca il loro bene, seguendo il sistema di valori che la terra gli ha respirato in faccia come ha fatto con altri prima di lui, da sempre, per millenni.
Il rifiuto di Vassia è - per usare un linguaggio sportivo – come il passaggio del testimone in una staffetta. Il padre ha finito il suo tratto di corso, ha accettato di *perdere* tre dei suoi figli che han seguito altre piste, e ora consegna il “bastoncino” a chi ha riconosciuto vigoroso e vitale, cioè capace di fare un tratto eguale al
suo, nella stessa corsia. La stanchezza del vecchio che reclina il capo sulla tavola della sua casa dopo aver parlato, scherzato, bevuto con i suoi figli in un costante confronto, «è la pace di chi ha avuto la felicità di riconoscere e cogliere il suo tempo per riposare. La felicità di chi ha trovato un alter ego in cui continuare e in cui ostinarsi a far vivere la propria cultura.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976