Vostro figlio e fratello
Vašm syn i bratz che si ebbe anch'esso e ancora prima di
uscire le stroncature di « Literaturnàja Gazeta ›› - prosegue e approfondisce
alcuni motivi dell’Erlebnis di šukšin già presenti in Zivët takòj paren senza che vi intervenisse la preoccupazione di un
giudizio morale, che qui, invece, è esplicita.
E' domenica. Le ragazze di un piccolo villaggio
in Crimea sono a passeggio in riva al fiume Katun in disgelo. Le donne
puliscono i tappeti, gli uomini fanno crocchio, bevono o brigano con ii piccoli
lavori di casa.
Steipàn Voevodin torna a casa da lontano.
In anticipo. Era atteso per l’autunno. E' stato in carcere perché ha menato
pugni quando non era il caso. Stepàn
racconta a suo padre della vita del carcere: si stava bene, si mangiava a
sufficienza, si vedevano due film alla settimana.
La sera nei corso dell’animato convivio
per il suo ritorno, vecchi e giovani cantano assieme la gioia, l'amicizia e
l'amore. Si balla. Nel pieno dell'allegria, però, si viene a sapere che Stepàn
è scappato di prigione. Gli mancavano appena tra mesi per scontare la sua
condanna. Ora gli toccheranno altri due anni
di carcere...
Suo fratello Maksìm, « il ragazzo che non
da retta a nessuno ›, è operaio in un cantiere edile nei sobborghi della grande
città. Riceve una lettera. Sua madre gli scrive di soffrire di radicolite. Ha
sentito dire che il veleno di vipera fa miracoli. Gli chiede di trovarglielo
nella grande città.
Maksim comincia la lunga caccia: nelle
farmacie, nei laboratori, il veleno non c’è. Alla fine affronta risoluto il
direttore della farmacia principale e ottiene quel che vuole, il Vipratox.
Ignati vive anch'egli in città. Fa il
professore di educazione fisica e dirige una palestra. Ha sposato la bella
šula. Dopo cinque anni decide di tornare a casa, a visitare i suoi. Porta con
sé un monte di regali per tutti. Suo padre lo trova cambiato: « E' venuto per
darsi delle arie: ha portato dei regali ». Tra i due comincia una sottile
schermaglia che si accende ancora quando Vasilij, il fratello piú giovane,
torna dal suo lavoro di carpentiere.
Vassia saluta con impaccio la sua bella cognata.
l due fratelli vanno al fiume a bagnarsi. Il padre rimprovera a Ignatl di
sprecare il suo vigore fisico in città e stimola invano Vassia a misurarsi col
fratello piú vecchio. Agli occhi dei padre, Vassia rappresenta la fedeltà alla
terra che l'ha nutrito.
Arriva una lettera. E' di Stepàn. «
Carissimi genitori, sto bene e lavoro sodo. E' presto per dirlo, ma spero di
tornare in autunno. Vi saluta. vostro figlio e fratello: Vaš syn I brat ››.
Il tema della ricerca dell’identità di un giovane che vive in campagna
negli anni dei secondo dopoguerra moltiplicando le occasioni di comunicazione
con la gente e le opportunità di conoscere le diversità del mondo che cambia
intorno a lui, avvalendosi della mobilità nuova che vien ampliandosi anche
fuori dai centri urbani (il camion per i lavori tra i kolchozy] si amplifica e si precisa qui nel confronto
tra vita di campagna e vita di città e nel riscontro degli esiti che hanno le
vite di quattro fratelli che hanno fatto scelte esistenziali diverse: il piú
giovane restando fedele alla terra
Vassia lavora col legname - i maggiori scegliendo la strada del|'inurbamento.
-
« La campagna è uscita sulla strada, anzi sull’autostrada ›› dice
šukšin [C. Benedetti, int. cit.]. Le distanze si sono talmente accorciate che
ora i due mondi, prima impermeabili, si trovano in pieno processo di osmosi. Ma
in questo processo è la campagna e la sua gente a non guadagnarci dal punto di
vista etico ed esistenziale. Certo questa gente ha acquisito nuove tecnologie e
la meccanizzazione del lavoro agricolo ha corretto la sua assillante fatica; in
una parola i contadini sono decollati verso prospettive meno faticanti. Ma la
gente che ha abbandonato la terra, cioè le sue radici, si trova ora a dover
compiere una scelta ben piú "radicale", dopo quelle banali dei
portamento e del comportamento convenzionato urbano.
Vaš syn i brat è il primo severo discorso di šukšin sul che fare? di questa gente che ha ‘
tradito ‘ la campagna e si trova appena nella prima fase di confusa e malaccorta
assuefazione alla città e nella città.
šukšin traspone anche questa volta dai suoi racconti - e lo fa di film
in film con una padronanza espressiva piú composta e ilare - il grande motivo
del confronto dialettico tra i due mondi. E lo personalizza nella vicenda plurima
che coinvolge la vecchia casa di campagna presieduta e presidiata dal padre (e
accanto gli sono, come ulteriori dimensioni di quel mondo di affetti, la madre,
una sorellina sordomuta che sprizza joie de vivre, e il figlio “fedele”, il piú
giovane, il piú flessibile al fascino del padre) e i tre fratelli piú anziani
che hanno scelto la città, accettandola a livelli diversi di integrazione.
Il primo, Stepan, è quello che ne ha sofferto piú dolorosamente l'impatto:
la rissa che gli ha meritato il carcere è segno della sua indisponibilità e
insofferenza ad accettare tout court le regole altre della vita urbana. Stepàn è un onorato ribaldo che si fa i
suoi mesi di prigione ma non resiste fino infondo alla nostalgia della sua casa
e scappa, stupidamente, solo tre mesi
prima che spiri la condanna. Accortamente šukšin ci rivela questo particolare in meclias res, quando ha già coinvolto
il suo lettore nell'onda di simpatia schietta e spontanea con cui la sua gente,
in una sequela di conviti, di canti, di brindisi e di danze festevoli, abbraccia
Stepàn tornato a casa prima del previsto. La ‘stupidità’ che l'uomo della
polizia gli rinfaccia le in fondo dello stesso spessore di quella che Paška
ribatteva alla giornalista in ospedale. La gente di città (luogo dell'esprit de géométrie e manifesto della
razionalizzazione) è gente accorta, sia fare i suoi calcoli, conosce
a memoria le leggi della convenienza. Ma ignora la nostalgia, perché
non saprebbe neanche dove tornare.
Stepan sí, in qualche modo ha tradito la terra madre, lo spirito autentico
della Russia; e la vita gli ha imposto il suo - e qui torna - uno dei Leit-motiven
di šukšin, quello della inevitabilità della pena dopo ogni errore --
contrappasso. Sta pagando, è disposto a pagare fino in fondo, persino - stupidamente
- di piú di quanto basterebbe. Infatti,
quando gli manca l'aria, non può fare a meno di tornarsene a tirar il fiato
nella casa del padre. «Dovevo riprendermi. Ora son pronto a farmi tutto il
carcere che volete ››.
Dopo l’integrato “a forza", c'è un secondo livello di
integrazione. E' quello di Maksìm che sente la città, nella quale ha scelto un suo
lavoro “sicuro”, se non straniera e ostile, certamente fredda e indifferente.
Non cerca l'inserimento perché ne avverte la differenza. Fa parte per se stesso
esorcizzando così l`idea di esser
respinto. E quando è costretto, dalla malattia della madre e dalla necessità
di trovarle quella medicina speciale che solo quel mondo custodisce, a
confrontarsi con le insensibilità e le indolenze della città e della sua gretta
parte burocratica, soffre ad una ad una le stazioni della sua estraneità.
šukšin suggerisce qui esplicitamente l`idea che la società socialista può
ignorare la solidarietà e la sollecitudine, sociale quanto e piú delle società
borghesi.
E che, come e piú che nelle società borghesi, ciò che “sblocca” è poi
la conoscenza influente, la raccomandazione di chi conta.
Ignati rappresenta il terzo e non superabile grado dell'integrazione.
Della città ha accettato in pieno la logica e le sue conformità, a cominciare
dal codice linguistico « neutro, senza sfumature, quasi da gazza ladra, da uccello
che cinguetta velocemente ››. E' un pezzo d'uomo: i suoi muscoli che potevano
fecondare la terra sono qui messi al servizio di uno dei miti compensativi
nella debosciante civiltà dei confort, il culturismo. La sua casa, le sue
abitudini, la moglie sbozzacchita e sussiegosa, costituiscono tutto un mondo
di « oggetti ›› acquisiti col suo lavoro, cosí insolito e quindi cosí
ben remunerato. Se torna dal padre dopo tanto tempo non tè per nostalgia, come
per Stepàn. E' per la curiosità di misurare la distanza che lo separa dalle sue
origini, è per un inconfessato desiderio di ostentazione del suo acquisito
decoro. I regali che reca con sé e con tanta profusione da infastidire il suo
vecchio sono l'accertamento del proprio successo e l'indice di ciò che si può
avere in città.
Significativamente il suo vecchio gli oppone, per un confronto fisico
che non avrà luogo, l'intatta e incorrotta vigoria fisica - che è proiezione
della sanità morale - del fratello piú giovane, Vassia. Il confronto dovrebbe
essere la verifica della sua ammonizione a lgnati: « Dov'è che hai preso la tua
forza? Qui. E qui la devi spendere ››. Ma proprio ora la “persuasione” del
padre si spunta. Il no di Vassia a confrontare la sua forza con quella di
Ignati è omologo, per energia ed autorità, alla eccitazione del padre che ama
tutti i suoi figli e tutti critica (con partecipazione Stepàn, con sarcasmo
Ignati, con indulgenza Vassia) ma senza debolezze perché cerca il loro bene,
seguendo il sistema di valori che la terra gli ha respirato in faccia come ha
fatto con altri prima di lui, da sempre, per millenni.
Il rifiuto di Vassia è - per usare un linguaggio sportivo – come il
passaggio del testimone in una staffetta. Il padre ha finito il suo tratto di
corso, ha accettato di *perdere* tre dei suoi figli che han seguito altre
piste, e ora consegna il “bastoncino” a chi ha riconosciuto vigoroso e vitale,
cioè capace di fare un tratto eguale al
suo, nella stessa corsia. La stanchezza del vecchio che reclina il capo
sulla tavola della sua casa dopo aver parlato, scherzato, bevuto con i suoi
figli in un costante confronto, «è la pace di chi ha avuto la felicità di
riconoscere e cogliere il suo tempo per riposare. La felicità di chi ha trovato
un alter ego in cui continuare e in cui ostinarsi a far vivere la propria
cultura.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976
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