Ed è
questa, in fondo, una costante della cultura - e della letteratura russe: un
valore indeclinabile, che non è un ripiegamento intellettuale verso le malie
delle georgità o un cedimento di nostalgia alla natura, primigenio
"provocatorio" della cultura.
E' una costante che ha una radice nella stessa
tradizione della gente di campagna. La quale ha espresso nel canto la fedeltà
alla propriaidentità e il proprio epos nei canti
bylinici, autentiche occasioni divita collettiva indicizzate dal nomadismo
dei cantori. La vita comunitaria dunque della gente della campagna è stata da
sempre rinvigorita da questo tessuto connettivo, da questo patrimonio comunque che
veniva esaltato nelle occasioni rituali di incontro - pesche stagionali, taglio
dei boschi, ricorrenze religiose o etniche – ovvero
attraverso l'incessante itinerare degli umili
artigiani che di villaggio in villaggio portavano, oltre al loro mestiere, il
patrimonio, via via piú consistente, di questa melica corale contadina.
Le byline - res
gestae cioè, avvenimenti di fatto accaduti, sedimento epico formatosi per gradi
nei secoli con i bogatyriper
protagonisti, a respingere ad una ad una le minacce che dall'esterno insidiavano
la patria russa - sono dunque il patrimonio piú genuino del mondo rurale russo,
soprattutto nel Sever[nord della Russia), nella Siberia e nei territori tenuti
dal cosacchi.
Le byline
sono il primo indice di una particolare spiritualità, lirica, fantasiosa e
schietta, e di una sensibilità ruvida e appassionata che fascia la propria
terra e la garantisce da ogni sfida piú o meno intimidatoria [al fondo, remoto,
aleggia sempre costante e tenace lo spettro tartaro] che venga da fuori. E oggi
l'esterno è la città,I'industrializzazione, il consumismo, con tutte le loro
malattie sociali.
Accanto a questa espressione folk, spontanea emitica,
v'è naturalmente nella cultura russa anche tutta una tradizione di attenzione alla
terra e alla sua gente, che fu per secoli crucciata dalla servitù della gleba
fino all'editto di emancipazione di Alessandro ll, del 3 marzo 1861.
Così in letteratura (e giusto per venire a tempi piú
prossimi] dai vagheggiamenti idealizzanti di Sergèi Timofeevic Aksàkov e dello stesso Ivan SergvèevicTurgénev,
si passa nella seconda metà dell'Ottocento a tutta una produzione di rincalzo
all`abolizione della servitú, una produzione che rivisita in lungo e in largo
le miserie e le iniquità della vita contadina. Una tensione che avrebbe avuto
probabilmente ancora in Lev Nikolàevic Tolstoj la sua espressione piú acuta e
appassionata se il grande scrittore avesse condotto in porto il progetto del
'77 -- l'anno della sua crisi - di un grande elogio del popolo delle campagne e
della sua forza che si esprime soprattutto, appunto, nella devota coltivazione
della terra.
E anche nel Novecento questa attenzione alla terra non
smette, nei territori della letteratura. Ed è questa solerte auscultazione
della campagna e della sua gente che šukšín prosegue, ponendosi in buona, in
ottima compagnia. Impossibile in questa sede definire il quadro organico di
questi interessi e di questa produzione. E' giocoforza procedere per
nominazioni e per riferimenti; i quali però già indicano i sensi dell'estremamente
modulata serie di approcci e di compromissioni con questa tematica.
Giusto per non rifarci direttamente al campione del
realismo socialista, Maksìm Gorkij, ricorderemo alcuni dei suoi seguaci, quelli
che piú direttamente, anche se non esclusivamente, seguirono la campagna e la
sua gente nel lento moto di metamorfosi sociale e politica; e iniziarono
l'inventario delle inferenze di questo cambiamento nell'anima del contadino
russo.
Già nel corso della rivoluzione del 1905 Stèpan Gavriloviö
Petròv detto Skitàlec, il “vagabondo” scriveva i suoi racconti sulla campagna
russa, primo ragguaglio su un mondo che si muove. E tra i racconti di Sergej
Nikolàevic Sergéev Ciènskij, uno degli esponenti del realismo critico
prerivoluzionario, campeggia «Tristezza dei campi ››, acuminata parabola del
superamento dei crucci per lo star bene.
Con grande forza espressiva Aleikséj Pàvlovic šapygin
recupera le sue origini contadine e il timbro del mondo bilinico nel romanzo «
'L'eremitaggio bianco ›› che è del 1915: e poi, nel '27, colla rievocazione
quasi filologica dell'epopea di quell'indomito`contadino che nel 1670 riuscí
con la sua ribellione a far tremare il trono degli zar, Strèpan Razin, un
precursore di Pugacëv. E šukšin infatti, come dicemmo, confermerà il
significato storico di quella ribellione e la perenne attualità di quel gesto -
il no detto a un mondo lontano, assente,
che si fa vivo imponendo parametri,
comportamenti ed esazioni - intestando a Razin il romanzo cinematografico «Sono
venuto a darvi la libertà ››.
Prima della conversione alla drammaturgia - e « Pugaëëšcina
» (t.l.: I tempi di Pugacëv] è nel 1924 il suo biglietto di visita come autore teatrale
- anche Konstantin Andréevic Trenëv, lui
pure di origine contadina, fissò la sua attenzione sullo status della vita
della sua gente in una serie di ben azzeccati racconti.
Autonomi rispetto a Gor"kìj ed anzi esponenti
della diffusa corrente del realismo critico che precede la rivoluzione
d'ottobre sono Semën Pàvlovic Pod'jàöev e lvàn Egoròvic Vladimirov. Essi son
gli ultimi campioni di una linea di intelligenciia contadina, di
formazione per lo piú autodidattica, che s'era spontaneamente e inorganicamente
costituita nella seconda metà del secolo con il proposito di rendere testimonianza quasi cronachistica ai tempi e alle
situazioni esistenziali e sociali della gente delle campagne. I loro racconti,
sovente di vena autobiografica, sono estremamente interessanti oltre che come
documento sociologico e come rilevazione del fermento politico che attraversa
la loro gente, anche dal punto di vista linguistico perché si nutrono di quella
espressività singolare, della rotta freschezza e arguzia di quel dialogo. Non a
caso l'uno e l'altro diverranno dopo la rivoluzione diligenti rubricatori della
"ricostruzione socialista" delle campagne. Le quali d'ora in avanti,
anche in seguito al grande decollo dell'alfabetizzazione, avranno sempre meno
autori “genuini”, espressi cioè direttamente dalle province per testimoniare la
vita della gente dei campi sarà in aumento invece la schiera dei cantori d'elezione,
prosatori e poeti che scelgono la terra come materia di canto e termine del
loro ingaggio sociale.
Prima che questa proletarizzazione delle campagne e di
conseguenza anche della letteratura sulla campagna venisse acquisita fu quasi un'avvisaglia - uno scrittore di
estrazione liberalborghese, Viktor Vasil’evic
Mùjzel, proprio “piegandosi” da gentiluomo sulla vita miserevole dei
contadini e raccontandola, andò oltre la "disposizione" del nostro
Verga e trovò il destro per accostarsi alla sinistra politica.
Chi invece questo passo non seppe e non volle fare,
rifiutando anzi con il gesto eloquente dell'esilio le prospettive
rivoluzionarie, fu lvàn Alekséevic Bùnin. In lui l'estrazione sociale - i suoi
erano grossi proprietari terrieri ridotti male - determinò unidirezionalmente
il plurimo impegno di letterato - non ebbe neanche studi regolari , impegno che
però raggiunse una prima acme, dopo i racconti “preparatori”, in due romanzi, «
La campagna » e « Valsecca ››, che all'inizio degli anni dieci consacrarono il suo
grande talento di narratore, che otterrà il riconoscimento del Nobel nel 1933.
ln questa "lunga suite epico-lirica” in due tempi
emerge la sua sostanziale fedeltà alla tradizione: nel recupero
dell'umanitarismo ottocentesco, nella celebrazione della natura e delle sue sane
lusinghe, nell'ossequio a un tema di fondo - la campagna e i rapporti tra
padrone e contadini, accomunati in fondo alla severa e tribolata religione
della terra - sempre scompaginato dal fantasmagorico irrompere delle vicende e
dei protagonisti che conciliano ì loro dissidi aspri o futili nella
consapevolezza d'una soggezione a un destino comune.
Contemporaneo di Bùnin, autodidatta e fedele fino in
fondo alla patria russa, interprete tra i piú originali del realismo, capace d`una
scrittura icastica, dalla quasi fisica palpabilità cosi lo giudicò Gor'kij - fu
Michail Michàilovic Prìsvin. Egli tè probabilmente il piú alto interprete
contemporaneo della pietas verso la natura colta come sfondo della vita umana;
e della stupefazione dell'uomo, che fiorisce soprattutto tra l'umile gente
creatrice di fiabe, di fronte alle meraviglie di quella: tensioni che trovano
il loro vertice nella raccolta di novelle « Lo sgelo della foresta ››, 1945.
(continua)
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976