Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
lunedì 7 luglio 2014
mercoledì 2 luglio 2014
Dopo il Neorealismo
La cosa che oggi mi pare più sorprendente nella produzione italiana è
che essa sembra dover uscire dall’impasse
estetica in cui si poteva credere che la tenesse il “ neorealismo “. Passata l’esplosione degli anni ’46 e ’47, si
è potuto temere che questa utile e intelligente reazione contro l’estetica
italiana della grande messa in scena e, d’altra parte, più in generale, contro
l’estetismo tecnico di cui soffriva il cinema di tutto il mondo, non potesse
andare oltre l’interesse di una sorta di super-documentario, o di reportage
romanzati. Ci si è trovati a constatare
ch il successo di Roma città aperta, di Paisà, di Sciuscià era
inseparabile da una certa congiuntura storica, che esso partecipava del senso
stesso della Liberazione e che la loro tecnica era in qualche modo magnificata
dal valore rivoluzionario del soggetto. Come certi libri di Malraux o di
Hemingway trovano in una sorta di cristallizzazione dello stile giornalistico
la forma di un racconto più appropriato alla tragedia dell’attualità, così i
film di Rossellini o di De Sica dovevano solo ad un accordo accidentale della
forma e della materia il fatto di essere delle opere maggiori, dei “ capolavori
“. Ma una volta che la novità ma soprattutto il pimento di questa crudezza
tecnica hanno esaurito il loro effetto sorpresa, che resta del “ neorealismo “
italiano, quando deve per forza di cose tornare a soggetti tradizionali:
polizieschi, psicologici o anche di costume?
Passi ancora per la macchina da presa per le strade, ma la splendida
interpretazione non professionale non si condanna da sola a mano a mano che le
rivelazioni vanno ad ingrossare le file delle vedette internazionali? E per generalizzare
questo pessimismo estetico: il “ realismo “ non può avere in arte che una
posizione dialettica, è più una reazione che una verità- Resta da integrarlo in
seguito all’estetica che sarà, così, venuto a verificare. Gli italiano non
erano del resto gli ultimi a dir male del loro “ neorealismo “. Credo che non ci sia un regista italiano
compresi i più“ neorealisti “, che non assicuri energicamente che bisogna
uscirne.
Così il critico francese si sente preso da scrupoli – tanto più che il
famoso neorealismo ha dato ben presto segni di visibile stanchezza. Delle
commedie, per altro abbastanza divertenti, sono venute a smerciare con una
visibile facilità la formula di Quattro
passi fra le nuvole o di Vivere in
pace. Ma la cosa peggiore di tutte è statala comparsa di una sorta di
super-produzione “ neorealista “ in cui la ricerca della cornice vera,
dell’azione di costume, della pittura di un ambiente popolare, degli sfondi “
sociali “ diventava un luogo comune accademico. Cosi quest’anno, a Venezia, Patto
col diavolo di Luigi Chiarini, cupo melodramma di amore campagnolo, cercava
visibilmente di trovare in una storia di conflitto tra pastori e boscaioli un
alibi secondo il gusto del momento. Per quanto riuscito da altri punti di
vista, In nome della legge, che gli italiani hanno tentato di spingere avanti a
Knokke-le-Zoute, non sfugge affatto agli stessi rimproveri. Si noterà di
passaggio, con questi due esempi, che il neorealismo punta adesso sul problema
rurale, forse per prudenza verso i successi del neorealismo urbano. Alle “
città aperte “ succedono le campagne chiuse.
Cominciavamo già a volgerci verso l’Inghilterra, la cui rinascita
cinematografica è anch’essa in parte frutto del realismo: quello della scola
documentaristica che, prima e durante la guerra, aveva approfondito le risorse
offerte dalle realtà sociali e tecniche. E’ probabile che un film come Breve incontro sarebbe stato impossibile
senza il lavoro decennale di Grierson, Cavalcanti o Rotha. Ma gli inglesi,
invece di rompere con la tecnica e la storia del cinema europeo e americano,
hanno saputo integrare all’estetismo più raffinato le acquisizioni di un certo
realismo. Niente di più costruito, di più concentrato, di Breve incontro, niente di meno concepibile senza le risorse più
moderne del teatro di posa, senza attori abili e consumati; si può immaginare
tuttavia pittura più realistica dei costumi e della psicologia inglese?
Breve
incontro fece allora quasi altrettanta
impressione di Roma città aperta. Il tempo si è incaricato di mostrare quale
dei due avrebbe avuto un avvenire cinematografico vero. Peraltro il film di
Noel Coward e David Lean non doveva granché alla scuola documentaristica di
Grierson.
I miei dubbi sul cinema italiano non sono andati tanto in là …. Ma c’è Ladri di biciclette.
Infatti con Ladri di biciclette
De Sica ce l’ha fatta ad uscire dall’impasse,
giustificare di nuovo tutta l’estetica del neorealismo.
Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin,
op. cit.
lunedì 30 giugno 2014
Capri 17 maggio 1963 ore 17,00
OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu "
Nella primavera del 1963 Jean-Luc Godard sbarca a Capri per girarvi, set villa Malapartre, Le mepris. Non era solo, non lo poteva
mai essere, avendo scelta come
protagonista del film Brigitte Bardot. Neanche lei era sola, si portava dietro
un codazzo lungo quanto la distanza che c’è tra Capri e Napoli di paparazzi.
Esseri molto avventurosi e intraprendenti di fotografi il cui soprannome fu regalato
loro da Federico Fellini. I protagonisti
di questo documentario di Jacques Rozier sono loro e i teleobiettivi delle
macchine fotografiche a tracolla che
cercavano di rubare una posa inedita, quanto sconcia, alla bella Brigitte. Le
guardie cercavano invano di tenere a bada i caparbi rubapose, essi saltavano da tutte le parti,
dal mare o come capre dalle rocce capresi. Forse quello fu il momento più alto
vissuto da questa categoria di artisti finiti a rubare immagini anche ai più
insignificanti divi televisivi per copertine di giornali spazzatura che finiscono
sui tavolini delle sale d’attesa di medici e assicuratori. Nel documentario
Rozier monta con gusto nouvelle vague, alle musiche di Antoine Duhamel e alla
voce di Michel Piccoli, immagini di copertine di riviste con fotogrammi
frammentati della Bardot, ricreandone un mito ad libitum.
·
Regia,Montaggio e Testo: Jacques Rozier . Voce: Michel Piccoli, Jean Lescot et
Davide Tonelli
·
Assistente regia : Michel S. Cavillon, Hubert Watrinet -Musica : Antoine Duhamel
·
Photographie : Maurice Perrimond
·
Suono : Jean Baronnet - Mixage son : Louis Perrin
Antonioni chiuso in Ferrara
Michelangelo Antonioni
giovedì 26 giugno 2014
Aporia e doni in Caulonia (RC)
“ Definiamo dono ogni prestazione
di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di
creare, alimentare o ricreare il legame
sociale tra le persone ”. Jacques T. Godbout
Al momento di girare Il dono
(2003) Michelangelo Frammartino era un architetto che costruiva delle
video-installazioni. Il dono è una
video installazione gonfiata in 35 mm.
Il film come le video-installazioni non ha una trama, poggia su delle
immagini dentro cui si muovono le figure, la luce e soprattutto, e qui sta la
sua forza, i suoni o, se per voi è meglio, i rumori – catturati con discrezione da Davide Sampieri - creando l’armonia della musica. I dialoghi
sono preventivamente esclusi.
C’è un paese, c’è un vecchio che ha lo sguardo sottaciuto di Buster
Keaton, c’è un’ebete che si crede posseduta dal demonio, in realtà si dona a chiunque
la carica in macchina, compreso il barbiere del paese. Questa però soccorre con
il suo aiuto ( dono ) le vecchie che non hanno nessuno che si prenda cura di
esse.
L’ebete è soccorsa dal vecchio che le regala una Vespa e sembrerebbe
quasi che la voglia emancipare da quel darsi ai paesani.
Infine c’è il mare, con i suoi relitti sulla riva dove si vanno ad
infrangere le onde.
“ L’ho chiamato Il dono il mio
primo film perché il dono è un concetto aporetico, nel senso che il dono esiste
e non esiste. Se tu doni non ma hai memoria del dono fatto vuol dire che senti
il credito, allora non è più un dono, è uno scambio, allora devi farlo e
dimenticarlo, cioè nello stesso istante in cui lo fai non lo devi fare, non
dev’esserci “. Michelangelo
Frammartino
Il dono è un film libero, che
libera lo spettatore di farsi catturare dall’armonia, che è anche l’armonia
della natura.
Girato a Caulonia a monte dell’antica Kaulon, in piena Magna Grecia, paese
natale della famiglia Frammartino, il lavoro attraverso quei suoni di cui si
diceva ci restituisce intaccati i luoghi e i colori della nostra infanzia: i
vicoli silenziosi; le vecchie case, spesso disabitate; lo scorrere lento del
tempo ricordato dal rintocco della campana della chiesa; la vallata che si
espande sul mare Jonio; la fiumara, riflettente la luce solare.
mercoledì 25 giugno 2014
lunedì 23 giugno 2014
Loser in Mexico
OGGI
Warren Oates è un loser sulla
scia dei precedenti che costellano la filmografia di Sam Peckinpah. Vivacchia
in Messico City cantando in locali per turisti americani che offrono di tutto:
tequila, birra Corona e donne. E’ infantilmente innamorato di una cantante poco
chiara e molto ambigua che non si fa scrupoli di raggirarlo in ogni occasione.
Il caso offre a Warren di uscire fuori dalla melma. Gli arriva sottoforma di
una testa che guarda caso era sulle spalle di un amante della sua, creduta,
donna: Alfredo (Al) Garcia. In molti cercano Al reo di aver messo in stato di
gravidanza la figlia di un boss messicano con il volto di Emilio El Indio
Fernandez. Riuscito ad impossessarsi della testa di Alfredo, ormai ricercata
pure dalle mosche, Warren vuole conoscere chi paga e perché. Nel frattempo Al è
diventato anche un rivale con cui fare i conti per via della poco chiara donna.
In questa occasione Sam Peckinpah si trasferisce totalmente in Messico,
lo aveva preceduto poco tempo addietro anche Don Siegel per girarvi Two Mules for Sister Sara ( Gli avvoltoi
hanno fame). In Messico Peckinpah si avvale del lavoro di Alex Phillips Jr
per catturare al meglio il retroterra rurale ma anche della presenza di due
nomi che hanno contribuito a fondare il cinema nazionale messicano: il nominato
Indio e Chano Urueta. Il film lo si può prendere come un’elegia di quel cinema
come di un paesaggio ormai al tramonto e a Peckinpah si affiancherà negli anni
anche Cormac Mc Carthy con la sua trilogia letteraria.
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