OGGI
Pellicole come quella di oggi erano escluse dalla programmazione domenicale del Cinema Loreto di Platì. Esse venivano proiettate durante la settimana lavorativa, il martedì o il giovedì, esclusivamente per un pubblico adulto alle 19,10, spettacolo unico.
Un trentenne squattrinato aspirante toreador vive con una combriccola di suoi coetanei ai margini di Mexico City sognando sempre il momento della verità.
Ha una fidanzata che gli vuole bene e gli passa il denaro per i bisogni di tutti i giorni. Essa allo stesso tempo simpatizza (solo?) con altri ma ama solo Gabino che ama l'arena.
Un giovane già affermato toreador un giorno dice a Gabino che andrà a partecipare ad una toreada che ha lo scopo di raccogliere soldi a fini caritatevoli in un paese poco distante la grande metropoli.
Gabino si presenta al sindaco del paese offrendo disinteressatamente la sua prestazione ma è rigettato perché sconosciuto nelle arene.
Senza scoraggiarsi trova un sostenitore nel parroco del paese a cui spiega la partecipazione alla gara al solo fine di esaudire un voto contratto con Santa Lucia a favore della madre sofferente.
Gabino con l'aiuto della fidanzata e degli amici riesce a procacciarsi i soldi che servono per partecipare alla gara, vestiario compreso.
Il giorno arriva ma il sogno di diventare torero si infrange a causa della mediocre prestazione di Gabino, al quale non rimane che un amaro ritorno in città.
L'idea originale del film è dello stesso attore protagonista, Fernando Casanova, a cui Luis Alcoriza si presta per la sceneggiatura.
Il lavoro, portato a termine da Benito Alazraki lo si può spartire in due parti fuse in moviola dall'esperta Gloria Schoeman: quella prettamente di finzione in cui agiscono gli attori professionisti e quella semi documentaria attorno alla vita delle mattanze a discapito dei tori.
La prima, col senno di poi, sembra che debba qualcosa ai ragazzi di vita o all'accattone pasoliniani, e dobbiamo dire che il regista se la cava egregiamente abbozzando tutta una moltitudine di marginali, non solo l'aspirante torero e la sua fidanzata, tra cui citiamo il padre di lei ex allenatore di toreri confinato sulla sedia a rotelle per un incidente sul lavoro e l'amico consigliere che segue e incoraggia il protagonista nel suo girovagare per trovare un ingaggio.
La parte semi documentaria è senza dubbio la più riuscita. Sono centinaia i film che hanno i toreador e l'arena per soggetto (compreso quello con Totò, Fifa e arena), ma ai toreri e alle arene messicani non siamo avvezzi.
Sin dalle prime immagini Benito Alazraki ci immerge in tutto ciò che accade dopo e attorno alla mattanza accostandoci alla moltitudine di persone che la seguono o vi prendono parte: i bambini che corrono dietro al matato toro appena uscito dalla polverosa arena, sgozzato il quale ne bevono il sangue; e ancora tutta quella moltitudine di campesinos assiepati sugli gradinate o seduti sui corral che bevono gassosa. E la vita paesana che ruota attorno ai festeggiamenti per la santa portata in processione in mezzo a bancarelle e ambulanti venditori con la conclusione notturna con i fuochi d'artificio a base di girandole scintillanti e cavalluccio, o forse è un toro?, scoppiettante.
Questa parte, per tornare all'inizio, ricorda molto quanto accadeva a Platì per la festa della Madonna del Rosario o dell'Immacolata davanti alla chiesa del Rosario con il popolo esultante.
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
martedì 22 aprile 2014
giovedì 17 aprile 2014
Come in un gioco insensato. Appunti sulla Calabria di De Seta.
Vittorio De Seta
1923 - 2011
La costruzione sconsiderata del Sud, così come massimamente si è compiuta
dal secondo dopoguerra in avanti, è il concetto cardine di In Calabria, il lungo documentario che Vittorio De Seta girò nel
1993, quarant’anni dopo quelli che il regista palermitano da poco scomparso
dedicò alla civiltà preindustriale del Mezzogiorno. È un film a colori, girato
in 16 millimetri e della durata di ottanta minuti, sulla disintegrazione del
sistema sociale meridionale già paventata negli anni Cinquanta all’interno dei
documentari più brevi dei quali si è parlato nei numeri 42 e 44 di «Lunarionuovo» e che, come rivelano
le immagini di In Calabria, puntualmente si è
compiuta nella fase tarda della modernità: al tempo ritualizzato e all’esigenza
di armonia di una volta sono subentrati il ritmo frenetico e il progresso
insensato legati a un’idea di industria e di macchina che, non funzionando, è
sfociata in degrado ambientale, emigrazione, disoccupazione e criminalità. De
Seta individua in Calabria alcuni dei simulacri di questo fallimento e ne
estende la portata all’intera civiltà capitalistica; il più delle volte si
tratta di luoghi abbandonati: i paesi fantasma, come Laino Castello, le rovine
delle fabbriche disseminate sulla piana di Lamezia Terme, il porto inutilizzato
e il centro siderurgico di Gioia Tauro, sono tutti residui di una insufficienza
che, secondo De Seta, è spirituale prima ancora che economica e sociale e che
il rinnovamento della sacralità tradizionale di alcune feste religiose, come
quella dei santi Cosma e Damiano a Riace, della Madonna della Montagna al
santuario di Polsi e di san Rocco a Gioiosa Jonica, non riesce, ovviamente, a
colmare del tutto. Ma, d’altro canto, permane in quel vuoto anche il sapere
accademico, frammentato com’è in un’infinità di specializzazioni che non sono
capaci di rispondere alle domande essenziali dell’uomo e che, in Calabria,
trova il suo equivalente nella fredda struttura dell’Università di Arcavacata
come De Seta non tarda a evidenziare nelle sequenze centrali del film.
La religiosità cui egli allude è, più propriamente, un principio di bene morale e di solidarietà, cui è possibile attingere soltanto attraverso un richiamo continuo al proprio senso di responsabilità e, in conseguenza di ciò, alla propria vera identità, all’autenticità della propria cultura, al progresso delle coscienze. E invece In Calabria mostra un Sud senza senso («tutto alla rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato» recita la ferma voce fuori campo commentando gli ultimi fotogrammi della pellicola) che versa in una condizione ormai difficile da risanare, nonostante sia lo stesso De Seta a indicare con chiarezza e, specialmente nel finale, con qualche eccesso di retorica, quale strada si sarebbe potuta percorrere: quella della semplicità, dell’accordo con la natura, della concordia, dell’altruismo. Un cammino che, però, non conduca a un recupero liturgico di tali elementi, ma che pervenga, piuttosto, alla celebrazione di una comunità che si riconosca giorno per giorno in ogni aspetto della propria vita. Appare subito evidente come il momento rituale si impregna di significato soltanto se il riconoscimento, e dunque l’esercizio critico delle competenze, è quotidiano, non servendosi esclusivamente, come è accaduto troppo spesso finora, dell’occasione festiva o del richiamo a una tradizione o a una familiarità infondate nel vano tentativo di rinnovarsi, di attualizzarsi. Guardando le immagini delle celebrazioni calabresi, infatti, sorge piuttosto il sospetto, cui si è fatto cenno in precedenza, che esse, funzionando come specchi sui quali cogliere i difetti delle comunità che le allestiscono (oppure insistendo forzatamente su un vincolo tra vita sociale ed evento rituale ormai da tempo consumatosi), finiscano per partecipare al tracollo spirituale del Meridione. Sul versante opposto, è bene comprendere come la Calabria di De Seta incarni il rischio che potrà correre l’umanità intera qualora dovesse prendere in considerazione l’opportunità di attenersi alle logiche del benessere e del profitto a tutti i costi cui si è condannato l’intero sistema sociale rappresentato nel film del ’93.
Ma cosa si nasconde al di là delle rovine così recenti mostrate da De Seta? Esse non costituiscono i frammenti di ciò che è stato deteriorato o di ciò che è crollato; sono, piuttosto, l’indice di ciò che non è stato fatto, di ciò che è rimasto incompiuto e, mediante un paradosso soltanto apparente, di ciò che potrebbe verificarsi in un futuro non troppo lontano. Quei resti sono segni di pietra e di metallo che rimandano esemplarmente a un tempo che consente di misurare il carattere effimero dei destini umani. Ad essi, insomma, non ci si può accostare mediante l’emozione di ordine estetico che suscitano le antiche spoglie di una civiltà scomparsa: segnalano, invece, un tempo vuoto, ma coperto di cemento e di erbacce e, in un certo senso, impuro, spiegabile soltanto storicamente. È per questo che a De Seta è sembrato utile osservare gli scheletri abbandonati delle fabbriche e dei porti calabresi al fine di una comprensione efficace della situazione meridionale nel corso di quella che Marc Augé definisce surmodernità: essi insegnano a riprendere coscienza della storia proprio nel momento in cui – come sostiene l’antropologo francese – «tutto concorre a farci credere che la storia sia finita»1. Somigliano a cantieri, circondati da terreni incolti, e suscitano un senso di attesa che, destinato a protrarsi indefinitamente, comunica visivamente un disagio di lungo corso, accertato storicamente. Che, rispetto agli anni Cinquanta, il senso dei luoghi sia mutato, che si viva ormai in assenza di riferimenti culturali e che la prospettiva futura sia definitivamente compromessa è facile desumerlo dal modo in cui De Seta, ora più di allora, riesca a creare un piano di riflessione uniforme sul quale porre ogni residuo naturale, l’artificio e le fabbriche, le città abbandonate e quelle infestate dai fumi di scarico delle automobili, le ricorrenze religiose e il modo di viverle. Per constatare cos’è rimasto sotto tutto questo, il regista cerca (e trova) una modalità espressiva che sia in grado di mostrare più efficacemente la disintegrazione del Sud: unisce in un unico ambiente filmico il suono delle campane e il baccano delle automobili e dei camion sui viadotti, i segnali colti spesso in presa diretta dei clacson e dei macchinari per il calcolo e il rumore dei tuoni, dell’acqua piovana e del coltello che incide la pelle del maiale, e persino gli inserti cantati della corale greco-albanese di Lungro e i frequenti ma non debordanti commenti della voce off di Riccardo Cucciolla. Ne viene fuori un film, come di consueto girato da De Seta sulla base di un’esile sceneggiatura, che riesce a documentare il ritmo di quell’universo contaminato, insensato, incomprensibile, senza però sovraccaricare troppo l’attenzione dello spettatore che, mediante un imprevisto quanto flebile esercizio d’ottimismo, continua a essere chiamato a integrare ciò che osserva con la sua sensibilità. Ciò è possibile perché lo sguardo del regista mantiene quell’inquietudine originaria che già caratterizzava i suoi lavori precedenti e che nasconde la reale natura del suo modo di intendere il documentario: esso, in fin dei conti, consiste nel riprendere quello che succede, senza barare, senza cioè influenzare o cercare di indirizzare il corso degli eventi mostrati, anche se questi dovessero sussumere la negazione di ciò che, oltre la superficie delle cose, definirebbe l’essenza del Meridione. Persino nel caso in cui questa dovesse rivelarsi vacante.
ALESSANDRO GAUDIO
La religiosità cui egli allude è, più propriamente, un principio di bene morale e di solidarietà, cui è possibile attingere soltanto attraverso un richiamo continuo al proprio senso di responsabilità e, in conseguenza di ciò, alla propria vera identità, all’autenticità della propria cultura, al progresso delle coscienze. E invece In Calabria mostra un Sud senza senso («tutto alla rinfusa, senza un disegno, come in un gioco insensato» recita la ferma voce fuori campo commentando gli ultimi fotogrammi della pellicola) che versa in una condizione ormai difficile da risanare, nonostante sia lo stesso De Seta a indicare con chiarezza e, specialmente nel finale, con qualche eccesso di retorica, quale strada si sarebbe potuta percorrere: quella della semplicità, dell’accordo con la natura, della concordia, dell’altruismo. Un cammino che, però, non conduca a un recupero liturgico di tali elementi, ma che pervenga, piuttosto, alla celebrazione di una comunità che si riconosca giorno per giorno in ogni aspetto della propria vita. Appare subito evidente come il momento rituale si impregna di significato soltanto se il riconoscimento, e dunque l’esercizio critico delle competenze, è quotidiano, non servendosi esclusivamente, come è accaduto troppo spesso finora, dell’occasione festiva o del richiamo a una tradizione o a una familiarità infondate nel vano tentativo di rinnovarsi, di attualizzarsi. Guardando le immagini delle celebrazioni calabresi, infatti, sorge piuttosto il sospetto, cui si è fatto cenno in precedenza, che esse, funzionando come specchi sui quali cogliere i difetti delle comunità che le allestiscono (oppure insistendo forzatamente su un vincolo tra vita sociale ed evento rituale ormai da tempo consumatosi), finiscano per partecipare al tracollo spirituale del Meridione. Sul versante opposto, è bene comprendere come la Calabria di De Seta incarni il rischio che potrà correre l’umanità intera qualora dovesse prendere in considerazione l’opportunità di attenersi alle logiche del benessere e del profitto a tutti i costi cui si è condannato l’intero sistema sociale rappresentato nel film del ’93.
Ma cosa si nasconde al di là delle rovine così recenti mostrate da De Seta? Esse non costituiscono i frammenti di ciò che è stato deteriorato o di ciò che è crollato; sono, piuttosto, l’indice di ciò che non è stato fatto, di ciò che è rimasto incompiuto e, mediante un paradosso soltanto apparente, di ciò che potrebbe verificarsi in un futuro non troppo lontano. Quei resti sono segni di pietra e di metallo che rimandano esemplarmente a un tempo che consente di misurare il carattere effimero dei destini umani. Ad essi, insomma, non ci si può accostare mediante l’emozione di ordine estetico che suscitano le antiche spoglie di una civiltà scomparsa: segnalano, invece, un tempo vuoto, ma coperto di cemento e di erbacce e, in un certo senso, impuro, spiegabile soltanto storicamente. È per questo che a De Seta è sembrato utile osservare gli scheletri abbandonati delle fabbriche e dei porti calabresi al fine di una comprensione efficace della situazione meridionale nel corso di quella che Marc Augé definisce surmodernità: essi insegnano a riprendere coscienza della storia proprio nel momento in cui – come sostiene l’antropologo francese – «tutto concorre a farci credere che la storia sia finita»1. Somigliano a cantieri, circondati da terreni incolti, e suscitano un senso di attesa che, destinato a protrarsi indefinitamente, comunica visivamente un disagio di lungo corso, accertato storicamente. Che, rispetto agli anni Cinquanta, il senso dei luoghi sia mutato, che si viva ormai in assenza di riferimenti culturali e che la prospettiva futura sia definitivamente compromessa è facile desumerlo dal modo in cui De Seta, ora più di allora, riesca a creare un piano di riflessione uniforme sul quale porre ogni residuo naturale, l’artificio e le fabbriche, le città abbandonate e quelle infestate dai fumi di scarico delle automobili, le ricorrenze religiose e il modo di viverle. Per constatare cos’è rimasto sotto tutto questo, il regista cerca (e trova) una modalità espressiva che sia in grado di mostrare più efficacemente la disintegrazione del Sud: unisce in un unico ambiente filmico il suono delle campane e il baccano delle automobili e dei camion sui viadotti, i segnali colti spesso in presa diretta dei clacson e dei macchinari per il calcolo e il rumore dei tuoni, dell’acqua piovana e del coltello che incide la pelle del maiale, e persino gli inserti cantati della corale greco-albanese di Lungro e i frequenti ma non debordanti commenti della voce off di Riccardo Cucciolla. Ne viene fuori un film, come di consueto girato da De Seta sulla base di un’esile sceneggiatura, che riesce a documentare il ritmo di quell’universo contaminato, insensato, incomprensibile, senza però sovraccaricare troppo l’attenzione dello spettatore che, mediante un imprevisto quanto flebile esercizio d’ottimismo, continua a essere chiamato a integrare ciò che osserva con la sua sensibilità. Ciò è possibile perché lo sguardo del regista mantiene quell’inquietudine originaria che già caratterizzava i suoi lavori precedenti e che nasconde la reale natura del suo modo di intendere il documentario: esso, in fin dei conti, consiste nel riprendere quello che succede, senza barare, senza cioè influenzare o cercare di indirizzare il corso degli eventi mostrati, anche se questi dovessero sussumere la negazione di ciò che, oltre la superficie delle cose, definirebbe l’essenza del Meridione. Persino nel caso in cui questa dovesse rivelarsi vacante.
ALESSANDRO GAUDIO
1. M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2003), trad. di
A. Serafini, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p.
L’originale è qui:
mercoledì 16 aprile 2014
Vittorio De Seta - Il mio viaggio in Calabria
“ … l'oggetto filmato, la
Calabria perduta, si assenta e si sospende, scoprendo contemporaneamente la
potenza utopica e ucronica del cinema. “ Jean-Louis Comolli
I
film di Vittorio De Seta I dimenticati (1959) e In Calabria
(1993), a cui si può aggiungere Lu tempu di lu pisci spata (1954),
costituiscono nell'esplorazione che stiamo facendo sulla rappresentazione della
Calabria nel cinema, uno spartiacque ma anche il cuore, o se volete, il centro,
tra passato e avvenire. La parola futuro è sistematicamente esclusa. “ Il
futuro non appartiene a noi altri “ recitava Henry Fonda in C'era una
volta il west
Vittorio
De Seta la Calabria l'ha sentita fin dal suo concepimento nel grembo della
madre, che era calabrese. Il suo cinema cominciò altrove ma ebbe termine, come
un viaggio, con il ritorno nel grembo materno, regalando alla Calabria un film
stilisticamente perfetto pur nella sua brevità: Articolo 23.
Ne I
dimenticati viene registrato, per la prima volta, il rito arcaico della
festa dell'abete (pita) che si svolge ad Alessandria del Carretto. Oggi questo
rituale, divenuto una sagra paesana, è esclusivamente rappresentato per giovanotti e signorine cittadini che vi
arrivano firmati dai loro zainetti a tracolla, scarpette da trekking e occhiali
da sole. All'epoca Alessandria del Carretto era staccata dal contesto sociale,
come lo era Polsi; si raggiungevano questi due posti solo a dorso di mulo e di
questo animale, che conta meno di un asino, si faceva uso per il trasporto di
qualsiasi necessità acquistata fuori.
In
quest'opera, come nella successiva In Calabria, sotto i colori della
Ferrania De Seta lascia parlare i volti delle persone siano essi grandi o
piccoli ma essenzialmente suoni e rumori
carpiti e registrati in diretta: lo scroscio della pioggia con il conseguente
scorrere dell'acqua per le vie del paese; i ferri calzati dai muli con il loro
infrangersi sulle rocce del fiume; le voci, i canti ed i suoni, i colpi di
mortaio, la banda dietro la processione; tutto questo determina un passato
orribilmente cancellato.
La
distanza tra I dimenticati e In Calabria è di trenta anni, “ alle
soglie del terzo millennio “ ricorda la voce fuori campo. I colori Ferrania
sono sostituiti da quelli del reportage televisivo e lo spazio comprende
l'intera Regione, vista come il corpo di un grosso animale da macello appeso, a
testa in giù, ai ganci per essere suddiviso in quarti.
Per
mezzo dei canti della corale greco-albanese di Lungro, a cui si aggiunge la
voce, invecchiata bene, di Riccardo Cucciolla, all'elegia fa eco il pianto per
la perdita del fitto legame tra natura ed esseri umani se non anche dei
rapporti tra gli stessi individui.
La
natura, la terra, la Regione risultano visibilmente sovvertite dal caos creato
per un immaginario progresso mai realizzato. E qui la dicono lunga i rumori
industriali dei mezzi per il movimento terra o dei grossi TIR che sfrecciano
lungo la Salerno-Reggio.
L'unico
viatico è nella feste religiose di grossa rinomanza: quella coreografica di
Polsi, Madonna da muntagna, quella multietnica dei Santi Medici Cosma e Damiano
presso Riace e quella di San Rocco ,una
delle innumerevoli , a Gioiosa Jonica, vissuta dai giovani come una sorta di
Woodstock paesana.
lunedì 14 aprile 2014
Robert Aldrich speaks
1918 - 1983
Sono stato aiuto
regista per dieci anni e ho avuto la
fortuna di lavorare coi più grandi:
Chaplin, Renoir, Milestone, Losey, Cromwell, ecc. Descrivo
figure eroiche. Sono contro l'idea
d'un destino tragico, ogni uomo
deve agire anche se è spezzato. Il
sacrificio volontario è il massimo
dell'integrità morale. Il suicidio
è un gesto di rivolta: bisogna pagare il prezzo della lotta. Mi ripugna
mostrare personaggi spregevoli senza
sfumature; non si tratta tanto di
trovare scuse quanto spiegazioni. Ho un
debole per il linguaggio fiorito,
ma durante le prove mi rendo conto
di quanto può esservi d'eccessivo e cerco d'umanizzare. L'Amore con l' A maiuscola non è stato mai trattato nei miei film. È alla base della vita, dell'uomo, ma l' attaccamento che questi può avere per un modo di vivere, o per una causa, può essere più duraturo
dell'attaccamento per una donna.
domenica 13 aprile 2014
Il cinema all'aperto a Messina e dintorni
Le chiamavano Arene
L'Arena Trinacria in via Ettore Lombardo Pellegrino e ...
un'Arena del periodo Littorio non identificata a Villafranca Tirrena (ME) foto Luigi Mittiga.
giovedì 10 aprile 2014
Urbanistica e cinema
La città italiana
Gli italiani hanno un incontestabile vantaggio: la città italiana, che
sia natica o moderna, è prodigiosamente fotogenica. Dai tempi dell’antichità l’urbanistica
italiana non ha smesso di essere teatrale e decorativa. La vita urbana è uno
spettacolo, una commedia dell’arte che gli italiani danno a se stessi. E anche
nei quartieri più miserabili quella specie di aggregazione corallica delle case
consente, grazie alle terrazze e ai balconi, delle grandi possibilità
spettacolari. Il cortile è un palcoscenico elisabettiano in cui lo spettacolo
si vede dal basso, in cui sono gli spettatori dei palchi a recitare la
commedia. E’ stato presentato a Venezia
un documentario poetico costituito esclusivamente da un montaggio di riprese di
cortile. Che dire allora quando le facciate teatrali dei palazzi combinano i
loro effetti d’opera con l’architettura da commedia delle case povere? Si
aggiunga a tutto questo il sole e l’assenza di nuvole ( nemico n. 1 degli
esterni )e si avrà la spiegazione della superiorità del cinema italiano per
quanto riguarda gli esterni urbani.
Il cinema italiano secondo André Bazin,
op. cit.
mercoledì 9 aprile 2014
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