Finalmente una nota positiva nello stanco panorama
cinematografico e culturale messinese: il 1978 segna la ripresa di attività del
circolo di cultura cinematografica «Umberto Barbaro». Nonostante ii circolo,
intitolato al grande teorico (siciliano e marxista) del linguaggio
cinematografico, non abbia funzionato per alcuni anni, in tutti gli ex-soci era
sempre rimasta la speranza di rivederlo. Il «Barbaro» si eri infatti subito
messo in evidenza per le sue rigorose e puntuali scelte
politiche ed artistiche, che avevano fatto sì che in una stagione si mancò di
poco la cifra clamorosa di tremila soci. Purtroppo dopo quella eccezionale
stagione, non si e saputo ripetere lo stesso successo, anzi è seguito un
pauroso declino.
Ma c'è stato anche il coraggio di analizzare decisamente le ragioni
del fallimento e trarne le dovute conseguenze. Ecco che quindi il circolo si
presenta con un gruppo responsabile completamente rinnovato e deciso a non
farsi scoraggiare da ostacoli di sorta. Una delle maggiori difficoltà del «Barbaro»
e stata quella di non poter disporre di una sede propria, ma l'ostacolo
quest'anno è stato aggirato. Le sale del centro ormai si sono trasformate tutte
in prime visioni e chiedono cifre esorbitanti per l`affitto (anche se nei
giorni feriali godono di poche decine di spettatori), quindi la scelta è dovuta
cadere su una sala periferica, nella convinzione che la maturità dei cittadini
saprà comprenderne la necessità. E' anzi questo uno degli aspetti più interessanti
del sesto anno di attività dell'«Umberto Barbaro», avere il coraggio di
programmare il ciclo al cinema «Orientale» di Camaro Inferiore. Per altro
dobbiamo dire che la sala, come struttura e collocazione, e più che dignitosa e
di conseguenza debbono essere superati molti luoghi comuni. Non e giusto
sfruttare solo le strutture esistenti nel centro urbano, emarginando con sdegno
quelle periferiche (oltre tutto la zona di Camaro ormai è perfettamente
inserita nel nucleo urbano). E' un discorso che si ricollega a quello più vasto
della riappropriazione degli «spazi» culturali, che abbiamo fatto già altre
volte e che molti, a parole, condividono. Ecco un'occasione per dimostrare
fattivamente la propria volontà concreta: è una sfida a certa mentalità che
deve essere vinta.
Passiamo ad un esame del programma. Si inizia il 18 gennaio
col primo di quattro film dedicati alla lotta che il Cile sta conducendo per la
propria liberazione. Si vuole sottolineare come sia sbagliato l’atteggiamento
di molti di occuparsi intensamente per un certo periodo di un problema e poi
lasciarlo perdere, completamente irrisolto. La vicenda del Cile è un esempio
classico: dopo anni di slogan, Inti
Illimani, ecc., adesso quasi non se ne parla più mentre i Cileni continuano
a languire in piena dittatura. E' opportuno quindi proporre i film di Miguel
Littin, grande regista cileno in esilio, di cui alcuni avranno già visto la «Tierra prometida», mentre l'ottimo «Actas de Marusia›› (col nostro Gian
Maria Volontè) ed «El chacal de Nahueltoro››
sono in prima visione. Conclude il ciclo sul Cile un formidabile documentario
sulla repressione in quel paese girato da Tedeschi dell’Est.
Qualcosa di più di un documentario d’autore. Il
rapporto uomo natura che attraversa le relazioni affettive ratificate dal noise
di una efficace presa diretta fino a renderla un ulteriore corpo emotivo.
In uno dei suoi abbottonatissimi interventi Sergéj
Geràsimov, gran cencertatore del cinema sovietico, esprimeva le perplessità
ufficiali di fronte a questa estrema “insolenza"'di Shukshin che osava
insinuare che nell'Unione sovietica possono anche non riuscire gIi sforzi tesi
a ‘redimere’ un ladro recidivo: “Quale motivo c'è di collocare al centro di un
film cosi ricco di talento il destino di un criminale, di un delinquente? Come
ha quest’uomo il diritto di entrare nella coscienza e nel cuore degli
spettatori, di conquistare la loro attenzione e attraverso di essa anche la
loro simpatia? » [Nicole Zand, Le message ambigu de Vassili Choukchine, in Le monde, 2.5.1974].
E‘ destino (e remora) di ogni agiografia di squadernane
modelli edificanti in tutto e per tutto politi, tirati a lucido da ogni
imperfezione. La pia fraus può essere
giustificata con motivazioni “edificatorie” nelle società strette e giovani,
come un soprassalto di devozione. Ma i suoi modem sono implausibili fuori di
essa. E anche dentro di essa, appena passa il memento delle emergenze parenetiche
e quando il tempo abbia fatto giustizia delle amplificazioni acclamatorie.
L'implausibilità ha piedi d’argilla e contraddice I’estetico.
E’ appena una forma edulcorata di menzogna. E la menzogna può anche esser necessaria
in certi casi; ma se diventa regola finisce con lo smentire se stessa. Ecco che
Ia mistificazione zdanoviana del realismo ritorna petulante nei dubbi
‘ortodossi’di Geràsimov, col quel tacito richiamo alla tendenziosità delI'arte, la quale
dovrebbe essere coedificativa nella realizzazione piena della società
socialista. Ma il deontologismo unidirezionale e assordato dell'estetica
ufficiale viene esorcizzato da Shukshin anche in Kalina krasnaja, che é stato definito il suo film-testamento.
II precetto di Vissérion Grigierévic Belinskij, per il quale
Ia funzione poetica sta non già neIl'esornare la realtà ma nel coglierla cosi
com’é, resta uno dei capisaldi della poesia di Shukshin. E qui anzi si vena di
un patetismo che chiameremmo ambiguo se si ignorasse che Shukshin respira, in
questo film, la morte: ma come nascita al definitivo.
L'accorata malinconia non é qui fine a se stessa ma
vestibolo per quell'appello alla coscienza individuale che é costante
ossessione di Shukshin, indice di autentica umanità,in Kalina krasnaia la ripulsa ad un facile happy-end consolatorio va oltre il rifiuto dell'aggiustamento confortatorio
e filisteo. Presentando il suo film, Vasilij Makàrovic ha detto espressamente
di diffidare di ogni happy-end ‘da
copione’.
Che é inevitabile - e non parliamo qui della domanda della
platea - quando I'autore condolendosi con tutta l'anima per il suo eroe caduto
in disgrazia, << cerca compassionevolmente di buttargli un salvagente ».
La storia di Viburno rosso aveva
effettivamente in sé l'insidia delle paternali moralizzati. Shukshin libera lo
spettatore da questa impostura dandosi da fare per “distruggere il testo »,
traguardando a problemati che più ampie, raccontando cioè “non del destino infelice di un recidivo, ma
di un'anima, di come essa cerca il suo posto nella vita, si tormenta... »
Una tormentosa inquietudine é infatti il filo che lega tutti
i protagonisti noti della narrativa iconica di Shukshin. Dal Paska scapato e
vagabondo che in Zivét takoj paren’
cerca la sua identità, allo Stepan nostalgico e naif di Vas syn i brat, dall'affranto e smarrito Matvéej Ivénovic di Strannye Iiudj aIl'Egor Prokudin di Kalina krasnaia, che cerca I’ ubi consistam dopo i < disaccordi con
la coscienza ».,corre il filo sottile di questo inquieto scontento, della pena di
uno straniamento che sbocca nella nostalgia di una sede serena - la coscienza?
—, di un ordine interiore con un suo ancoraggio etico: qualcosa che I’organizzazione
sociale non garantisce, e che in Viburno
rosso é indicato esplicitamente nella capacità di amare {la paziente
indulgenza di Ljuba Bajkalova].
Una indicazione, questa, tenera e accorata, come il saldo
sentimento che già nella- vita legava Shukshin all'attrice che nel film
interpreta Ljuba. Giò che scioglie i grumi dell’anima di Egor - icasticamente suggeriti dalle sequenze che
mostrano Egor far esplodere il suo vitalismo nella ricerca di divertimenti, di
distrazioni. di donne; e poi nello stesso bagno nella sauna, che indicizza il
bisogno di una corroborante purificazione fisica, di una liberazione dalle
tossine di una vita “in disaccordo con la coscienza” – è l’incontro, prima
diffidente e poi ricco di abbandoni, con la donna, che già conosce gli smarrimenti
della solitudine.
E’ lei che ridesta in Egor < qualcosa di profondo, di
dimenticato »: é la memoria dell'infanzia trascorsa sulla “buona terra", e
di tutto quel che di buono e di sano vi era stato allora instillato per sempre:
e che l'esperienza della malavita aveva solo ottenebrato.
Questo é il tema del film, anzi e il nodo di tutti i
problemi di Egor: “Com'é possibile — si chiede Shukshin — che in una vita
vissuta ad alta velocità, segnata dalla potenza delle macchine, dilatata da
straordinarie scoperte, assillata da mille superproblemi, com'è possibile
trovare uno spazio per l'anima? ». Com’é, insomma, possibile trovare — per
dirla con Saba – “la bontà non morta / la dolcezza di un caldo angolo »?
Egor è l'ultima campionatura della commedia umana di Shukshin,
nella quale una gente cerca se stessa dopo un ennesimo “disaccordo con la
coscienza”. Qui Shukshin segue questa ricerca con partecipazione assoluta, e
non solo perché, come in questo caso, è lui stesso l’interprete di questa
esplorazione. Narratore sincronico, Shukshin ha scelto ancora la misura breve
del racconto per approfondire i motivi che gli stanno a cuore, quelli che il
suo Erlebnis fa mulinare dentro, e spasimano di uscire, di trovare comunicazione.
Neanche qui Shukshin é eziologico. Neanche qui dice il come
e il perché e il quando del “disaccordo
con la coscienza”. Ne registra la effettualità, e ne studia I rimedi. Pone
ancora una volta in dubbio l’efficacia in
quantum delle strutture sociali e si appella a un tipo di moralità individuale,
scontrosa anche — e qui I'accusa di egotismo può appigliarsi ben facile —, che
é sempre invariabilmente tesa dal desiderio/dolore di un ritorno -è questo il
senso pregnante della nostalgia -
verso valori conosciuti, indettati un tempo e smarriti nel corso di un peregrinare deviante.
Ma Shukshin non mette a carico della società — che é la
società in cui crede - questo sbandamento,anzi. Afferma e riafferma con forza
estrema l'obbligo della responsabilità personale che è appunto, un frammento
necessario della corresponsabilità universale. Vasilij Makerovic é stato
esplicito, nel presentare il film, circa la responsabilità del|'uomo di fronte
alla terra che l'ha allevato. “Per tutto quanto succede oggi sulla terra
dovremmo rispondere, noi tutti che viviamo. Per il bene e per il male. Per le
menzogne, per la mancanza di coscienza, per il nostro viver da parassiti, per
il conformismo. per la viltà e il tradimento, per tutto bisognerà pagare.
Pagare fino alI'estremo. Anche di questo parla Viburno rosso“.
L'insidia del mélo [nell'Ottocento, da noi, se ne sarebbe
fatta un'opera lirica] e l'inciampo della declamazione è normale per chi si ponga
a trattar di questi temi con tutta la forza della propria convinzione che già
chiamavamo esiodea. Shukshin evita queste
trappole anche qui con un dettato scarno ed aspro — la tensione del
volto di Shukshin interprete è l’architrave del film — che non perde però in
freschezza e perspicuità nelle notazioni psicologiche e nelle modulazioni coreutiche
tipiche dei suoi film. Le quali, qui, toccano il diapason, per esempio nella
quieta discussione che vede Egor, Ljuba e il vecchio padre di lei nell'isba,
accanto alla solenne stufa in maiolica, ad esaminare pacatamente,
puntigliosamente, le "destinazioni" possibili per Egor.
Li, intendi, l’anima collettiva della gente dei campi
soccorre con sapienziale accoramento allo smarrimento di un uomo che cerca il
suo destino. E quest'anima collettiva non gli oppone convenzioni o divieti: ma
con fermezza e pazienza gli presenta, come misura di sanità autentica, il
proprio modello esistenziale.
Accettare la iustissima
telus, per chi abbia “provato" la città, non é un semplice subire, non
é un accomodamento o un ripiego: è un'azione attiva, un trionfo positivo. E lo
é tanto che la malavita non
può graziare questo ‘tradimento’. Ed e nel momento in cui
Egor paga “fino all’estremo” il fio della sua mancata identificazione coi “Iati
negativi del progresso" ch'egli si riprende integralmente la sua
dimensione d'uomo [Cfr. C. Benedetti, E’
morto Vassili Shukshin in “Unità, 4.10.1974] “Si, é verbo - diceva Shukshin
-,è bello parlare di progresso, ma il progresso ha anche un Iato negativo. -Ed
è appunto questo quello che io voglio far capire con miei racconti e con i miei
film: la gente di campagna non si deve scoraggiare dinanzi all’avvento della
“tecnica”, deve far ricorso, proprio per non affogare, alla propria coscienza,
alla forza del cuore; deve risolvere i problemi legati al progresso con la
coscienza. Ma, purtroppo, io.,da contadino come sono, vedo che la gente comincia
a credere in certi valori che non sono valori. E questo é tragico. Ecco, io vorrei contribuire, a far si che la gente
di campagna resti vera e viva cosi come lo é il personaggio di Viburno rosso, il quale torna ad essere uomo
proprio mentre cade colpito dalla vendetta della banda che aveva rinnegato ».
SulIa scena
compare un uomo. Ha larghe spalle e il viso -arso dal vento.
Dice:
"0ra il coro canterà una canzone che ci farà pensare: ‘II suono della sera”!
Dalle quinte
cominciano ad uscire sul palcoscenico i componenti del coro. Si dividono e si
raggruppano in due sezioni, una dietro l'altra, a formare un piccolo e un
grande gruppo. Sono ben lontani dall'avere l’aspetto di" coristi ...»
Così, in medo
un pò singolare e insolito, comincia il racconto di Shukshin “Il Viburno rosso “.
II
protagonista é Egor Prokudin, ladro recidivo. E’ uno dei coristi. II tempo
della sua reclusione é scontato, ora é libero. Così, sulla porta di un campo di
rieducazione, comincia la conoscenza di questo malfattore, un uomo
straordinariamente interessante, a suo modo eccezionale.
A seguirlo
subito dopo la sua liberazione. Egor Prokudin non sembra voglia farla finita
con la sua professione . Dall'altro canto, ora che è fuori, egli non può concedersi il lusso di filosofare, “essere o non essere",
“rubare non rubare”. Bisogna risolvere
problemi più semplici e concreti:"dove trovare un
tetto, dove
sistemarsi almeno per i primi tempi.
I vecchi
amici di Egor non Io possono ospitare; loro stessi sono braccati dalla polizia.
Ma Egor non
si perde d’animo. In tasca ha ancora un indirizzo. Prima, quand'era recluso, ha
tenuto corrispondenza con una giovane donna separata dal marito, Ljuba.Lei
abita in un villaggio, e anche se non ha -mai vista Egor, l’ha invitato a casa
sua. “Vieni da me, al nostro villaggio, gli scriveva Ljuba; Egor ha
deciso di
andarci. Non ha piani né programmi a lunga scadenza. Pensa di trovarvi un
temporaneo rifugio e basta. -Ma le cose vanno in un altro modo, serio e
inaspettato. L’incontro con Ljuba, l’incontro con la gente del villaggio (lui
stesso é nato in campagna) muta la sua vita e i suo-i piani. Egor decide di
farla finita per sempre con la sua vecchia professione e di cominciare una vita
nuova, come si dice. lavora nel koIchoz come trattorista. Due mesi dopo, ai
margini di un bosco di betulle, vicino al campo che ha appena finito
di arare Egor
viene colpito a morte da una pallottola. l suoi ex amici non gli hanno
perdonato iI tradimento.
In mezzo ai doppiatori di oggi Emilio Cigoli rischia la brutta figura, egli così umano, quelli puzzosi di actor studio. Il frammento è preso da un gradevole film di Mario Camerini, Una storia d'amore (1942) che ha il pregio di farci scoprire Piero Lulli quale giovane protagonista, accanto ad Assia Noris e Carlo Campanini. Il Fascismo aveva le ore contate, Cigoli e Lulli una vita davanti.
I'll leave believing we keep all we lose and love.
Volendo non essere dei soli fruitori/mangiatori di cinema si scoprono sempre nella polvere del web opere che lasciano il segno. Verso Winter in the Blood (2013) sono arrivato da Certain Women (2016) di Kelly Reichardt, inseguendo la filmografia di Lily Gladstone of Blackfeet and Nez Perce heritage.
Con Winter in the Blood vengono alla luce un narratore, James Welch (1940-2003), un poeta, Richard Hugo (1923-1982), sua è la citazione d'apertura catturata dal film, e un band, gli Heartless Bastards, che sfora dal garage al roots rock. Vi è incluso anche Robert Plant, singing Toussaint McCall's Nothing Takes the Place of You.
I am not alone. The magpies, they gossip. The deer come in the evenings to drink. When they whistle, I whistle back. They are not happy. They know that the world is cockeyed. Saginaw Morgan Grant
Negli ultimi anni il nome di Bresson è diventato una
semplice parola, un’entità, una sorta di manifesto cinematografico del rigore
poetico. Bressoniano significava per me e per i miei amici l’estrema, morale, irraggiungibile,
sublime, punitiva tensione cinematografica. Punitiva perché i suoi film sono
forti esperienze sensuali senza sollievo (a parte il sollievo estetico, che è
di per un piacere devastante).
Un giorno ho saputo che Bresson era a Roma per un incontro
al CSC. Sono corso, e sono arrivato nel bel mezzo della lezione. In piedi
dietro un muro di studenti, riuscivo a vedere solo l’immacolata corona bianca
della testa che si muoveva lentamente. Non ha mai usato la parola “cinema” ma
“le cinématographe”. Tutto il resto era “theatre filme“. Quando ho potuto
vederlo in faccia, forse solo per tre secondi, mi ha fatto pensare a un
coniglio ipnotico. Le mie gambe tremavano di ammirazione. Era il 1964 o il
1965? Quel pomeriggio Mauro Bolognini mi invitò a una cena in onore di Robert
Bresson, che era a Roma da alcune settimane per preparare un episodio della Bibbia, un film prodotto da Dino De
Laurentiis con vari registi.
Bresson aveva scelto L’arca
di Noè. Prima di essere presentato, Bolognini mi disse che Bresson era
piuttosto di cattivo umore, e mi spiegò perché. Quella mattina, mentre Bresson
faceva la sua lezione, Dino De Laurentiis era andato in teatro di posa e aveva
visto grandi gabbie con dentro coppie di animali selvaggi: due leoni, maschio e
femmina, due giraffe, maschio e femmina, due ippopotami, maschio e femmina,
ecc. Qualche ora dopo, Dino disse a Bresson di sentirsi eccitato all’idea di
essere l’unico produttore al mondo capace di far scendere in terra l`eccelso
Maestro, producendo un film con autentici valori produttivi e commerciali … «On
ne verra que leur traces sur le sable» (si vedranno solo le loro impronte sulla
sabbia), bisbigliò Bresson a Dino. Un’ora dopo veniva licenziato.
Eccomi, di fronte a Bresson. È l'inizio dell'estate e stiamo
su una terrazza in via San Teodoro. Dietro di lui lo sfondo dei colli palatini,
pezzi di bianche rovine nel buio. Devo aver borbottato qualcosa come «prima di
mettere una bomba nel teatro di posa di De Laurentiis... posso chiederle se … forse c’è qualcuno... nella storia di... “le
cinematographe”... che le piace di più... c’è un film che preferisce... o più
di uno...?›.
Guardò altrove, “no”. Poi, con straordinario spirito di
precisione, si corresse.
«Forse, qualche inquadratura di Chaplin. Ma quando non è in
scena». Gli dissi che adoravo Les dames
du Bois de Boulogne. Non aveva ancora realizzato Au hasard Balthazar, Mouchette,
Une femme douce, Quatre nuits dun rêveur, Lancelot
du lac, Le diable probablement, L’argent. Scrivendo questo testo adesso,
Bresson è d'improvviso nuovamente il nome di una persona. Francese. O taoista?
Testo apparso in James Quandt (a cura di), Robert Bresson, Cinémathéque Ontario,
Toronto, 1998.
La guerra dei mondi (The War of the Worlds) di Byron Haskin e George Pal è un film che dal 1953 che conserva intatta la sua genuinità. In apertura per la versione italiana la voce narrante di Vittorio Cramer introduce lo spettatore con voce suasiva all'invasione della terra da parte dei marziani.
Oggi li chiamano poster ma quando il cinema era bambino erano I CARTELLONI. Tra quelli che definirono l'arte di raffigurare un film in immagini pubblicitarie c'è stato anche Franco Fiorenzi (1912-1992), la cui abilità consisteva nel sintetizzare per mezzo del collage fotografico un'opera cinematografica, sia essa d'autore o di artista mercenario.
La novellistica fusa e fluente dei primi due film si
scompone, nel terzo, in capitoletti autonomi tenuti assieme da un piú intenso
rap- porto di appartenenza dei protagonisti alla natura e da una loro qualificazione inequivoca al ruolo di stravaganti E’,anzi,
forte la tentazione di parlare di Strannye
ljudi come di un tentativo di confermare l'apoftemma prustiano per il quale siam tutti costretti,
proprio per render sopportabile la realtà, a tener desta in noi qualche piccola
follia.
Il film è un trittico esplicito. Il primo episodio è Fratello mio. Paška abita e lavora in un villaggio. Un giorno se ne
parte per la città, Yalta, per far visita al fratello. Si ritrovano dopo,molto
tempo. Ciascuno racconta cosa, intanto, gli è capitato. Il maggiore ha divorziato,
e pensa di risposarsi. Ne parla a Paška, presentandogli le « varianti» tra cui
può scegliere.
Si recano
insieme in casa d'una di queste possibili fidanzate. Paška parla con entusiasmo
alla bambina, che è la figlia di questa vedova, della campagna. E Ie racconta
la fiaba dei fiori e del cuculo.
Paška,
quindi, visita la città. Ma dopo un sol giorno decide di tornare a casa.
Per non far
sfigurare il fratello, racconta di non esserci mai stato e di aver perso i
solidi. Deve giustificarsi cosí davanti alla fidanzata che glieli aveva procurati. Si conferma cosi nel ruolo
di « svitato ››.
Secondo episodio: Colpo
fatale. Bronka, un vecchio contadino, viene ammonito per il suo
comportamento bizzarro dal presidente del soviet. Vengono intanto da lui, dalla
città, dei cacciatori per invitarlo ad una battuta. Dopo un battibecco con la
moglie che gli chiede dei soldi, Bronka si avvia. Durante una sosta, Bronka
chiede ai suoi giovani compagni se si ricordino degli attentati a Hitler.
Racconta poi di essere stato lui stesso l’autore di uno degli attentati. Era il
22 giugno 1943: alla sua audacia e ad una Browning con i proiettili avvelenati
sarebbe toccato di vendicare la patria e di liberare il mondo da Hitler. Bronka
rievoca come gli capito di fallire.
Il terzo episodio, Meditazioni,
è dedicato a Matvèj lvànovic, responsabile
amministrativo del suo villaggio. L'episodio descrive le riflessioni e i
tormentati sogni di questo vecchio che ha dedicato tutta la vita al lavoro e
che non riesce a seguire i ritmi del cambiamento. Dice degli scontri e delle
incomprensioni con la gente che lo circonda e soprattutto con la nu-ova
generazione: il giovane appassionato di musica che gli impedisce iI sonno
suonando la fisarmonica la notte e che gli ricorda con le sue canzoni la morte
del fratello minore: il giovane scultore che dedica tutto il suo tempo a
intagliare statue di legno; la stessa sua figlia, che non riesce ad entrare
all'università e che però rifiuta un lavoro
quaIsiasi . La figlia lo obbliga anzi ad un incontro-scontro con la
moglie che gli confessa finalmente di averlo sposato non già per dovere --
com'egli aveva creduto ma per amore. Matvèj difende le sue convinzioni anche
attraverso un sogno. Epperò alla fine, nel corso di un ultimo incontro con lo
scultore, ne approva le scelte, confermando senso e valore al «nuovo ».
La bizzarrie, in un qualsiasi corpo sociale, può diventare una sorta di
necessario anti-corpo contro le monotonie e le passività grame nel vivere.
Salutare presenza, quella degli strambi, ci dice šukšin. E' di fronte alle loro
“ammonizioni' che vengono meno le sicurezze dei savi, cioè le baldanze abituali
di tutti. Quel loro mettere 'in dubbio le convenzioni della vita sociale ed
affettiva, quel loro scrollare dalle fondamenta le abitudini e i sistemi di
classificazione sussunti col latte “materno” sono una sfida a quella “logica' che ci assicura le quietudini e le sazietà d'ogni giorno.
Gli “strambi” nei film di šukšin stanno naturalmente in campagna. La
loro bizzarria tè il correlativo dell'instintività campagnola di front alle
quadrate logiche che si nutrono in città e che ne costituiscono il malioso
fascino. La trilogia che qui ne esce è di una freschezza sbarazzina e
melanconica insieme, che fa crescere un film teso, e polito, modulato con
accortezza sui registri di una rustica -e il termi-ne è tutt'altro che restrittivo
- comédie humaine.
La bizzarria ha le sue varianti, naturalmente. E šukšin ne illustra
tre.
La prima è la variante patetica. La novelletta del giovane Paška che se
ne viene in città a trovare il fratello che non vede da tempo e che trova tanto
cambiato da non reggere l'urto di quella diversità - e a quest'urto un altro se
ne aggiunge, quello di una città austera e incomprensibile - è l'ennesima va-riazione del motivo, caro a
šukšin, della inconciliabilità dei due mondi, ovvero della confusione che la
città mette in chi l'avvicina con devota confidenza in lei.
Paška denuncia una delle situazioni dell'Erlebnis di šulkšin quando dirige
il film: « Non sono riuscito a capire bene -cosí si confessava con Benedetti
[int. cit.] che cosa deve trovare un uomo di campagna nella sua vita nuova.
Voglio, questo è certo, che riesca a trovare qualcosa di vero, di non
artificiale di solido. Qualcosa di campagnolo ».
Paška non riesce a trovar quel "qualcosa di noto" che egli
viene incosciamente cercando in città. Il suo vagabondare per le strade,
l’inattesa distonia con il fratello lo mettono in iscacco, lo risolvono ad accettare
la sua resa, senza ammetterla di fronte agli altri.- La menzogna con la quale
si pr-esenta ai suoi e alla fidanzata è appunto un modo diverso di dire la verità,
di riconoscere la propria erranza e di rientrare nel proprio personaggio. Se
viene creduto è anche perché quel suo mentire è necessario agli altri, perché
gli sia restituito il suo ruolo di specchio necessario; a se stesso per chiudere
la parentesi dalla sua ricercata esenzione dalla funzione che è sua: riscontro
della “normalità".
Un'altra variante della bizzarria dà vita al secondo capitoletto del
film di šukšin. [Ed le un delizioso entr'acte
di una specie di rustico teatro dell'assurdo. L'affabulazione di Bronka e
del suo immaginario attentato a Hitler è uno straordinario “crescendo” musicale
di invasamenti, di commozioni, di esaltazioni, di sbalordimenti, di sgomenti,
talmente ben modulati da rendere assolutamente credibile l'assolo del vecchio
contadino dinanzi agli sbalorditi compagni; ospiti venuti dalla città. La loro
confusione è mediata, metaforicamente,
dallo spento ruminare delle vacche che ficcan gli occhi nell’impossibile occhio
della camera, quasi a dire il potere
di suggestione che docilmente viene recepito attraverso le meccaniche dei mass-media. Bronka conosce la via di altre suggestioni. È vero. Ma
non a caso esplode con il suo assolo dopo che ha litigato con la moglie capziosa,
che lo molesta con una questione rasoterra, i soldi per tirare la giornata.
Di fronte alle esazioni del quotidiano Bronka ha bisogno di un colpo
d'ala. Di quel suo solito colpo d'ala che lo tragga fuori come una droga
che-assicura immantinente un trip nel mare dell'immaginario ove dolce e il
naufragio da una realtà meschina e grama
e che trasfiguri la sua realtà di emarginato, ma rispettato e invocato,
nell'aura di un epos eroico a sua misura, in fondo l'eroismo non è forse solo
uno dei tanti modi di rivelarsi goffi e bizzarri? E allora?
Un terzo momento della bizzarria può essere la scontrosità.
L'irritabile stanchezza di Matvij lvànovic è il frutto di una sollecitudine spesa
senza misura per gli altri, giorno per giorno, in una responsabilità che
logora. Se oggi ha in uggia il presente è perché è tutto preso dalla memoria
del futuro. II futuro apre enormi spazi di invenzione sulle monotonie che il
presente misura con pedante pigrizia. La morte diventa un pensiero dominante e
la curiosità dopo è cosi viva che a Matvèj lvanovic riesce facile di inventarsi
un fantastico funerale. E con la morte la memoria dell’amore che torna, altro
termine della bilancia, attraverso la candida figura del'l'amore giovanile che
sguscia ed erompe attraverso la scorza delle incomprensioni presenti.
E quando il vecchio avverte che l'amore -- quello che rammemora,
perduto, e quello, solo ora rivelato, della moglie - è il vero futuro, quello
che è entrato in lui per trasformarsi in dinamica di dedicazione, molto prima
di essere "accaduto", allora solamente rientra dal suo straniamento e
accetta il presente "mutuato" attraverso il sofferto confronto con lo
scultore nelle cui mani il legno già vivo rivive per una seconda creazione, non
indegna della prima.
La vita è una tenace recidiva. E Matvèj lvanovíc quando ancora per una
volta riconosce nella remissività degli altri, a lui d'intorno, l'ostinazione
di questa legge che ha I'età dei suoi anni.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto
1976
Di questo film, e di tutta la filmografia, di un celebratissimo regista, vanno salvati il formato in 4:3 e questa disprezzata cover, It's A Dream, di Neil Young per voce di Nathalia Acevedo, per altro alla maniera di Patti Smith.
In the morning when I wake up and listen to the sound Of the birds outside on the roof I try to ignore what the paper says And I try not to read all the news And I'll hold you if you had a bad dream And I hope it never comes true 'Cause you and I been through so many things together And the sun starts climbing the roof
It's a dream Only a dream And it's fading now Fading away It's only a dream Just a memory without anywhere to stay
The Red River stills flows through my home town Rollin' and tumblin' on its way Swirling around the old bridge pylons Where a boy fishes the morning away His bicycle leans on an oak tree While the cars rumble over his head An aeroplane leaves a trail in an empty blue sky And the young birds call out to be fed
It's a dream Only a dream And it's fading now Fading away It's only a dream Just a memory without anywhere to stay
An old man walks along on the sidewalk Sunglasses and an old Stetson hat The four winds blow the back of his overcoat away As he stops with the policeman to chat And a train rolls out of the station That was really somethin' in its day Picking up speed on the straight prairie rails As it carries the passengers away
It's gone Only a dream And it's fading now Fading away Only a dream Just a memory without anywhere to stay
It's a dream Only a dream And it's fading now Fading away It's only a dream Just a memory without anywhere to stay
It's a dream Only a dream And it's fading now Fading away
Se dovessi raccontare la genesi della storia di « Umberto D. ›› dovrei
risalire al 1948. La prima idea fu quella di un povero vecchio che aveva sì un cane, ma sopratutto una
figlia, per amore della quale pensava persino al delitto. Poi la figlia scomparve, restarono il vecchio e il
cane e venne alla luce la padrona di casa.
Se la memoria non m'inganna, la figura della padrona di casa trovò il
suo spunto in un fatto che commosso che commosse tutta l’Italia; per non
incorrere in querele, dirò soltanto che
si trattò di una padrona di casa così spietata da costringere al suicidio il
suo inquilino. Ancora dalla vita, ho preso il motivo per la giovane donna di
servizio: quando da Milano mi trasferii a Roma nel 1940 abitai una camera
d’affitto e conobbi questa donna di servizio che telefonava di notte alle
caserme di Roma intrecciando rapporti con carabinieri, genieri, cavalleggeri, e
che so io. Era buona, candida e leggermente stupida.
Chi volesse sapere la ragione del titolo, eccola qui.
Il titolo nacque senza ragione. Era un titolo, e mi piaceva moltissimo,
poi cercai di giustificarlo: il mio personaggio chiamava Umberto Domenico
Ferrari, ma per modestia si accontentava di firmare Umberto D. Ferrari.
Ora sapete anche i segreti. Vedrete come l’arte di Vittorio
De Sica, che mostra qui più che
mai le sue radici umane, abbia dato a questi personaggi il
sigillo di una verità che supera di gran lunga la cronaca.
Cesare Zavattini
IL
NOTIZIARIO DI MESSINA E DELLA CALABRIA, Domenica 23 dicembre 1951