mercoledì 24 maggio 2017

Il "Barbaro", il Cile e l'"Orientale" a Camaro


Torna il Circolo del cinema « U. Barbaro »
Spazi culturali nuovi

Finalmente una nota positiva nello stanco panorama cinematografico e culturale messinese: il 1978 segna la ripresa di attività del circolo di cultura cinematografica «Umberto Barbaro». Nonostante ii circolo, intitolato al grande teorico (siciliano e marxista) del linguaggio cinematografico, non abbia funzionato per alcuni anni, in tutti gli ex-soci era sempre rimasta la speranza di rivederlo. Il «Barbaro» si eri infatti subito
messo in evidenza per le sue rigorose e puntuali scelte politiche ed artistiche, che avevano fatto sì che in una stagione si mancò di poco la cifra clamorosa di tremila soci. Purtroppo dopo quella eccezionale stagione, non si e saputo ripetere lo stesso successo, anzi è seguito un pauroso declino.
Ma c'è stato anche il coraggio di analizzare decisamente le ragioni del fallimento e trarne le dovute conseguenze. Ecco che quindi il circolo si presenta con un gruppo responsabile completamente rinnovato e deciso a non farsi scoraggiare da ostacoli di sorta. Una delle maggiori difficoltà del «Barbaro» e stata quella di non poter disporre di una sede propria, ma l'ostacolo quest'anno è stato aggirato. Le sale del centro ormai si sono trasformate tutte in prime visioni e chiedono cifre esorbitanti per l`affitto (anche se nei giorni feriali godono di poche decine di spettatori), quindi la scelta è dovuta cadere su una sala periferica, nella convinzione che la maturità dei cittadini saprà comprenderne la necessità. E' anzi questo uno degli aspetti più interessanti del sesto anno di attività dell'«Umberto Barbaro», avere il coraggio di programmare il ciclo al cinema «Orientale» di Camaro Inferiore. Per altro dobbiamo dire che la sala, come struttura e collocazione, e più che dignitosa e di conseguenza debbono essere superati molti luoghi comuni. Non e giusto sfruttare solo le strutture esistenti nel centro urbano, emarginando con sdegno quelle periferiche (oltre tutto la zona di Camaro ormai è perfettamente inserita nel nucleo urbano). E' un discorso che si ricollega a quello più vasto della riappropriazione degli «spazi» culturali, che abbiamo fatto già altre volte e che molti, a parole, condividono. Ecco un'occasione per dimostrare fattivamente la propria volontà concreta: è una sfida a certa mentalità che deve essere vinta.
Passiamo ad un esame del programma. Si inizia il 18 gennaio col primo di quattro film dedicati alla lotta che il Cile sta conducendo per la propria liberazione. Si vuole sottolineare come sia sbagliato l’atteggiamento di molti di occuparsi intensamente per un certo periodo di un problema e poi lasciarlo perdere, completamente irrisolto. La vicenda del Cile è un esempio classico: dopo anni di slogan, Inti Illimani, ecc., adesso quasi non se ne parla più mentre i Cileni continuano a languire in piena dittatura. E' opportuno quindi proporre i film di Miguel Littin, grande regista cileno in esilio, di cui alcuni avranno già visto la «Tierra prometida», mentre l'ottimo «Actas de Marusia›› (col nostro Gian Maria Volontè) ed «El chacal de Nahueltoro›› sono in prima visione. Conclude il ciclo sul Cile un formidabile documentario sulla repressione in quel paese girato da Tedeschi dell’Est.
IL SOLDO 15 gennaio 1978


lunedì 22 maggio 2017

aLaMaR








Qualcosa di più di un documentario d’autore. Il rapporto uomo natura che attraversa le relazioni affettive ratificate dal noise di una efficace presa diretta fino a renderla un ulteriore corpo emotivo.


domenica 21 maggio 2017

Калина красная



 Viburno rosso

In uno dei suoi abbottonatissimi interventi Sergéj Geràsimov, gran cencertatore del cinema sovietico, esprimeva le perplessità ufficiali di fronte a questa estrema “insolenza"'di Shukshin che osava insinuare che nell'Unione sovietica possono anche non riuscire gIi sforzi tesi a ‘redimere’ un ladro recidivo: “Quale motivo c'è di collocare al centro di un film cosi ricco di talento il destino di un criminale, di un delinquente? Come ha quest’uomo il diritto di entrare nella coscienza e nel cuore degli spettatori, di conquistare la loro attenzione e attraverso di essa anche la loro simpatia? » [Nicole Zand, Le message ambigu de Vassili Choukchine, in Le monde, 2.5.1974].
E‘ destino (e remora) di ogni agiografia di squadernane modelli edificanti in tutto e per tutto politi, tirati a lucido da ogni imperfezione. La pia fraus può essere giustificata con motivazioni “edificatorie” nelle società strette e giovani, come un soprassalto di devozione. Ma i suoi modem sono implausibili fuori di essa. E anche dentro di essa, appena passa il memento delle emergenze parenetiche e quando il tempo abbia fatto giustizia delle amplificazioni acclamatorie.
L'implausibilità ha piedi d’argilla e contraddice I’estetico. E’ appena una forma edulcorata di menzogna. E la menzogna può anche esser necessaria in certi casi; ma se diventa regola finisce con lo smentire se stessa. Ecco che Ia mistificazione zdanoviana del realismo ritorna petulante nei dubbi ‘ortodossi’di Geràsimov, col quel tacito richiamo alla tendenziosità delI'arte, la quale dovrebbe essere coedificativa nella realizzazione piena della società socialista. Ma il deontologismo unidirezionale e assordato dell'estetica ufficiale viene esorcizzato da Shukshin anche in Kalina krasnaja, che é stato definito il suo film-testamento.
II precetto di Vissérion Grigierévic Belinskij, per il quale Ia funzione poetica sta non già neIl'esornare la realtà ma nel coglierla cosi com’é, resta uno dei capisaldi della poesia di Shukshin. E qui anzi si vena di un patetismo che chiameremmo ambiguo se si ignorasse che Shukshin respira, in questo film, la morte: ma come nascita al definitivo.
L'accorata malinconia non é qui fine a se stessa ma vestibolo per quell'appello alla coscienza individuale che é costante ossessione di Shukshin, indice di autentica umanità,in Kalina krasnaia la ripulsa ad un facile happy-end consolatorio va oltre il rifiuto dell'aggiustamento confortatorio e filisteo. Presentando il suo film, Vasilij Makàrovic ha detto espressamente di diffidare di ogni happy-end ‘da copione’.
Che é inevitabile - e non parliamo qui della domanda della platea - quando I'autore condolendosi con tutta l'anima per il suo eroe caduto in disgrazia, << cerca compassionevolmente di buttargli un salvagente ». La storia di Viburno rosso aveva effettivamente in sé l'insidia delle paternali moralizzati. Shukshin libera lo spettatore da questa impostura dandosi da fare per “distruggere il testo », traguardando a problemati che più ampie, raccontando cioè  “non del destino infelice di un recidivo, ma di un'anima, di come essa cerca il suo posto nella vita, si tormenta... »
Una tormentosa inquietudine é infatti il filo che lega tutti i protagonisti noti della narrativa iconica di Shukshin. Dal Paska scapato e vagabondo che in Zivét takoj paren’ cerca la sua identità, allo Stepan nostalgico e naif di Vas syn i brat, dall'affranto e smarrito Matvéej Ivénovic di Strannye Iiudj aIl'Egor Prokudin di Kalina krasnaia, che cerca I’ ubi consistam dopo i < disaccordi con la coscienza ».,corre il filo sottile di questo inquieto scontento, della pena di uno straniamento che sbocca nella nostalgia di una sede serena - la coscienza? —, di un ordine interiore con un suo ancoraggio etico: qualcosa che I’organizzazione sociale non garantisce, e che in Viburno rosso é indicato esplicitamente nella capacità di amare {la paziente indulgenza di Ljuba Bajkalova].
Una indicazione, questa, tenera e accorata, come il saldo sentimento che già nella- vita legava Shukshin all'attrice che nel film interpreta Ljuba. Giò che scioglie i grumi dell’anima di Egor -  icasticamente suggeriti dalle sequenze che mostrano Egor far esplodere il suo vitalismo nella ricerca di divertimenti, di distrazioni. di donne; e poi nello stesso bagno nella sauna, che indicizza il bisogno di una corroborante purificazione fisica, di una liberazione dalle tossine di una vita “in disaccordo con la coscienza” – è l’incontro, prima diffidente e poi ricco di abbandoni, con la donna, che già conosce gli smarrimenti della solitudine.
E’ lei che ridesta in Egor < qualcosa di profondo, di dimenticato »: é la memoria dell'infanzia trascorsa sulla “buona terra", e di tutto quel che di buono e di sano vi era stato allora instillato per sempre: e che l'esperienza della malavita aveva solo ottenebrato.
Questo é il tema del film, anzi e il nodo di tutti i problemi di Egor: “Com'é possibile — si chiede Shukshin — che in una vita vissuta ad alta velocità, segnata dalla potenza delle macchine, dilatata da straordinarie scoperte, assillata da mille superproblemi, com'è possibile trovare uno spazio per l'anima? ». Com’é, insomma, possibile trovare — per dirla con Saba – “la bontà non morta / la dolcezza di un caldo angolo »?
Egor è l'ultima campionatura della commedia umana di Shukshin, nella quale una gente cerca se stessa dopo un ennesimo “disaccordo con la coscienza”. Qui Shukshin segue questa ricerca con partecipazione assoluta, e non solo perché, come in questo caso, è lui stesso l’interprete di questa esplorazione. Narratore sincronico, Shukshin ha scelto ancora la misura breve del racconto per approfondire i motivi che gli stanno a cuore, quelli che il suo Erlebnis fa mulinare dentro, e spasimano di uscire, di trovare comunicazione.
Neanche qui Shukshin é eziologico. Neanche qui dice il come e il perché e il quando del  “disaccordo con la coscienza”. Ne registra la effettualità, e ne studia I rimedi. Pone ancora una volta in dubbio l’efficacia in quantum delle strutture sociali e si appella a un tipo di moralità individuale, scontrosa anche — e qui I'accusa di egotismo può appigliarsi ben facile —, che é sempre invariabilmente tesa dal desiderio/dolore di un ritorno -è questo il senso pregnante della nostalgia - verso valori conosciuti, indettati un tempo e smarriti nel corso di un peregrinare deviante.
Ma Shukshin non mette a carico della società — che é la società in cui crede - questo sbandamento,anzi. Afferma e riafferma con forza estrema l'obbligo della responsabilità personale che è appunto, un frammento necessario della corresponsabilità universale. Vasilij Makerovic é stato esplicito, nel presentare il film, circa la responsabilità del|'uomo di fronte alla terra che l'ha allevato. “Per tutto quanto succede oggi sulla terra dovremmo rispondere, noi tutti che viviamo. Per il bene e per il male. Per le menzogne, per la mancanza di coscienza, per il nostro viver da parassiti, per il conformismo. per la viltà e il tradimento, per tutto bisognerà pagare. Pagare fino alI'estremo. Anche di questo parla Viburno rosso“.
L'insidia del mélo [nell'Ottocento, da noi, se ne sarebbe fatta un'opera lirica] e l'inciampo della declamazione è normale per chi si ponga a trattar di questi temi con tutta la forza della propria convinzione che già chiamavamo esiodea. Shukshin evita queste  trappole anche qui con un dettato scarno ed aspro — la tensione del volto di Shukshin interprete è l’architrave del film — che non perde però in freschezza e perspicuità nelle notazioni psicologiche e nelle modulazioni coreutiche tipiche dei suoi film. Le quali, qui, toccano il diapason, per esempio nella quieta discussione che vede Egor, Ljuba e il vecchio padre di lei nell'isba, accanto alla solenne stufa in maiolica, ad esaminare pacatamente, puntigliosamente, le "destinazioni" possibili per Egor.
Li, intendi, l’anima collettiva della gente dei campi soccorre con sapienziale accoramento allo smarrimento di un uomo che cerca il suo destino. E quest'anima collettiva non gli oppone convenzioni o divieti: ma con fermezza e pazienza gli presenta, come misura di sanità autentica, il proprio modello esistenziale.
Accettare la iustissima telus, per chi abbia “provato" la città, non é un semplice subire, non é un accomodamento o un ripiego: è un'azione attiva, un trionfo positivo. E lo é tanto che la malavita non
può graziare questo ‘tradimento’. Ed e nel momento in cui Egor paga “fino all’estremo” il fio della sua mancata identificazione coi “Iati negativi del progresso" ch'egli si riprende integralmente la sua dimensione d'uomo [Cfr. C. Benedetti, E’ morto Vassili Shukshin in “Unità, 4.10.1974] “Si, é verbo - diceva Shukshin -,è bello parlare di progresso, ma il progresso ha anche un Iato negativo. -Ed è appunto questo quello che io voglio far capire con miei racconti e con i miei film: la gente di campagna non si deve scoraggiare dinanzi all’avvento della “tecnica”, deve far ricorso, proprio per non affogare, alla propria coscienza, alla forza del cuore; deve risolvere i problemi legati al progresso con la coscienza. Ma, purtroppo, io.,da contadino come sono, vedo che la gente comincia a credere in certi valori che non sono valori. E questo é tragico. Ecco, io vorrei contribuire, a far si che la gente di campagna resti vera e viva cosi come lo é il personaggio di Viburno rosso, il quale torna ad essere uomo proprio mentre cade colpito dalla vendetta della banda che aveva rinnegato ».

SulIa scena compare un uomo. Ha larghe spalle e il viso -arso dal vento.
Dice: "0ra il coro canterà una canzone che ci farà pensare: ‘II suono della sera”!
Dalle quinte cominciano ad uscire sul palcoscenico i componenti del coro. Si dividono e si raggruppano in due sezioni, una dietro l'altra, a formare un piccolo e un grande gruppo. Sono ben lontani dall'avere l’aspetto di" coristi ...»
Così, in medo un pò singolare e insolito, comincia il racconto di Shukshin “Il Viburno rosso “.
II protagonista é Egor Prokudin, ladro recidivo. E’ uno dei coristi. II tempo della sua reclusione é scontato, ora é libero. Così, sulla porta di un campo di rieducazione, comincia la conoscenza di questo malfattore, un uomo straordinariamente interessante, a suo modo eccezionale.
A seguirlo subito dopo la sua liberazione. Egor Prokudin non sembra voglia farla finita con la sua professione . Dall'altro canto, ora che è  fuori, egli non può concedersi il lusso di filosofare, “essere o non essere", “rubare  non rubare”. Bisogna risolvere problemi più semplici e concreti:"dove trovare un
tetto, dove sistemarsi almeno per i primi tempi.
I vecchi amici di Egor non Io possono ospitare; loro stessi sono braccati dalla polizia.
Ma Egor non si perde d’animo. In tasca ha ancora un indirizzo. Prima, quand'era recluso, ha tenuto corrispondenza con una giovane donna separata dal marito, Ljuba.Lei abita in un villaggio, e anche se non ha -mai vista Egor, l’ha invitato a casa sua. “Vieni da me, al nostro villaggio, gli scriveva Ljuba; Egor ha
deciso di andarci. Non ha piani né programmi a lunga scadenza. Pensa di trovarvi un temporaneo rifugio e basta. -Ma le cose vanno in un altro modo, serio e inaspettato. L’incontro con Ljuba, l’incontro con la gente del villaggio (lui stesso é nato in campagna) muta la sua vita e i suo-i piani. Egor decide di farla finita per sempre con la sua vecchia professione e di cominciare una vita nuova, come si dice. lavora nel koIchoz come trattorista. Due mesi dopo, ai margini di un bosco di betulle, vicino al campo che ha appena finito
di arare Egor viene colpito a morte da una pallottola. l suoi ex amici non gli hanno perdonato iI tradimento.


giovedì 18 maggio 2017

Una voce per mille volti

Emilio Cigoli
1909 - 1980
In mezzo ai doppiatori di oggi Emilio Cigoli rischia la brutta figura, egli così umano, quelli puzzosi di actor studio. Il frammento è preso da un gradevole film di Mario Camerini, Una storia d'amore (1942) che ha il pregio di farci scoprire Piero Lulli quale giovane protagonista, accanto ad Assia Noris e Carlo Campanini. Il Fascismo aveva le ore contate, Cigoli e Lulli una vita davanti.

mercoledì 17 maggio 2017

Winter in the blood

I'll leave believing we keep all we lose and love.


Volendo non essere dei soli fruitori/mangiatori di cinema si scoprono sempre nella polvere del web opere che lasciano il segno. Verso Winter in the Blood (2013) sono arrivato da Certain Women (2016) di Kelly Reichardt, inseguendo la filmografia di Lily Gladstone of  Blackfeet and Nez Perce heritage.


Con Winter in the Blood vengono alla luce un narratore, James Welch (1940-2003), un poeta, Richard Hugo (1923-1982), sua è la citazione d'apertura catturata dal film, e un band, gli Heartless Bastards, che sfora dal garage al roots rock. Vi è incluso anche  Robert Plant, singing Toussaint McCall's Nothing Takes the Place of You.



I am not alone. 
The magpies, they gossip.
The deer come in the evenings to drink. 
When they whistle, I whistle back.
They are not happy. 
They know that the world is cockeyed.

Saginaw Morgan Grant

lunedì 15 maggio 2017

Sorrow




La tristezza altro non è che una gioia esaurita.

Kelly Reichardt, Wendy and Lucy (2008), Old Joy (2006)

domenica 14 maggio 2017

On ne verra que leur traces sur le sable

Impronte sulla sabbia
Bernardo Bertolucci

Negli ultimi anni il nome di Bresson è diventato una semplice parola, un’entità, una sorta di manifesto cinematografico del rigore poetico. Bressoniano significava per me e per i miei amici l’estrema, morale, irraggiungibile, sublime, punitiva tensione cinematografica. Punitiva perché i suoi film sono forti esperienze sensuali senza sollievo (a parte il sollievo estetico, che è di per un piacere devastante).
Un giorno ho saputo che Bresson era a Roma per un incontro al CSC. Sono corso, e sono arrivato nel bel mezzo della lezione. In piedi dietro un muro di studenti, riuscivo a vedere solo l’immacolata corona bianca della testa che si muoveva lentamente. Non ha mai usato la parola “cinema” ma “le cinématographe”. Tutto il resto era “theatre filme“. Quando ho potuto vederlo in faccia, forse solo per tre secondi, mi ha fatto pensare a un coniglio ipnotico. Le mie gambe tremavano di ammirazione. Era il 1964 o il 1965? Quel pomeriggio Mauro Bolognini mi invitò a una cena in onore di Robert Bresson, che era a Roma da alcune settimane per preparare un episodio della Bibbia, un film prodotto da Dino De Laurentiis con vari registi.
Bresson aveva scelto L’arca di Noè. Prima di essere presentato, Bolognini mi disse che Bresson era piuttosto di cattivo umore, e mi spiegò perché. Quella mattina, mentre Bresson faceva la sua lezione, Dino De Laurentiis era andato in teatro di posa e aveva visto grandi gabbie con dentro coppie di animali selvaggi: due leoni, maschio e femmina, due giraffe, maschio e femmina, due ippopotami, maschio e femmina, ecc. Qualche ora dopo, Dino disse a Bresson di sentirsi eccitato all’idea di essere l’unico produttore al mondo capace di far scendere in terra l`eccelso Maestro, producendo un film con autentici valori produttivi e commerciali … «On ne verra que leur traces sur le sable» (si vedranno solo le loro impronte sulla sabbia), bisbigliò Bresson a Dino. Un’ora dopo veniva licenziato.
Eccomi, di fronte a Bresson. È l'inizio dell'estate e stiamo su una terrazza in via San Teodoro. Dietro di lui lo sfondo dei colli palatini, pezzi di bianche rovine nel buio. Devo aver borbottato qualcosa come «prima di mettere una bomba nel teatro di posa di De Laurentiis... posso chiederle se …  forse c’è qualcuno... nella storia di... “le cinematographe”... che le piace di più... c’è un film che preferisce... o più di uno...?›.
Guardò altrove, “no”. Poi, con straordinario spirito di precisione, si corresse.
«Forse, qualche inquadratura di Chaplin. Ma quando non è in scena». Gli dissi che adoravo Les dames du Bois de Boulogne. Non aveva ancora realizzato Au hasard Balthazar, Mouchette, Une femme douce, Quatre nuits dun rêveur, Lancelot du lac, Le diable probablement, L’argent. Scrivendo questo testo adesso, Bresson è d'improvviso nuovamente il nome di una persona. Francese. O taoista?

Testo apparso in James Quandt (a cura di), Robert Bresson, Cinémathéque Ontario, Toronto, 1998.
Bianco & Nero, Gennaio/febbraio 1999


giovedì 11 maggio 2017

La locandina della sesta felicità




Locandine di Franco Fiorenzi 

Gli originali sono qui:
http://www.internetculturale.it

mercoledì 10 maggio 2017

Arrivano i marziani


La guerra dei mondi (The War of the Worlds) di Byron Haskin e George Pal è un film che dal 1953 che conserva intatta la sua genuinità. In apertura per la versione italiana la voce narrante di Vittorio Cramer introduce lo spettatore con voce suasiva all'invasione della terra da parte dei marziani.



lunedì 8 maggio 2017

Cartelloni d'autore





Oggi li chiamano poster ma quando il cinema era bambino erano I CARTELLONI. Tra quelli che definirono l'arte di raffigurare un film in immagini pubblicitarie c'è stato anche Franco Fiorenzi (1912-1992), la cui abilità consisteva nel sintetizzare per mezzo del collage fotografico un'opera cinematografica, sia essa d'autore o di artista mercenario.

Le immagini originali sono qui:
http://www.internetculturale.it

domenica 7 maggio 2017

Странные люди - Strana gente

La novellistica fusa e fluente dei primi due film si scompone, nel terzo, in capitoletti autonomi tenuti assieme da un piú intenso rap- porto di appartenenza dei protagonisti alla natura e da una loro qualificazione inequivoca al ruolo di stravaganti E’,anzi, forte la tentazione di parlare di Strannye ljudi come di un tentativo di confermare l'apoftemma  prustiano per il quale siam tutti costretti, proprio per render sopportabile la realtà, a tener desta in noi qualche piccola follia.

 Il film è un trittico esplicito. Il primo episodio è Fratello mio. Paška abita e lavora in un villaggio. Un giorno se ne parte per la città, Yalta, per far visita al fratello. Si ritrovano dopo,molto tempo. Ciascuno racconta cosa, intanto, gli è capitato. Il maggiore ha divorziato, e pensa di risposarsi. Ne parla a Paška, presentandogli le « varianti» tra cui può scegliere.
Si recano insieme in casa d'una di queste possibili fidanzate. Paška parla con entusiasmo alla bambina, che è la figlia di questa vedova, della campagna. E Ie racconta la fiaba dei fiori e del cuculo.
Paška, quindi, visita la città. Ma dopo un sol giorno decide di tornare a casa.
Per non far sfigurare il fratello, racconta di non esserci mai stato e di aver perso i solidi. Deve giustificarsi cosí davanti alla fidanzata che glieli  aveva procurati. Si conferma cosi nel ruolo di « svitato ››.
Secondo episodio: Colpo fatale. Bronka, un vecchio contadino, viene ammonito per il suo comportamento bizzarro dal presidente del soviet. Vengono intanto da lui, dalla città, dei cacciatori per invitarlo ad una battuta. Dopo un battibecco con la moglie che gli chiede dei soldi, Bronka si avvia. Durante una sosta, Bronka chiede ai suoi giovani compagni se si ricordino degli attentati a Hitler. Racconta poi di essere stato lui stesso l’autore di uno degli attentati. Era il 22 giugno 1943: alla sua audacia e ad una Browning con i proiettili avvelenati sarebbe toccato di vendicare la patria e di liberare il mondo da Hitler. Bronka rievoca come gli capito di fallire.
Il terzo episodio, Meditazioni, è  dedicato a Matvèj lvànovic, responsabile amministrativo del suo villaggio. L'episodio descrive le riflessioni e i tormentati sogni di questo vecchio che ha dedicato tutta la vita al lavoro e che non riesce a seguire i ritmi del cambiamento. Dice degli scontri e delle incomprensioni con la gente che lo circonda e soprattutto con la nu-ova generazione: il giovane appassionato di musica che gli impedisce iI sonno suonando la fisarmonica la notte e che gli ricorda con le sue canzoni la morte del fratello minore: il giovane scultore che dedica tutto il suo tempo a intagliare statue di legno; la stessa sua figlia, che non riesce ad entrare all'università e che però rifiuta un lavoro  quaIsiasi . La figlia lo obbliga anzi ad un incontro-scontro con la moglie che gli confessa finalmente di averlo sposato non già per dovere -- com'egli aveva creduto ma per amore. Matvèj difende le sue convinzioni anche attraverso un sogno. Epperò alla fine, nel corso di un ultimo incontro con lo scultore, ne approva le scelte, confermando senso e valore al «nuovo ».

La bizzarrie, in un qualsiasi corpo sociale, può diventare una sorta di necessario anti-corpo contro le monotonie e le passività grame nel vivere. Salutare presenza, quella degli strambi, ci dice šukšin. E' di fronte alle loro “ammonizioni' che vengono meno le sicurezze dei savi, cioè le baldanze abituali di tutti. Quel loro mettere 'in dubbio le convenzioni della vita sociale ed affettiva, quel loro scrollare dalle fondamenta le abitudini e i sistemi di classificazione sussunti col latte “materno” sono una sfida a quella “logica' che ci assicura le quietudini e le sazietà d'ogni giorno.
Gli “strambi” nei film di šukšin stanno naturalmente in campagna. La loro bizzarria tè il correlativo dell'instintività campagnola di front alle quadrate logiche che si nutrono in città e che ne costituiscono il malioso fascino. La trilogia che qui ne esce è di una freschezza sbarazzina e melanconica insieme, che fa crescere un film teso, e polito, modulato con accortezza sui registri di una rustica -e il termi-ne è tutt'altro che restrittivo - comédie humaine.
La bizzarria ha le sue varianti, naturalmente. E šukšin ne illustra tre.
La prima è la variante patetica. La novelletta del giovane Paška che se ne viene in città a trovare il fratello che non vede da tempo e che trova tanto cambiato da non reggere l'urto di quella diversità - e a quest'urto un altro se ne aggiunge, quello di una città austera e incomprensibile -  è l'ennesima va-riazione del motivo, caro a šukšin, della inconciliabilità dei due mondi, ovvero della confusione che la città mette in chi l'avvicina con devota confidenza in lei.
Paška denuncia una delle situazioni dell'Erlebnis di šulkšin quando dirige il film: « Non sono riuscito a capire bene -cosí si confessava con Benedetti [int. cit.] che cosa deve trovare un uomo di campagna nella sua vita nuova. Voglio, questo è certo, che riesca a trovare qualcosa di vero, di non artificiale di solido. Qualcosa di campagnolo ».
Paška non riesce a trovar quel "qualcosa di noto" che egli viene incosciamente cercando in città. Il suo vagabondare per le strade, l’inattesa distonia con il fratello lo mettono in iscacco, lo risolvono ad accettare la sua resa, senza ammetterla di fronte agli altri.- La menzogna con la quale si pr-esenta ai suoi e alla fidanzata è appunto un modo diverso di dire la verità, di riconoscere la propria erranza e di rientrare nel proprio personaggio. Se viene creduto è anche perché quel suo mentire è necessario agli altri, perché gli sia restituito il suo ruolo di specchio necessario; a se stesso per chiudere la parentesi dalla sua ricercata esenzione dalla funzione che è sua: riscontro della “normalità".
Un'altra variante della bizzarria dà vita al secondo capitoletto del film di šukšin. [Ed le un delizioso entr'acte di una specie di rustico teatro dell'assurdo. L'affabulazione di Bronka e del suo immaginario attentato a Hitler è uno straordinario “crescendo” musicale di invasamenti, di commozioni, di esaltazioni, di sbalordimenti, di sgomenti, talmente ben modulati da rendere assolutamente credibile l'assolo del vecchio contadino dinanzi agli sbalorditi compagni; ospiti venuti dalla città. La loro confusione è  mediata, metaforicamente, dallo spento ruminare delle vacche che ficcan gli occhi nell’impossibile occhio della camera, quasi a dire il potere di suggestione che docilmente viene recepito attraverso le meccaniche dei mass-media. Bronka conosce la via di altre suggestioni. È vero. Ma non a caso esplode con il suo assolo dopo che ha litigato con la moglie capziosa, che lo molesta con una questione rasoterra, i soldi per tirare la giornata.
Di fronte alle esazioni del quotidiano Bronka ha bisogno di un colpo d'ala. Di quel suo solito colpo d'ala che lo tragga fuori come una droga che-assicura immantinente un trip nel mare dell'immaginario ove dolce e il naufragio  da una realtà meschina e grama e che trasfiguri la sua realtà di emarginato, ma rispettato e invocato, nell'aura di un epos eroico a sua misura, in fondo l'eroismo non è forse solo uno dei tanti modi di rivelarsi goffi e bizzarri? E allora?
Un terzo momento della bizzarria può essere la scontrosità. L'irritabile stanchezza di Matvij lvànovic è il frutto di una sollecitudine spesa senza misura per gli altri, giorno per giorno, in una responsabilità che logora. Se oggi ha in uggia il presente è perché è tutto preso dalla memoria del futuro. II futuro apre enormi spazi di invenzione sulle monotonie che il presente misura con pedante pigrizia. La morte diventa un pensiero dominante e la curiosità dopo è cosi viva che a Matvèj lvanovic riesce facile di inventarsi un fantastico funerale. E con la morte la memoria dell’amore che torna, altro termine della bilancia, attraverso la candida figura del'l'amore giovanile che sguscia ed erompe attraverso la scorza delle incomprensioni presenti.
E quando il vecchio avverte che l'amore -- quello che rammemora, perduto, e quello, solo ora rivelato, della moglie - è il vero futuro, quello che è entrato in lui per trasformarsi in dinamica di dedicazione, molto prima di essere "accaduto", allora solamente rientra dal suo straniamento e accetta il presente "mutuato" attraverso il sofferto confronto con lo scultore nelle cui mani il legno già vivo rivive per una seconda creazione, non indegna della prima.
La vita è una tenace recidiva. E Matvèj lvanovíc quando ancora per una volta riconosce nella remissività degli altri, a lui d'intorno, l'ostinazione di questa legge che ha I'età dei suoi anni.

  
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976

giovedì 4 maggio 2017

Il Technicolor di Natalie Kalmus si addice a Gene Tierney










Femmina Folle (Leave her to Heaven), 1945


mercoledì 3 maggio 2017

Post Tenebras Music




Di questo film, e di tutta la filmografia,  di un celebratissimo regista, vanno salvati il formato in 4:3 e questa disprezzata cover, It's A Dream, di Neil Young per voce di Nathalia Acevedo, per altro alla maniera di Patti Smith.

In the morning when I wake up and listen to the sound
Of the birds outside on the roof
I try to ignore what the paper says
And I try not to read all the news
And I'll hold you if you had a bad dream
And I hope it never comes true
'Cause you and I been through so many things together
And the sun starts climbing the roof

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away
It's only a dream
Just a memory without anywhere to stay

The Red River stills flows through my home town
Rollin' and tumblin' on its way
Swirling around the old bridge pylons
Where a boy fishes the morning away
His bicycle leans on an oak tree
While the cars rumble over his head
An aeroplane leaves a trail in an empty blue sky
And the young birds call out to be fed

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away
It's only a dream
Just a memory without anywhere to stay

An old man walks along on the sidewalk
Sunglasses and an old Stetson hat
The four winds blow the back of his overcoat away
As he stops with the policeman to chat
And a train rolls out of the station
That was really somethin' in its day
Picking up speed on the straight prairie rails
As it carries the passengers away

It's gone
Only a dream
And it's fading now
Fading away
Only a dream
Just a memory without anywhere to stay

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away
It's only a dream
Just a memory without anywhere to stay

It's a dream
Only a dream
And it's fading now
Fading away

martedì 2 maggio 2017

Umberto Domenico Ferrari

Umberto D.
Se dovessi raccontare la genesi della storia di « Umberto D. ›› dovrei risalire al 1948. La prima idea fu quella di un povero vecchio che aveva sì un cane, ma sopratutto una figlia, per amore della quale pensava persino al delitto. Poi la figlia scomparve, restarono il vecchio e il cane e venne alla luce la padrona di casa.
Se la memoria non m'inganna, la figura della padrona di casa trovò il suo spunto in un fatto che commosso che commosse tutta l’Italia; per non incorrere  in querele, dirò soltanto che si trattò di una padrona di casa così spietata da costringere al suicidio il suo inquilino. Ancora dalla vita, ho preso il motivo per la giovane donna di servizio: quando da Milano mi trasferii a Roma nel 1940 abitai una camera d’affitto e conobbi questa donna di servizio che telefonava di notte alle caserme di Roma intrecciando rapporti con carabinieri, genieri, cavalleggeri, e che so io. Era buona, candida e leggermente stupida.
Chi volesse sapere la ragione del titolo, eccola qui.
Il titolo nacque senza ragione. Era un titolo, e mi piaceva moltissimo, poi cercai di giustificarlo: il mio personaggio chiamava Umberto Domenico Ferrari, ma per modestia si accontentava di firmare Umberto D. Ferrari.
Ora sapete anche i segreti. Vedrete come l’arte di Vittorio De Sica, che mostra qui più che
mai le sue radici umane, abbia dato a questi personaggi il sigillo di una verità che supera di gran lunga la cronaca.
Cesare Zavattini
IL NOTIZIARIO DI MESSINA E DELLA CALABRIA, Domenica 23 dicembre 1951