Se si facesse, un giorno, un discorso sui soggettisti del cinema italiano, si scoprirebbero cose insospettate. Siamo avvezzi a parlare di Zavattini, e di Zavattini soltanto, quando l’attenzione si sposta dal regista, centro della creazione cinematografica, a chi gli ha fornito la materia su cui la creazione si concreta. Scopriremmo, per esempio, alcune linee fondamentali di sviluppo che si possono spiegare assai meglio (e giustificare muovendo dalla personalità degli inventori del mondo fantastico entro il quale i film sono andati a inserirsi. Ma la nostra superficialità e la nostra fretta - e magari certa intristita adorazione del mito piú semplice, esteticamente più semplice, quello del regista - ci hanno finora impedito di prestare ascolto alle voci, oltreché di uno Zavattini, di un Amidei,di un Felllini (il Fellini del primo tempo), di un Brancati. Ci sarebbe tutta una storia da scrivere, a pensarci bene: una controstoria addirittura, o una storia parallela. Per poi scoprire il punto di sutura, il momento della fusione e della nascita delle poche opere compiute (ed anche di quelle incompiute, per difetto di intesa, o per mancanza di coraggio).
Mancanza di coraggio: fermiamoci all'ultimo punto.
Siamo oggi dinnanzi alla scomparsa d'uno degli esempi
rarissimi di coraggio intransigente che abbia potuto
vantare il cinema italiano.
Diciamo la
scomparsa di Vitaliano Brancati. E’ probabile che egli, al cinema non dedicasse
la stessa puntigliosa volontà di ricerca
morale che dedicava alla letteratura. Che il cinema fosse un po’ il suo secondo
mestiere, il banco di prova delle invenzioni più caduche, degli esperimenti,
delle concessioni chesi potevano fare al gusto di un pubblico non selezionato. Ma Brancati, intanto, non ha mai disprezzato il suo pubblico, come gli altri
fanno: non gli ha mai nascosto le sue intenzioni (di letterato alle prese con
una macchina che non era, e non doveva essere, la sua consueta), né gli ha mai negato la facoltà di
comprendere, di giudicare e di apprezzare il valore dell’intelligenza. Ecco una
prova di quel coraggio – di quell'onesto, umile coraggio da cui si trae la
forza per dire quanto è giudicato giusto, con ogni forma di espressione - che
si vorrebbe vedere più diffuso. Coraggio che è impegno, amore al proprio
mestiere (qualunque esso sia, pur- ché liberamente scelto), volontà di non
rinunciare, cocciuto desiderio di piegare le circostanze alla propria misura morale
ed espressiva.
In quella controstoria che auspichiamo, Brancati
occuperebbe il capitolo dell'ironia: della satira, se si vuole. Un capitolo di
enorme importanza, che vorremmo arricchire a mano a mano che il tempo passa,un
filone da tenere vivo come una possibile ancora di salvezza quando il resto fosse
divenuto troppo difficile e contrastato. Dopo la lezione di
Brancati, la cosa potrà essere piú agevole: avremo almeno un punto fermo a cui
riferirci La reazione artistica alla dittatura (o al paternalismo: e per l’arte
non fa molte differenze) si traduce sempre in termini dl analisi del costume:
il rovescio di una medaglia ufficiale, o confessionale, la piccola vita degli
uomini, quando divise e devozioni vengono messe da parte. Entro questi contorni brevi si snoda la poetica di questi artisti.
Non c’è verso di andar oltre, quanto a spazio e a respiro, ma ciò non toglie
(anzi) che il risultato possa essere alto, e non passeggero. Anche Brancati si
muoveva su questo terreno; anche il cinema di Brancati, i suoi personaggi
(consegnati, negli unici due esempi efficienti, a Zampa), le sue pitture della
vita di provincia nascono di qui, qui
muoiono. I risultati alti, non passeggeri, lo scrittore li andava conquistando
in letteratura, e di ciò non gli faremo
colpa. Ognuno sceglie la sua sfera di azione ideale – l’abbiamo detto sopra –
ma l’importante è che nel resto non indulga al compromesso, non si arrenda alle
situazioni esterne: la forza espressiva, e la vitalità delle opere, sono altro
discorso.
Brancati portò, in questa analisi del costume, idee
chiare. Le stesse che gli fornivano un sostegno razionale al lavoro letterario.
– “ La dittatura - leggiamo in un saggio postumo che e stato pubblicato da Il Mondo riporta indietro le cose, più
indietro del decadentismo, e più indietro del romanticismo. Dovendo lottare
contro un atto concreto, solitario e monotono com’è la tirannide, la mente degli
scrittori che aspirano alla libertà diventa estremamente semplice. Il loro
gusto si può veramente chiamare classico, senza paura di usare una parola
approssimativa … Il classicismo al quale noi ci riferiamo è quello dei vari
scrittori, rimasti liberi pur dentro la stretta ferrea della dittatura, liberi
non nell’attività politica, ma nell’articolazione della loro fantasia. Questi
scrittori sono classici comici. Classici pèrché sono semplici, comici perché il
continuo spettacolo di una società di marionette ha svegliato in loro il
sorriso e il riso ”. FERNALDO
DI GIAMMATTEO (continua ...)
Cinema, quindicinale di divulgazione cinematografica Anno
VII, 10 novembre 1954