Do il via oggi alla esposizione di alcuni articoli scritti da Pietro Bianchi, critico cinematografico dal 1928 al 1976 ma anche insegnante di filosofia e cultore di Marie-Henri Beyle, meglio conosciuto come Stendhal. Egli operò in un periodo in cui il cinema era giovane come giovani lo erano le persone che vi si accostavano con vergineo amore.
Prima parte
Quasi
tutti gli stranieri si sono lasciati prendere al laccio di quella che, proprio
fuori d'Italia, è stata chiamata la << nuova scuola >> del cinema
italiano.
Apparsa, dunque, a sprovveduti e ad ignari, qualcosa di simile ad Atena
uscita, grande, ben fatta ed armata, dal 'cervello di Zeus. Si aggiunga che in
tanti cӏ una prevenzione moralistica, ben lieta di attribuire il trionfo del
cinema italiano all’avvento delle libertà democratiche nel nostro paese.
La verità invece è un’altra. Quasi tutti i trionfanti
registi di oggi sono registi non trionfanti di ieri; e molti di essi, i
precursori, i Giovanni Battista della << nuova scuola >>, sono
addirittura sulla breccia da diecine d’anni, dal tempo del muto.
In Italia, a essere giusti, quasi nessuno è caduto
nell’orcio pieno di vento delle lodi straniere: i Rossellini, i De Sica, gli
Zampa eran troppo di casa per non riconoscerli, anche se un'improvvisa celebrità
rischiarava lineamenti prima oscuri. Non molti invece hanno idee chiare, idee
appoggiate a una cronologia e a una storia, sull'origine, sullo sviluppo e infine
sulla crisi della << nuova scuola >> cinematografica
nel nostro paese.
Come in una favola, la cosa cominciò così. A un enorme
amore, sia delle masse indifferenziate quanto di molti giovani preparati e
sensibili, per il cinematografo, non corrispondeva, negli anni sotto il '30,
nessun concreto apporto italiano nella produzione. Vagavano, è vero, ancora qua
e là i fuochi fatui della movimentata avventura del nostro cinema negli anni
prima e dopo la guerra europea del '14: quando, illusi da un precipitoso trionfo,
dive, registi e produttori si erano dati alla produzione di pellicole a tambur battente, fatte in pochi giorni, o addirittura in
poche ore, e vendute a scatola chiusa. A un certo momento la gente di fuori
aveva scoperto le arance marce sotto il primo strato di quelle fresche e aveva
rifiutato << in toto >› l”articolo. Delle dive, chi non si era
accasata, finì malamente; dei produttori, chi dichiarò fallimento e chi cambiò
mestiere; dei registi, i più avventurati se ne andarono all’estero, cercando a
Berlino e a Parigi una fortuna fattasi inimica in Italia.
Il disastro si era consumato nei due o tre anni del
primo dopoguerra. Ora c'era il deserto, la terra bruciata. Le masse avide del
nuovo mezzo espressivo e i giovani che, confusamente, tendevano a diventare
creatori, si trovavano soli: senza macchine da presa e senza danaro, senza
interpreti e senza tradizione. Sorse allora il Giovanni Battista del nostro
cinema, il rozzo ma acceso precursore, Alessandro Blasetti. Chi vede ora il regista
Blasetti, ancor giovane e sempre calzato dei mitici stivaloni della sua
giovinezza; chi vede in questi giorni il regista Blasetti, onusto della fiducia
dei produttori della Universalia,
accingersi all’enorme fatica di Fabìola,
film che sembra voler rínverdire il tronco già arido che ci dette Cabiria e, ahimè, Scipione l'Africano, fa una certa fatica a immaginarsi che il multanime
Blasetti è il precursore in titolo della << nuova scuola >›.
Eppure è la verità stessa.
Accompagnato dalla fede che crea i santi e dall'ostinazione
che fa i capitani d”industria, Blasetti, circondato da alcuni giovani, si
batteva negli anni mitici attorno al ‘28, che erano gli ultimi anni del cinema
muto, per una cinematografia italiana. Condotto da un istinto di vita e da una volontà
di creare che erano le ragioni stesse della sua presenza nel mondo, Blasetti invocava,
su una rivistina dalle idee confuse e scritta piuttosto male, l'intervento
dello Stato negli affari del cinematografo. Come un fiume troppo stretto dalle
dighe, infine Blasetti proruppe; quasi miracolosamente, racimolando i soldi per
un film che si chiamò Sole, che si svolgeva in gran parte all”aperto, che era interpretato
da attori ignoti, che fu visto da pochi e che tuttavia fu il suo passaporto per
il cinematografo di produzione normale.
Come a dire che Blasetti si tagliò da solo una via
nella giungla, a colpi di coltellaccio e di volontà, per imboccare la via
reale, la via ben asfaltata e addirittura provvista di alberi da far ombra
della produzione filmistica. Press'a poco nello stesso tempo, chissà come, un
regista umbratile e schivo, che giuoca su pochi motivi ma che non è privo di grazia,
Mario Camerini, se ne usciva con un film coloniale, che si chiamava Kif Tebbi e che, a quell’epoca, non era privo
di meriti.
continua...
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