martedì 3 febbraio 2015

Nascita del neorealismo


Do il via oggi alla esposizione di alcuni articoli scritti da Pietro Bianchi, critico cinematografico dal 1928 al 1976 ma anche insegnante di filosofia e cultore di Marie-Henri Beyle, meglio conosciuto come Stendhal. Egli operò in un periodo in cui il cinema era giovane come giovani lo erano le persone che vi si accostavano con vergineo amore.


Prima parte

Quasi tutti gli stranieri si sono lasciati prendere al laccio di quella che, proprio fuori d'Italia, è stata chiamata la << nuova scuola >> del cinema italiano.
Apparsa, dunque, a sprovveduti e ad ignari, qualcosa di simile ad Atena uscita, grande, ben fatta ed armata, dal 'cervello di Zeus. Si aggiunga che in tanti c”è una prevenzione moralistica, ben lieta di attribuire il trionfo del cinema italiano all’avvento delle libertà democratiche nel nostro paese.
La verità invece è un’altra. Quasi tutti i trionfanti registi di oggi sono registi non trionfanti di ieri; e molti di essi, i precursori, i Giovanni Battista della << nuova scuola >>, sono addirittura sulla breccia da diecine d’anni, dal tempo del muto.
In Italia, a essere giusti, quasi nessuno è caduto nell’orcio pieno di vento delle lodi straniere: i Rossellini, i De Sica, gli Zampa eran troppo di casa per non riconoscerli, anche se un'improvvisa celebrità rischiarava lineamenti prima oscuri. Non molti invece hanno idee chiare, idee appoggiate a una cronologia e a una storia, sull'origine, sullo sviluppo e infine sulla crisi della << nuova scuola >> cinematografica
nel nostro paese.
Come in una favola, la cosa cominciò così. A un enorme amore, sia delle masse indifferenziate quanto di molti giovani preparati e sensibili, per il cinematografo, non corrispondeva, negli anni sotto il '30, nessun concreto apporto italiano nella produzione. Vagavano, è vero, ancora qua e là i fuochi fatui della movimentata avventura del nostro cinema negli anni prima e dopo la guerra europea del '14: quando, illusi da un precipitoso trionfo, dive, registi e produttori si erano dati alla produzione di pellicole a tambur battente, fatte in pochi giorni, o addirittura in poche ore, e vendute a scatola chiusa. A un certo momento la gente di fuori aveva scoperto le arance marce sotto il primo strato di quelle fresche e aveva rifiutato << in toto >› l”articolo. Delle dive, chi non si era accasata, finì malamente; dei produttori, chi dichiarò fallimento e chi cambiò mestiere; dei registi, i più avventurati se ne andarono all’estero, cercando a Berlino e a Parigi una fortuna fattasi inimica in Italia.
Il disastro si era consumato nei due o tre anni del primo dopoguerra. Ora c'era il deserto, la terra bruciata. Le masse avide del nuovo mezzo espressivo e i giovani che, confusamente, tendevano a diventare creatori, si trovavano soli: senza macchine da presa e senza danaro, senza interpreti e senza tradizione. Sorse allora il Giovanni Battista del nostro cinema, il rozzo ma acceso precursore, Alessandro Blasetti. Chi vede ora il regista Blasetti, ancor giovane e sempre calzato dei mitici stivaloni della sua giovinezza; chi vede in questi giorni il regista Blasetti, onusto della fiducia dei produttori della Universalia, accingersi all’enorme fatica di Fabìola, film che sembra voler rínverdire il tronco già arido che ci dette Cabiria e, ahimè, Scipione l'Africano, fa una certa fatica a immaginarsi che il multanime Blasetti è il precursore in titolo della << nuova scuola >›.
Eppure è la verità stessa.
Accompagnato dalla fede che crea i santi e dall'ostinazione che fa i capitani d”industria, Blasetti, circondato da alcuni giovani, si batteva negli anni mitici attorno al ‘28, che erano gli ultimi anni del cinema muto, per una cinematografia italiana. Condotto da un istinto di vita e da una volontà di creare che erano le ragioni stesse della sua presenza nel mondo, Blasetti invocava, su una rivistina dalle idee confuse e scritta piuttosto male, l'intervento dello Stato negli affari del cinematografo. Come un fiume troppo stretto dalle dighe, infine Blasetti proruppe; quasi miracolosamente, racimolando i soldi per un film che si chiamò Soleche si svolgeva in gran parte all”aperto, che era interpretato da attori ignoti, che fu visto da pochi e che tuttavia fu il suo passaporto per il cinematografo di produzione normale.
Come a dire che Blasetti si tagliò da solo una via nella giungla, a colpi di coltellaccio e di volontà, per imboccare la via reale, la via ben asfaltata e addirittura provvista di alberi da far ombra della produzione filmistica. Press'a poco nello stesso tempo, chissà come, un regista umbratile e schivo, che giuoca su pochi motivi ma che non è privo di grazia, Mario Camerini, se ne usciva con un film coloniale, che si chiamava Kif Tebbi e che, a quell’epoca, non era privo di meriti. 

continua...

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