domenica 22 giugno 2014

Il cinema americano si fa oggi in Italia

Paisà è innanzitutto senza dubbio il primo film ad essere l’equivalente rigoroso di una raccolta di novelle. Non conosciamo d’altro che il film a episodi, genere bastardo e falso come pochi. Rossellini ci racconta una dopo l’altra sei storie della Liberazione italiana. Esse non hanno in comune che questo elemento storico. Tra di esse, la prima, la quarta e l’ultima si riallacciano alla Resistenza, le altre sono degli episodi buffi, patetici o tragici ai margini dell’avanzata alleata. La prostituzione, il mercato nero, la vita di un convento francescano ci forniscono indifferentemente la materia. Nessuna progressione  se non un cero ordinamento delle storie secondo l’ordine cronologico a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia. Ma lo sfondo sociale, storico e umano delle sei storie conferisce loro un’unità  del tutto sufficiente per farne un’opera perfettamente omogenea nella sua diversità. Ma soprattutto la lunghezza di ogni storia, la struttura, la sua materia, la sua durata estetica ci danno per la prima volta l’esatta impressione di una novella. L’episodio di Napoli in cui vediamo un ragazzino specialista del mercato nero vendere i vestiti di un negro ubriaco, è una splendida novella “ di “ Saroyan. Un’altra fa pensare a Steinbeck, un’altra a Hemingway, un'altra ( la prima ) a Faulkner. Non voglio dire solo per il tono o per il soggetto, ma più profondamente: nello stile. Non si può sfortunatamente citare fra virgolette una sequenza cinematografica come  paragrafo, e la descrizione letteraria che se ne può fare è per forza incompleta. Ecco tuttavia un episodio dell’ultima novella  (che mi fa pensare ora a Hemingway ora a Faulkner): 1) un gruppo di partigiani italiani e di soldati alleati è stato rifornito di viveri da una famiglia di pescatori che vive in una sorta di fattoria isolata in mezzo alle paludi del delta padano. Gli danno una cesta di anguille, loro se ne vanno; una pattuglia tedesca successivamente se ne accorge e giustizia tutti gli abitanti della fattoria; 2) al crepuscolo, l’ufficiale americano e un partigiano camminano fra le paludi. In lontananza una fucilata. Un dialogo molto ellittico fa capire che i tedeschi hanno fucilato i pescatori; 3) degli uomini e delle donne stesi morti davanti alla capanna, un bimbo mezzo nudo piange senza posa nel crepuscolo. Anche così succintamente descritto, questo frammento di racconto lascia vedere a sufficienza delle enormi ellissi, o meglio delle lacune. Un’azione abbastanza complessa è ridotta a tre o quattro brevi frammenti, in se stessi già ellittici in rapporto alla realtà che rivelano. Passi il primo, puramente descrittivo. Nel secondo l’avvenimento ci viene significato solo attraverso ciò che potevano saperne i partigiani: dei colpi di fucile in lontananza. Il terzo viene presentato indipendentemente dalla presenza dei partigiani. Non è neppure sicuro che questa scena abbia un testimone. Un bambino piange in mezzo ai genitori morti: ecco, è un fatto. Come hanno i tedeschi a sapere della colpevolezza dei contadini? Perché il bimbo è ancora vivo? La cosa non riguarda il film. Eppure tutta una serie di avvenimenti si sono concatenati fino a giungere a questo risultato. La tecnica di Rossellini conserva senza dubbio una certa intelligibilità nella successione dei fatti, ma questi non si ingranano l’uno sull’altro come una catena su un pignone.. I fatti, in Rossellini, acquistano un senso, ma non alla maniera di un utensile la cui funzione ne ha, in anticipo, determinato la forma. I fatti si susseguono e lo spirito è costretto ad accorgersi che si raccolgono e che, raccogliendosi, finiscono per significare qualcosa che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole, la morale della storia. Una morale alla quale lo spirito appunto non può sfuggire perché essa gli viene dalla realtà stessa. Nell’episodio di ” Firenze “, una donna traversa la città ancora occupata da alcuni tedeschi e da gruppi fascisti per cercare di raggiungere un capo partigiano, suo fidanzato. L’accompagna un uomo che cerca anche lui sua moglie e suo figlio. La macchina da presa li segue passo passo, ci fa partecipare a tutte le difficoltà che essi incontrano, a tutti i pericoli, ma con una perfetta imparzialità ell’attenzione che essa presta ai protagonisti dell’avventura e alle situazioni che devono traversare. In effetti, tutto quel che avviene nella Firenze agitata dalla Liberazione è ugualmente importante, l’avventura personale dei due personaggi si insinua bene o male in un brulichio di altre avventure, come quando ci si fa largo coi gomiti attraverso una folla per ritrovare la persona che abbiamo perduto. Di passaggio, si intravedono negli occhi di quelli che vi fanno largo altre preoccupazioni, altre passioni, altri pericoli, di fronte ai quali i vostri non sono forse che irrisori. Alla fine e per caso, la donna viene a sapere dalla bocca di un partigiano ferito che colui che cercava è morto. Ma la frase che glielo rivela non era destinata a lei, la colpisce come una pallottola vagante. La purezza di linea di questo racconto non deve niente ai procedimenti di composizione classica per una narrazione di questo genere. L’interesse non è mai portato artificialmente sulla protagonista. La macchina da presa non vuole  essere psicologicamente soggettiva. Il che ci fa partecipare ancor meglio ai sentimenti dei protagonisti, perché è facile dedurli e perché il patetico non proviene in questo caso dal fatto che una donna ha perduto l’uomo che ama, ma dalla situazione di questo dramma particolare fra mille altri drammi, dalla sua solitudine solidale al dramma della liberazione di Firenze. La macchina da presa si è limitata a seguire come per un reportage imparziale una donna alla ricerca di un uomo, lasciando al nostro spirito la responsabilità di essere con questa donna, di comprenderla e  di soffrire.
Il cinema americano si fa oggi in Italia, ma mai il cinema della penisola è stato più tipicamente italiano. Il sistema di riferimento che ho adottato mi ha allontanato da altri accostamenti ancor meno contestabili, per esempio con la tradizione della novella italiana, della commedia dell’arte e della tecnica dell’affresco.  Piuttosto che di un’ “ influenza “, si tratta di un accordo del cinema e della letteratura su degli stessi dati estetici profondi, su una comune concezione dei rapporti dell’arte e della realtà. E’ un bel po’ di tempo che il romanzo moderno ha compiuto la sua rivoluzione “ realista “ , che ha integrato il behaviorismo, la tecnica del reportage e l’etica della violenza. Il cinema è lungi dall’aver esercitato la minima influenza su questa evoluzione, così come si crede ancora spesso, e un film come Paisà prova al contrario che esso restava di un vent’anni indietro sul romanzo contemporaneo. Non è merito minore del cinema italiano recente quello di aver saputo trovare per lo schermo gli equivalenti propriamente cinematografici della più importante rivoluzione  letteraria moderna.

 Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.


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