lunedì 9 marzo 2020

Carlo Campogalliani

I REGISTI (senza peli sulla lingua)
CARLO CAMPOGALLIANI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI
Toc, toc …,
Chi è là?
Fasulein, a barbir, il barbiere.
Aspetta ben un monumento.
Risata dei bimbi innanzi il casotto dei burattini, sotto il voltone del Podestà, la volta nera dei secoli nel centro di Bologna. Come dimenticare questo trillo d’argento nel segreto della metropoli rutilante dell’ Emilia?
I burattini avevano tanto da dire nella Bologna di cui eravamo studenti, e non soltanto sotto il voltone del Podestà! Ricordo una festa in cui il casotto dei burattini celava la contessina Isolani e Alfredo Testoni improvvisanti innanzi ad un elegante uditorio: e quei singolari “burattini in persona”, specialità tutta bolognese, per cui attori talvolta eccellenti rappresentavano, burattineggiando alla perfezione, drammi e farse.
Campogalliani! Era il sovrano di quel mondo: un burattinaio celebre, che i bolognesi consideravano come la cioccolata Maiani, insuperabil vertice della squisitezza. Il culto per quel nome s’è allora così approfondito in me, che ad esso sento ancor congiunto il fiore delle mie feste galanti ed il mio amore per la truculenza burattinesca, la sola che io tolleri in quanto non retorica dell’orrido, come la truculenza ordinaria, ma brivido fantastico e trillante sicumera.
Campogalliani: è ancora per me la festa dell’assurdo, che mi carezza il cuore: la bionda tedesca che mi traeva al centro d’un immenso cortile bolognese, perché le sedessi accanto e le interpretassi le facezie d’un Fasulein che imperversava nei freddi bagliori di una lampada ad acetilene. Ah, festa magica d’argento, degna d’un Piazzetta o d’un Guardi, innanzi ad un drammone burattinesco, in cui Fagiolino, tra lazzi gioviali, accumulava cadaveri, sul banco dei giudici, in nome della giustizia popolare!
Il regista Carlo Campogalliani, emiliano anch’esso, ha, senza dubbio, qualcosa del genio della famiglia: la truculenza inventiva, la popolaresca faraggine. Quante volte i suoi film hanno riscosso in me la nostalgia delle mie feste galanti burattinesche di Bologna, o, più precisamente, per un eccesso di truculenza, mi hanno costretto a rifugiarmici! Il Campogalliani regista dà un po’ troppo nella truculenza ordinaria, nella retorica dell’odio, in quel ch’io non amo. Mi spiegherò con qualche esempio.
Carlo Campogalliani è un uomo che, dal 1914 ad oggi, in ventotto anni, ha diretto una settantacinquina di film; ma egli stesso, modesto quanto laborioso, ci fa capire che non val la pena di ricordar tanti titoli e, dando un esempio di spiritosa discrezione, si limita a rammentarcene una mezza dozzina. Sulle orme di qualche storico, noi dovremmo limitarci a ricordarne uno solo, del 1914: Maciste contro la Morte . E’ un titolo perfettamente rappresentativo del genere campogallianesco e ci ricongiunge col Campogalliani bolognese, col genio della famiglia, in quanto, con un Fasulein al posto di Maciste, potreste trovarlo annunciato, in uno stampatello maiuscolo, sotto il volto del Podestà o presso un altro casottino celebre, ove un forzuto e gioviale eroe stia per accumulare cadaveri sul banco dei giudici.
Ma non è questo ancora il regista ch’io conosco. Io ricordo d’avere imparato a conoscere il regista Campogalliani nel film La lanterna del diavolo (1934). Era là la più orripilante storia di malfattori, montanari, e, poiché allora non c’era film senza un tabarin, anche quei malfattori d’alta cima avevano voluto il loro tabarin e la loro vampira. Che cosa fosse quel “paradiso artificiale” d’alta montagna, quel covo di sinistre raffinatezze, è cosa ch’io non vi saprei dire. Era un tal vertice dell’assurdo, che, per tollerante ch’io fossi, mi rivoltava e “mi ripigneva là dove ‘l sol tace”: alla prima giovinezza, cioè, al Campogalliani più vero e maggiore, quello riposante, ch’aveva lumeggiato di tanto sorriso e di tanta argentea luce i miei ricordi. Quella vamp montanara in calze di seta, dalle occhiaie bistrate, golfi della lusinga e dell’orrore! Ahi, quanto diversa dalla rosea bionda che m’aveva appreso come Fagiolino sapesse essere gaio anche ammonticchiando cadaveri, e come due amici possano amare la stessa donna e dividersela in perfetta pace, quale tenero crafen o croccante kiffel. Adorabile e profonda saggezza del Campogalliani bolognese, come mi parevi tradita dalla tetraggine, dal lugubernio del Campogalliani regista!
Fedel in questo al genio bolognese della famiglia, il Campogalliani regista è. Innanzi tutto, l’uomo che ha bisogno d’inventare il suo drammone, la sua grossa macchina: è l’uomo che ha ancora la fantasia dell’orrido: o meglio, che la ritrova in sé, sempre più infantile ed imperiosa col passare degli anni. Da giovane, si rassegnava a filmeggiare tele drammatiche come Romanticismo (1914) e, sino a pochi anni or sono, anche tele brillanti come I quattro moschettieri (1936): ma nell’ultimo cinquennio il regista Campogalliani ha bisogno di farsi un soggetto di suo gusto, di montare un gran truculento macchinone, di lugubrrizzarselo a suo talento. Quest’esigenza è diventata indeclinabile, atavica, oseremmo dire. Ma finché fantastica e soggettizza, il Campogalliani regista può dirsi ancora ispirato dal demone familiare. Il guaio serio comincia quando deve tradurla in cinema, la sua macchina, e non trova più che un’infilata d’oleografie senza colore, una più arruffata e grigia dell’altra. Piccolo, nitido boccascena dell’atavito teatrino, tutto colore, tutto scintille! Aurora sfringuellante della fantasia anche attraverso i gelidi abissi dell’orrido, dove, dove sei fuggita?
Il lugubre, il macchinoso di cotesti drammoni illividentisi scheletrizzanti nell’Artide filmistica, come cercasse di vecchie navi, fa talvolta una gran pena al cuore ansioso di farfalle solari e memore dell’antico Eliso. Eppure, anche cotesto sperduto della festa burattinesca padana, cotesto grigio naufrago dell’Artide cinematografica, ha i suoi felici momenti.
Io ho seguito con simpatia cordiale il drammone campogallianesco e più rappresentativo, Il bravo di Venezia: o, meglio, l’ho seguito con la stessa attenzione ultravigile con cui avrei potuto seguire il dramma faragginoso d’uno dei tragici elisabettiani minori. Ebbene: debbo dire che la mia attentissima simpatia ha avuto il degno premio.
Ad un certo punto, il drammone, affastellato e torvo nel suo grigiume, s’illumina. Si è nella casa del Bravo, del tremendo boia: ed il vecchio servo, che teme in ogni rumore la voce satanica d’un denunciatore che porti una nuova vittima, è pervaso da un folle orrore. Non so neppur io per quali vie del senso o dello spirito, o dell’uno e dell’altro insieme, ma è certo che la scena filmistica raggiunge qui d’improvviso l’altezza d’un vero tragico orrore. Un felice caso, forse, ha voluto che il sovraccarico d’effetti, sotto cui il lugubrizzatore stava per soffocare questa scena, non si avvertisse. Mi dicono che quel servo dovrebbe essere cieco e che questo, secondo le intenzioni del regista, dovrebbe giustificare il terrore. Ma nessuno avverte, per fortuna, cotesta cecità di cui non c’era affatto bisogno: ed il terrore, appunto perché naturale e candido, può diventar persuasivo. Una squisita lezione di semplicità attraverso quest’affastellatore ampolloso, che ha disertato il nativo piano dell’orrido infantile e trillante.
Restare infantili: è il suo imperituro segreto della forza e dell’allegria, sia, tremenda o sia leggera. Avere anche in faccia ai pedanti che riformano la lingua, il coraggio delle proprie cantonate, perché la vita è tutta una cantonata che soltanto col coraggio si raddrizza e ritrova un significato. Ecco quel genere di saggezza che manca al nostro troppo lugubre Campogalliani. Portare qua e là, accanto ai crocevia solatii, o per viali popolosi o per cortili festanti, il proprio casottino leggero, e improvvisare a cuore ugualmente leggero: ecco una gloria che il nostro regista non dovrebbe mai dimenticare quando s’accinge a coprir di negrofumo le cinematografiche superfici. Più semplicità, più festa, più sole, la semplicità del vero infantile e del vero tremendo, è quel che occorre ai suoi film. Modena e la Ghirlandina, Bologna e il Podestà: tutta a forza e la soavità della pianura padana, attraversata da un cuore in festa: ecco quel che dovrebbe sountare un certo giorno, in un film di Carlo Campogalliani.
Nel regista Campogalliani, presso alla torbida e soverchiante vena drammatica, mi par di scorgerne una più umile, più limpida, in film come Stadio e Montevergine. Questa limpidità, più franca, più scorrevole, dovrebbe, un certo giorno, prevalere. Aver tanto lavorato e non veder mai chiaro, dev’essere pur penoso anche per un lavoratore paziente come questo.
Nessuno vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva: e, soprattutto, che vada verso il popolo con una più schietta semplicità, con un più ingenuo orrido, con una più leggera fantasia.
Eugenio Giovannetti

Opere rappresentative di Carlo Campogalliani: Romanticismo, Maciste contro la Morte (1914) – Il medico per forza (1930) – La lanterna del diavolo (1931) – Stadio (1934) – I quattro moschettieri (1936) –Montevergine, La notte delle beffe (1939) – Cuori nella tormenta (soggetto e regia), Il cavaliere di Kruia (1940) - Il bravo di Venezia (soggetto e regia) (1941) – Perdizione (in lavoro).


film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 5  31 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film Voglio vivere così  di produzione Sangraf –Pegoraro con Silvana Jachino, Ferruccio Tagliavini, Luigi Almirante, Carlo Campanini, Giovanni, Grasso, Nino Crisma.

domenica 8 marzo 2020

Girls in horse opera



DA BELLE PUPATTOLE A TERRIBILI “PISTOLERE”
Le fanciulle del West
Nei nuovi films americani della prateria si è trasformata l’eroina: è
divenuta anch’essa un’avventuriera e va in giro con le armi alla cintura

Il pubblico non bada, ma qualcosa va mutando nella formula del più tipico, film americano, quello West. E non ci bada perché la trasformazione avviene gradualmente, per lenti passaggi. Non potrebbe essere diversamente; guai ad apportare radicali e subitanei mutamenti a un tema come questo che da oltre cinquant'anni (i primi films del genere datano dal 1903) continua a riscuotere un successo non mai esausto. Si cominciò a fabbricarli in serie, oggi si chiamano: «westerns» o films della prateria, o films dei pionieri; ma all'inizio si dissero «horse operas» ovvero films di cavalli. Dalla rozza psicologia dei films prodotti con meccanica stereotipia, negli anni in cui la sola Compagnia detta «Bigon» riusciva a metterne assieme ben 185 nello spazio di nove mesi, alla più approfondita analisi dei tipi e delle situazioni, quale oggi si tenta, la transizione non risulta meno importante per il fatto di essersi compiuta senza bruschi mutamenti.
L'interminabile romanzo dei colonizzatori degli Stati occidentali del Nord - America, derivato dall'urto fra gente perbene e avventurieri senza scrupoli nel secolo scorso subito dopo le immigrazioni dell’Europa (scandinavi, specialmente inglesi e tedeschi: ossia presbiteriani, battisti, luterani) è ancora oggi raccontato come un’antitesi fra bene e male. Ma la divisione fra i due mondi non è più netta come nei primi films, e sempre più spesso ci s'imbatte in tipi complessi, buoni e cattivi assieme, come è in realtà la maggior parte di noi e specie nelle società, primitive.
Gli uomini sono dominatori di «westerns». Attori atletici, permanentemente a cavallo, impersonano gli eroi di questo capitolo di storia divenuto leggenda. I loro nomi acquistano notorietà, l'uno succedendosi all'altro, da Broncho Billy che fu il primo a Tom Mix che fu il secondo, a William Hart che gli successe e poi via via sino ai contemporanei, fra i quali, emerge John Wayne. Anche i nomi dei loro cavalli sono divenuti popolari. E le donne? Le fanciulle del West ebbero sempre, in questi films, una parte quasi passiva, comunque modesta; ed è proprio il loro contributo che ha dato caratteristiche, ora, ai films della prateria.
Furono per molti decenni solo belle pupattole. Si trattava quasi sempre, della vezzosa figlia di un proprietario di una fattoria, ingiustamente vessata dai predoni, o costretta ad un matrimonio odioso con un ricco furfante. Il baldo «cow - boy» aveva il compito di battersi solo contro tanti, fu la sua salvezza e di sposarla all'epilogo. Più tardi primeggiano figure femminili di natura spregiudicata: cominciarono a battersi, ebbero cavallo e pistola.
Nella terza fase si ammise che potesse trattarsi di ballerine o di cantanti da taverna per cercatori d’oro; in certi casi, la loro purezza poté contaminarsi e ci si decise di accettarle anche come cortigiane ma non dissolute: comunque ansiose di redenzione ballavano il «can - can» provocando frenetici entusiasmi di omaccioni zuppi di «gin» che esprimevano il loro consenso fragoroso sparando per aria con l’una o l'altra delle due pistole che portavano alla cintura; quando non sparavano con tutt'e due e non prendevano di mira le bottiglie o la testa dell'oste. Dipendeva dal grado di euforia e dal temperamento.
Oggi e per opera del regista Ford, la fanciulla del West non vive di vita riflessa, alla ombra dell'eroe; oggi ha anche essa i suoi umori e i suoi slanci. Tra uomini avventurieri, donne avventuriere.
Spesso l'eroina è tanto sarcastica quanto piena di coraggio; la compagna intrepida dei «desperados» Marlen Dietrich protagonista di Rancho notorious, ha dato un esempio di questo nuovo tipo di donna per «cow - boys» prive di scrupoli e scanzonata quanto gli uomini che le stanno attorno. Altre volte come in Duello al sole, o come ne Il mio corpo ti scalderà è toccato a Jennifer Jones o a Jeane (sic) Russell di raffigurare creature di furibonda sensualità talvolta in chiave di tragedia e talvolta di satira. Dalla fanciulla angelica, debole e apprensiva alla scatenata erinni.
Probabilmente ai tempi dei cercatori d'oro e delle battaglie contro gli indiani, vissero nei paesi senza legge del West, donne dell'uno e dello altro tipo oppure angeliche e diaboliche insieme. E se moralmente ci urtano, non c'è dubbio che le ragazze meno serafiche offrono materia più incandescente ai films. Come i paesi miti e felici, anche le donne miti e felici sono senza storia. Ad ogni modo, lo studio psicologico s'è raffinato nelle pellicole della prateria, da quando le protagoniste non sono soltanto dolci creature, pronte a sventolare il fazzoletto quando torna a casa, attraverso i sentieri tra le rocce, il cavaliere prode che ha sgominato i nemici. Le pellicole del West hanno conservato molto della loro originaria struttura; ma anche se non sempre appare parecchia strada s'è fatta da mezzo secolo fa, allorché Broncho Billy ne metteva assieme cinque ogni settimana.
E' noto che quando gli chiesero come facesse a trovare soggetti per tanti film egli rispose, con spavalderia da «gaucho»: Vede noi non cambiamo i soggetti, cambiamo soltanto i cavalli.
Ed è anche vero che la donna ha fatto troppo cammino nella vita sociale nostra e di altri paesi; ella sa combattere, affrontare i casi, le avversità della vita, sa guardarsi dalle insidie del mondo, sa che ha una missione da compiere a bene dell’umanità con qualunque mezzo, con molto impegno, ed è cosciente che sta sopratutto in lei la possibilità di portare nuove affermazioni ai canoni delle convivenze sociali. 
TERESA CAVALIERI
GAZZETTA DEL SUD 7 giugno 1955


giovedì 5 marzo 2020

Apertura al pubblico



Nella foto l'ingresso e la scala per la tribuna del cinema Metropol di Messina tra via Garibaldi e piazza Filippo Juvara.

mercoledì 4 marzo 2020

CINE ma POPolare - comici contro melodrammatici



 Questa scissura fra intellettuali e non intellettuali, fra cultura e ceti popolari è un dato tipico dell'attuale realtà italiana nel cinema come nelle altre arti. Anche le opere del realismo cinematografico e letterario di questo dopoguerra – tranne alcune poche significative eccezioni - non hanno profondamente interessato e commosso il più vasto pubblico di spettatori e lettori, che vive fuori della cerchia degli amatori e dei cultori specializzati.
Quali le ragioni di questo fenomeno? Non pretendiamo certamente di esaurire in poche righe la grossa e complessa questione: ci limiteremo ad alcune considerazioni, che ci sembrano importanti, esortando altri ad intervenire con il contributo della propria intelligenza ed esperienza.
Qualche anno fa, assistendo in un cinema di Sora (Frosinone) alla proiezione di Tormento, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare le impressioni di un artigiano e di un piccolo commerciante: ambedue, pur criticando qualcuna delle molte ingenuità ed improbabilità disseminate nel film, espressero parere favorevole perché «quel che conta è la vittoria finale dell'innocenza e della giustizia sui ribaldi e sulle stesse avversità della sorte». Questo, senza dubbio, non è tanto un giudizio critico e di gusto, quanto un atteggiamento etico, che è condiviso dalla stragrande maggioranza degli spettatori di provincia e, in genere, dai pubblici popolari. Se in codesto atteggiamento la grossolanità del gusto e la carenza critica sono aspetti negativi, la sanità della struttura morale, malgrado l'ingenuo radicalismo, ne costituisce l'aspetto positivo. Non altrimenti potremmo spiegare i il formidabile successo commerciale dei numerosi film melodrammatici prodotti in questi ultimi anni. La presenza nel cast di nomi famosi e cari alle folle (Nazzari, Sanson, Marzi) può salvare un film il cui scenario sia del tutto inconsistente (le statistiche degli incassi dimostrano che uno scenario nullo, senza attori famosi, si risolve quasi sempre in un disastro commerciale), ma non determinarne il trionfo. In altri termini, il divismo - pur senza disconoscerne il peso – non basta da solo a far superare il mezzo miliardo d 'incasso: questo è anche il parere di numerosi esercenti di provincia da noi interrogati sull'argomento. Ad esempio, Core 'ngrato, con un cast niente affatto celebre presso i pubblici di provincia e di paese (Del Poggio, Ferzetti, Latimore), ha incassato finora quasi seicento milioni e continua a mietere successi: ciò accade perché lo scenario è riuscito ad interessare e commuovere i più umili spettatori, pur senza varcare i confini della convenzione melodrammatica. L'abile mestiere del regista, il tessuto emotivo della trama e il finale comunque edificante sono, in linea di massima, bastevoli garanzie di successo commerciale. Notiamo ancora che i grandi pubblici popolari sono costituzionalmente avversi ai film che esprimono una concezione della vita radicalmente pessimistica o comunque scettica: accettano la dialettica del bene e del male, della gioia e del dolore, della fortuna e della sfortuna, però desiderano una soluzione ottimistica o, quanto meno, aperta alla speranza. Semplicismo, d'accordo; preferibile comunque a certo calligrafismo ancora in voga o, addirittura, all'ipocrisia dei vari "messaggi".
Il minor successo commerciale dei film comici a fronte di quelli melodrammatici ci dice che lo spettatore popolare non vuole ridere ad ogni costo e considera il cinema come uno "svago" in senso lato, una variazione importante nel ritmo consueto della sua giornata: questo, sicuramente, è un aspetto positivo della semplice psicologia popolare. Invece, assai di frequente ci è accaduto di sentir dire a certe persone cosiddette colte che loro vanno al cinema solo per distendere i nervi e che quindi vogliono ridere, ridere e ancora ridere: i film che tentano di scuotere l'inerzia dello spettatore, sollecitandone la riflessione e l'autentica commozione, sono classificati da costoro dei "mattoni"· (continua)
CARLO SANNITA 
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie  Anno VII 1954 10 Novembre


martedì 3 marzo 2020

Legge di guerra



Ci sono dei film dimenticati che oggi resuscitano grazie all’operosità di alcuni attivisti del nostro tubo quotidiano. E’ il caso di Legge di guerra di Bruno Paolinelli (1923-1991) che richiama i film di Rossellini di quel periodo. Il film andò in censura e successivamente nelle sale nel 1961. La regia di Paolinelli è sobria ma efficace per l’apporto di Giuseppe Berto che ogni tanto per sbarcare il lunario scriveva per il cinema. A lui si affiancano sul set Aldo Scavarda, Camillo Bazzoni, Arturo Zavattini e Vittorio Storaro; il gruppo degli attori da Mel Ferrer, una volta tanto nel personaggio, Peter Van Eyck, Jean Desailly che subito dopo sarà con  François Truffaut ne La Peau douce e un nutrito gruppo di attori jugoslavi visto che era una coproduzione con la Jugoslavia.  Senza alcuna retorica il film ci mostra le scelte difficili che a volte dovettero fare i partigiani per liberare la nazione dai nazisti. Bruno Paolinelli sarà anche il produttore di un altro interessante film, questa volta in coproduzione con la Francia: La Cecilia ‒ Storia di una comune anarchica di Jean Luis Comolli.

lunedì 2 marzo 2020

Un leone a Culver City - A Tale of the Christ & dottor Kalmus


Il "supercolosso" Ben Hur
Ma l’ambizioso progetto di Goldwyn, accantonato solo per ragioni pratiche, non poteva restare a lungo negletto: rinsanguata dagli ultimi incassi e ormai in piena ascesa, la M.G.M. rilevò il romanzo di Wallace e decise di produrre con Ben Hur il più grande film di tutti i tempi. Messa da parte June Mathis il cui prestigio – dopo l'affare Stroheim - si era notevolmente affievolito, la sceneggiatura e la supervisione del film furono affidate a Carey Wilsonm e Bess Meredyth, e la regia a Fred Niblo.
Per il ruolo del protagonista, una volta scartata la candidatura di Valentino, ancora impegnato con la Paramount (per il quale la Mathis - non potendo fare altro - scriveva intanto lo scenario di The Young Rajah), venne finalmente prescelto Ramon Novarro, già affermatosi da qualche anno, ma che con questo film divenne celebre in tutto il mondo. La lavorazione di Ben Hur - svoltasi in parte in Italia, proprio nel momento più critico della nostra cinematografia - durò la bellezza di tre anni, e il film, il cui costo complessivo si aggirò sui due milioni di dollari, sembrò davvero aver superato in grandiosità ogni precedente: la sola scena dello stadio, con la celebre corsa delle bighe (realizzata interamente a Culver City, non a Roma) venne a costare circa duecentocinquantamila dollari. La nobiltà del tema, la persuasiva lentezza del racconto accompagnato da solenni ed edificanti didascalie, l'efficacia spettacolare di non poche sequenze, il fasto della grandiosa ricostruzione, riuscirono per vari anni a mascherarne le intime pecche: superficialità dei personaggi, schematica meccanicità degli sviluppi ·drammatici, ingenuità di troppi particolari, facilon dell'ambientazione. E Ben Hur, con gli stomachevoli contorcimenti della serpentina Carmel Myers in parrucca al platino, incaricata di insidiare la virtù del protagonista, nonché con gli spaventosi colori da libro da messa delle scene della " Via Crucis " (nelle quali tuttavia la figura del Cristo veniva prudentemente presentata di spalle o al margine del fotogramma), passò sugli schermi di tutto il mondo come un autentico capolavoro. L'unica sequenza che in qualche modo meritasse un elogiò incondizionato, per il travolgente impeto di certe riprese e per lo studiatissimo ritmo del montaggio, era' in realtà quella, già citata - e rimasta del resto famosa – della corsa delle bighe, con la gara fra Ben Hur e Messala (impersonato dall'ex-rubacuori Francis X. Bushman, ormai passato ai ruoli di "vilain"), ma il cui divertito crescendo sembrò sempre derivare, - almeno secondo i competenti - da una sequenza analoga della Messalina (1923) di Guazzoni, che Niblo aveva sicuramente già visto in Italia. Ben Hur venne comunque presentato al pubblico americano dopo un lancio colossale, solo ai primi del 1926 e in Europa e in Italia giunse ancora più tardi, e addirittura in un'edizione sonorizzata: del film circolano ancora oggi copie in formato ridotto, private delle didascalie e puntellate da un "emphasising" quanto noioso commento parlato. A proposito del colore introdotto in alcune sequenze di questo film, va ricordato come la M.G.M. sia stata la prima casa di Hollywood a dare credito al Technicolor - ancora in bicromia - del dottor Kalmus, distribuendo anzitutto il primo film realizzato col sistema sottrattivo, The ToH of the Sea (1922), che recava persino la firma di Joseph Schenck quale supervisore, quindi tutta una serie di cortometraggi a soggetto, e infine The Viking (I Vikinghi, 1929), l'ultimo film muto a colori (ma presentato sonorizzato), prodotto, come i precedenti, dallo stesso Kalmus. (continua)
FAUSTO MONTESANTI
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

Nella prima foto Carmel Myers e Ramon Novarro, nella seconda Novarro e Francis X. Bushman.

domenica 1 marzo 2020

ENRICO GUAZZONI




I REGISTI (senza peli sulla lingua)
ENRICO GUAZZONI
DI EUGEGIO GIOVANNETTI

Prestami la ritorta conchiglia, o tritone di Fontana di Trevi, perché io ci dia dentro a pieni polmoni e allarghi sulle croscianti acque la fama di questo buon padre dell’italico cinema, romanissimo cive che gli diè risonanza oltre Oceano e primo perse le vie all'americano Griffizio che tant’ala stese sulla nuova arte, la quale dedalea e quasi icarea vuolsi giustamente nomare.
Quanto quest’arte del ciurma debba ai barocchi per lo spirito e per la romana origine, niuno ancor sa. Ell’ è il perenne metamorfoseo dell'immagine plasmata dal moto, e puossi ben dire nata in Roma con la celebre statua del cavalier Bernino: Dafne ramificantesi al corso e sorpresa come eterna essenza travagliata dal moto.
Ma romano fu il cinema per nascimento anche, nel 1913, quando Enrico Guazzoni diè al mondo Quo vadis? e Antonio e Cleopatra. Non la scena teatrale come suolsi immaginare, ma Roma stessa quale immenso scenario creato dai barocchi, influiva su quel nascimento.
Nel dissipato gestire, nell'esagitato brulichio, nel ventilato drappeggio con cui balenavan le cinematografiche folle intorno ai loro vecchi eroi, riverberava, ad insaputa degli stessi Guarzoni, non la ribalta teatrale ma la statuaria barocca di Roma, la vuota e mirifica drammaturgia solare, sciorinata da quegli scultori a sommo del porticato berniniano, sull`alto della facciata di San Giovaumi, lungo i parapetti di Ponte Sant’Angelo, tra le acque di Fontana di Trevi. Questa ventilata sinfonia di Roma, inaspettata marmorea trasfigurazione del motto “i cenci van sempre all’aria”, fu l’inavvertita ma onnipresente maestra d'Enrico Guazzoni. Il suo cinema, romano di pretesto e romanesco-barocco di spirito, si gonfiò, corruscò, crosciò, s'allargò, come la più nuova e la più vasta tra le fontane di Roma.
ln questa nuova macchina delle meraviglie fu immessa la vena della sensualità ottocentesca. La nuova ispiratrice segreta del nuovo spettacolo, era la Venere polputa e callipigea, vagheggiata dalla Roma godereccia dei funzionarii e dei capigabinetto: quella stessa Venere che, per immagini varianti ma ugualmente dilettose, arrideva loro dalla fontana del Rutelli e dal sipario del Brugnoli al Costanzi, dove una baldracca floridissima appariva in una specie di barbarico trionfo equestre.
Quell'ideale estetico della Venere cicciuta, celebrato ogni dì e rinfrescato nelle Naiadi del Rutelli all'Esedra, corrispondeva per un lato perfettamente all'epicureismo romanesco e, per l’alto, anche alla fantasia pittorica del tritone sensuale Boecklin, romaneggiato a sua volta in quelle sensuali e folleggianti oceanine. Un gusto vecchio, del resto, che, dall'Ottocento, si ricongiungeva ancora col Seicento, col barocco galante di qualche stampa dei tempi di Luigi XVI. Ne ricordo una bellissima in cui son già le naiadi carnose del Boecklin e del Rutelli ma assai più maestose e languide, assai più Montespan.
Enrico Guazzoni portò nel cinema quest'ideale romanesco-barocco della bellezza femminile, con quelle Terribili-Gonzales che fu, per noi ragazzi, l`indimenticabile Cleopatra. Ah, com'racano lontani allora dall'estetica della “mezza-porzione”, invalsa poi con le dive americane dello jolì! La Cleopatra che Enrico Guazzoni ci sceglieva era porzione intera, quella fatta ancora pei robusti appetiti, quella che sognano Ia plebe e gli adolescenti di tutti i secoli. Che fosforescenza aveva per lg nostre fantasie la didascalia in cui Cleopatra annunciava: “Antonio, ti ho preparata una notte d’amore”. Che programma!
Enrico Guazzoni voglia perdonarci se poniamo oggi il freno della dignità al nostro entusiasmo per la sua Cleopatra: ma siam pronti a confessargli che l’idea soda ch'eglì aveva d'una diva cinematografica ha ancora la sua potenza e che ne facciam la prova ogni giorno, quando, girando per Roma in botticella, al passaggio di qualche formosa Cleopatra, noi, gli intellettuali raffinati, ci accorgiamo d'avere gli stessi gusti del nostro vetturino.
Questo romanesco-barocco del cinema italiano, quale Enrico Guazzoni seppe imporlo al mondo sotto pretesto di storica romanità, non mancava certo d'intuizioni geniali. E della confusione stessa tra romano e romanesco non si può far colpa ad Enrico Guazzoni se essa, attraverso il barrocco, è ancor oggi inavvertita e lampante in architetti come Brasini. Il romanesco trova nella sua Roma, bell'e fatto, il più magnifico tra gli scenarii, in cui è ancora così facile drappeggiare a toga un lenzuolo.
Il cinema italiano, quale il Guazzoni l'educò, fu, in sostanza, un capolavoro postumo ma non vulgare del genio barocco romano, in quanto genio corrusco del moto.
Attraverso il genio del moto qualche intuizione cinematografica del Guazzoni riuscì a forare la scenografia barocca ed a penetrare nel vivo della vita antica. Assai prima che Fred Niblo l’avesse per il Ben Hur, egli aveva avuto l’idea della corsa delle quadrighe: un’idea per cui si tornava veramente ad una romanità palpitante anche se detestabile. Non so quanto in queste rievocazioni circensi contribuisse la pittura storicizzante ottocentesca (c'ê un celebre quadro con una quadriga in curia per le vie di Pompei) ma non v’ha dubbio che la trovata fosse, per gran parte, cinematografica e felice.
Cosa strana, la corsa stupenda era ancor più animatrice nel suono che nell’immagine: e ce ne accorgemmo nella versione sonorizzata del Ben Hur.
La vita antica aveva tre immagini sonore di cui noi moderni non sapevamo più ritrovar l’idea: questa delle quadrighe uscenti a turbine dal curcer sul lastricato del circo: quella d’una flotta rameggiante nella bonaccia: quella del grido cui s’apriva la battaglia, vero polso sonoro da cui un orecchio esperto misurava il tono spirituale di tutta un’armata.
Questa delle quadrighe era davvero una sequenza da sonorizzare, perché nel suono, ancor più che nell'immagine, era il dramma: al contrario di quel che accade nel nostro mondo in cui la corsa di cavalli è di per sé silenziosa ed il rumore è tutto esterno. Che senso poteva avere, invece, una sonorizzazione della Gerusalemme liberata? Ma il Guazzoni ha sempre amato oltremodo la Gerusalemme liberata, questa sua così poco significante creatura ch`è stata la preoccupazione e l’orgoglio di tutta la sua vita. Ci lavorava già nel 1911, l'ha presentata nel 1917, l'ha sonorizzata nel 1934.
Il Guazzoni ha sempre un po’ avuta la debolezza di non sentire il mutarsi dei tempi. Nel 1924, quando il cinema americano ci aveva già tolto da gran parte dei mercati e ci aveva superati nella spettacolosità e nella squisitezza, egli credeva ancora di potere interessare il mondo col vecchio barocco romanesco, e dirigeva una Messalina.
Lo rivedemmo nel 1932, al primo rifiorire del cinema italiano, cimentarsi col Dono del mattino: far cioè del mediocre, se non dal cattivo, teatro forzanesco. Questa sì ch'era veramente la ribalta, coi lumi ancora a petrolio.
Ma l’uomo è, in sostanza, più agile di quanto paia, e, qualche volta, sa rimettersi in carreggiata. Il re burlone fu, relativamente, un rimettersi in carreggiata: un tornare, per quanto possibile, alla pari coi tempi.
Non dico che ci fossero novità in quel film: me ne guarderò bene. Si rispolverò, per l’occasione, il trenino campestre cameriniano di Figaro e la sua gran giornata. Ma il teatro, con Armando Falconi, si fece più largo, più ventilato, più brioso. Invece dei lumi a petrolio, c’erano già le lampadine elettriche.
Negli anni successivi, il Guazzoni inclina all'oleografia sentimentale, da vecchia parete. E` il tempo dei Due sergenti e del Dottor Antonio. Vorrebbe mettersi tuttavia in paro, ma mi par che questa volta non gliela faccia più. Racconta ora le cose ultravventurose. La figlia del corsaro verde e I pirati della Malesia del Salgari, ma ha un po’ l’aria d'un nonno che non s'accorga di raccontar favole, che andavan bene, sì, per il figliuolo ma sono già un tantino vecchiotte per il nepote. Salgari è già superato per i bimbi che giuocano con la mitragliatrice e l'aeroplano e il carrettino armato.
Non vorrei finire col dire cose sgradevoli ad un uomo che ha lavorato con gran passione ed ha fatto in trent`anni un terzo appena dei film che i nostri baldanzosi registi ci scodellano oggi in dieci anni. Enrico Guazzoni non è affatto un uomo della preistoria del nostro cinema: è un carattere rappresentativo, che ha dato al cinema italiano un'impronta che non s’è mai del tutto cancellala: intuito della scena, magnificenza, corruscare di masse. ln un tempo in cui si parla tanto d’un teatro di masse, bisognerebbe ricordare che questo regista ha creato il cinema italiano mettendo in primo piano la mass. Che egli fosse superato e che la vera drammaturgia filmistica nascesse il giorno in cui il cinema avesse messo in primo piano invece della massa i volti degli eroi e delle eroine, era le com’è fatale che le arti evolvano dal grandioso allo squisito, dal macchinoso al profondo, dal teatrale all’intimo. Ma aver cominciato sotto gli auspici solari e avventati del barocco romano, aver aperto al mondo questo più vero e maggior teatro delle meraviglie ch’è spettacolo cinematografico, portando del moto e della luce significa pure qualcosa. Possa o no piacervi Enrico Guazzoni è un personaggio, un creatore, che appartiene alla storia della civiltà. Nazionale.
Eugenio Giovannetti

Opere di Enrico Guazzoni: Bruto, I Maccabei, Agrippina (1911) – Marcantonio e Cleopatra, Quo Vadis? (1913) - La Gerusalemme liberata (1911-17-31) – Giulio Cesare (1914) - Messalina (1924) – Miriam la sperduta d’Allah (1928) – Il dono del mattino (1932) – La signorina Paradiso (1934) - Re Burlone (1935) -
Ho perduto mio marito, Re di denari, I due sergenti (1936) -- Il dottor Antonio (1937) - Il suo destino (1938) – Ho visto brillare le stelle (1939) – Antonio Meucci (1940) - La figlia del Corsaro Verde, l pirati della Malesia (1941).
 film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 4  24 GENNAIO 1942 XX

La testata si riferisce al film Via delle cinque lune diretto da Luigi Chiarini e interpretato da Luisella Beghi, Andrea Checchi, Olga Solbelli (Prdod. Cinecittà, realizz. artistica C.S C.; distr. Enic)