domenica 26 gennaio 2020

Emilio "el Indio" Fernandez - Leitmotiv



Questa disorganizzazione narrativa, questa gratuità dell'analisi filmica si ripercuotono su tutta l’impostazione del linguaggio di Fernandez, determinando incertezze stilistiche ed ingenuità sintattiche. Il montaggio di Fernandez è generalmente sconclusionato manca di una base cronologica. Si veda per esempio in Enamorada, la sequenza, potenzialmente stupenda, del coro dei fanciulli nella chiesa. Fernandez escogita lente carrellate sulle volte floreali della chiesa, con accompagnamento del coro: sarebbe bellissimo se alcuni inserti di attacco, non distruggessero, con la loro gratuita brevità, il ritmo della sequenza.  In genere il montaggio di Fernandez tende alle clausole lunghe, ad un ritmo lento, eccessivamente analitico, in linea col ritmo sfilacciato dell'impostazione, narrativa. Donde quel senso di lentezza sciropposa, di freddezza che è caratteristico di tanti film di Fernandez e che è stato unanimemente segnalato dalla critica. In questo ritmo lento si inseriscono poi, oltre a rigonfi dialogici, anche certe preziosità figurative, certe ricerche fotografiche talvolta fini a se stesse f che raggelano ulteriormente il tono del racconto. Questo calligrafismo fotografico (la cui responsabilità è indubbiamente condivisa per buona parte da Figueroa) è forse una delle caratteristiche più appariscenti del cinema di Fernandez e su di esso la critica si particolarmente accanita, traendone tuttavia deduzioni talvolta inesatte. Si è creduto infatti da parte di alcuni che la povertà ritmica di Fernandez e la sua debolezza narrativa derivino appunto da ricerche figurative, mentre secondo noi queste ricerche non rappresentano che il momento culminante e conseguente di una particolare ispirazione, di un particolare abito narrativo, effetto e non causa.
La fotografia di Figueroa è infatti, nel suo complesso e coi suoi limiti, sostanzialmente coerente all'assunto lirico e al temperamento elegiaco di Fernandez. E' una fotografia dolce, languida a volte, che usa volentieri del filtro, ricca di toni sfumati e sfrangiati, una fotografia edonistica che si adegua naturalmente ad un ritmo rilassato di racconto e di montaggio. A nostro avviso Figueroa è però un fenomeno più modesto di quanto generalmente si crede. La sua fotografia deriva da quello standard fotografico che gli americani e francesi hanno derivato, in moneta speciale, dall`espressionismo tedesco e che tende ad effetti chiaroscurali in funzione psicologica. Su questo standard Figueroa innesta poi, conformemente al suo temperamento romantico, ricerche cromatiche, ricorrendo specialmente ad effetti di filtro e di flou; ma sostanzialmente la sua fotografia non differisce molto, come impostazione, da quella d'un Gregg Toland o, se vogliamo, d'uno Schüítan. E ne è la prova The Fugitive in cui il plasticismo di John Ford assimila con tutta naturalezza la fotografia di Figueroa, proprio perché questa fotografia costituisce la naturale conclusione di certe ricerche che Ford aveva condotto con operatori americani. Fra Long Voyage Home, fotografia di Gregg Toland, e The Fugitive, fotografia di Figueroa, non c'è che una differenza di grado, non di direzione.
L'esperienza di Figueroa - che è caratterizzata da un'assoluta mancanza di autosuperamento - si svolge quindi nell'ambito di una maniera, sia pure vivificata da un'eccezionale bravura tecnica, ed è ben lontana dall'originalità inventiva, per citare a caso, d'un Maté o d'un Aldo o, con riferimento proprio al Messico, d'un Tissé. D'altronde è proprio la sua bravura tecnica, non sempre superata in poesia, che finisce talvolta per pesare come un artificio ('l'abuso del filtro, per esempio, o del panfocus).
Anche per Figueroa, del resto, può valere quanto si è detto per Fernandez e cioè che il suo temperamento lirico gli concede scarse attitudini di racconto; cosicché certi artifici e certe forzature (per esempio certi sterili effetti di panfocus) derivano non tanto da acribia fotografica, quanto dallo sforzo di adeguarsi ad esigenze narrative che gli rimangono estranee. La fotografia di Figueroa ci sembra insomma perfettamente coerente alla regia di Fernandez e tale da smentire certe insinuazioni della critica circa un preteso influsso negativo, in senso calligrafico, di Figueroa su Fernandez. Al contrario, ci sembra che le loro personalità siano perfettamente affini: ciò spiega il loro affiatamento divenuto ormai proverbiale.
Del resto tutta l’opera di Fernandez appare, dentro i suoi limiti e le sue incoerenze pregiudiziali, improntata ad una sostanziale coerenza di tutti i suoi elementi.
Anche la recitazione è in linea. E' una recitazione, improntata ad un naturalismo lirico, che raggiunge il suo acme in certi atteggiamenti elementari, in espressioni distese di stati d'animo e che scade invece nella retorica più vieta quando tenta schemi convulsi di azione e di psicologia.
Recitazione estremamente discontinua, che passa dalla pura bellezza dei primi piani di Maria Felix in Enamorada alle insopportabili contorsioni di Dolores del Rio in Las abandonadas. A Fernandez va tuttavia riconosciuto il merito di aver saputo plasmare nell'ambiente provinciale messicano, privo di una tradizione e di un insegnamento recitativi, un nucleo di ottimi attori: Pedro Armendariz, Maria Felix, Columba Dominguez, Maria Elena Marquez. Alcuni di essi si impongono oggi anche all'estero: Pedro Arrnendariz lavora a Hollywood e Columba Dominguez a Cinecittà.
Questi, a grandi linee, i motivi tipici del cinema di Emilio Fernandez: esso ci appare come una singolare avventura sbocciata all'intersezione di civiltà contrastanti e nutrita di esigenze diverse. C’è nella
sua opera una ricerca di cultura e di tecnica tesa ad un esito di istinto e viceversa un fondo primitivo che cerca di chiarirsi e di esprimersi in termini di cultura e di eccellenza tecnica. Da quest’antinomia  costitutiva della sua personalità deriva la contaminazione che Fernandez compie fra i dati genuini della sua ispirazione lirica e la metodica corrente del racconto cinematografico.
Esperienza contrastata quindi, quella di Fernandez, che sotto una apparente facilità di canto cela uno sforzo doloroso di chiarificazione e di maturazione. Esperienza sincera, sofferta.
E' a questa sincerità soprattutto che si affidano gli elementi di una conclusione critica su Fernandez. La sua opera nasce dall'esigenza d'un clima assoluto, umano e geografico, e ci porge la suggestione d'un paesaggio mitico, l’immagine d'una evasione di cui, già prima di Fernandez, S. ,M. Eisenstein e André Breton avevano sentito il richiamo. A questo richiamo ha risposto recentemente sia pure con scarsa sincerità John Ford in The Fugitive. Si accinge ora a rispondervi anche Luis Bunuel.
Nel quadro odierno della produzione cinematografica mondiale ciò che Fernandez ci ha dato finora rimane un'affermazione latente di poesia che, per esplicarsi in pieno, attende, da una parte, una più matura coscienza del proprio temperamento e, dall'altra, una condizione produttiva più propizia ad un libero esercizio d'ispirazione.
Franco Venturini in BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 -  APRILE 1951

Nota Bibliografica
Per una bibliografia su Fernandez rimane ancora valida quella indicata per il cinema messicano da Mario Verdone in appendice al suo studio «Aspetti del cinema messicano» in «Bianco e Nero» aprile 1949. Ad essa è solo da aggiungere, ch'io sappia, la recensione di Massimo Mida su La Perla («Bianco e Nero ››, giugno 1949) e la già citata recensione di Glauco Viazzi su Enamorada, («Bianco e Nero , settembre 1949) i cui argomenti sono ripetuti anche in un altro scritto di Viazzi: «Il cinema nell'arte e nella vita messicana»  in «Ferrania» n. 7, 1949.
Tutti questi testi sono del genere da leggersi in treno. L'unico di essi che dia, sia pure sommariamente, un apporto concreto di critica è, al solito, quello di G. C. Castello («Infanzia precoce del cinema messicano» in «Cinema» n. s. n. 2, 10 novembre 1948). Dal punto di vista informativo ë interessante lo scritto di André Camp: « Apergus sur le cinéma mexicain ›› in «La Revue du cinéma» n. 15, luglio 1948. Chi volesse poi documentarsi sul clima culturale messicano in cui si è formato il cinema di Fernandez può consultare utilmente, prendendo però le dovute precauzioni, le corrispondenze dal Messico di André Bréton in «Minotaure», Parigi, annata 1939.

In apertura screenshot da The Fugitive, 1947 di John Ford

giovedì 23 gennaio 2020

cinemApollo MESSANA MCMLIII




                            

   

mercoledì 22 gennaio 2020

We love you Sophia Loren

Oh baby love
I'm in love with sophia loren
I'm in love with bridget bardot
I'm in love with the whole dumb scene
The Psychedelic Furs


Si fanno sempre più insistenti lo voci dl una svolta sentimentale nella vita di Sophia Loren. Un idillio infatti pare sia in atto fra l’attrice e il produttore Carlo Ponti.  Idillio che dovrebbe condurre i due alle nozze non appena il produttore abbia (secondo i “si dice”) ottenuto in Svizzera il divorzio dall’attuale moglie. Intanto la Loren si prepara a ripartire per l'America.
GAZZETTA DEL SUD, Venerdì 26 luglio 1957

martedì 21 gennaio 2020

Un leone a Culver City - Foolish Erich



Stroheim fa cassetta

Per rimediare al malfatto, Stroheim dovette accettare di dirigere The Merry Widow (La vedova allegra, 1925), una riduzione cinematografica della famosa operetta con Mae Murray e John Gilbert: un film di grande mestiere, nel quale tuttavia egli esercitò solo la sua intelligenza e il suo gusto stravagante. A proposito di tale film Stroheim ha dichiarato in un'intervista: Quando vidi come la censura aveva amputato il mio film Greed, in cui avevo messo tutto il mio cuore, abbandonai ogni speranza di poter creare dei film d'arte, e da allora in poi ho lavorato su ordinazione. Il mio film The Merry Widow ha dimostrato che questo genere piace molto al pubblico, ma io son ben lungi dall'esserne orgoglioso e non desidero minimamente essere identificato con le cosiddette attrazioni commerciali ... Quando mi si chiede perché faccio film del genere non mi vergogno affatto di dire la vera ragione: unicamente perché non voglio che la mia famiglia muoia di fame”. Parole amare nelle quali si sintetizza il dramma di un autentico artista: ma i quattro milioni di dollari incassati dal film fecero tirare un sospiro di sollievo ai dirigenti della Metro, che tuttavia si affrettarono a sbarazzarsi ugualmente di Stroheim, la cui prodigalità cominciava a divenire ormai proverbiale. La favola dell'impianto di campane da lui fatto installare alla Universal nella scenografia dell'albergo di Foolish Wives (e che non appariva mai nel film), era nulla in confronto alle camicie di seta cifrate dei soldati di The Merry Widow o ai diecimila dollari fatti spendere unicamente per coniare una serie di medagliette.
Se i film di Stroheim non esercitarono sulla produzione corrente una grande e palese influenza, in compenso certe sue stravaganze furono imitate da registi ansiosi di affermarsi: tipico il caso di Joseph von Sternberg, il quale agli inizi della carriera - e proprio negli studios della Metro - dopo aver fregiato il suo nome (Stern) di un "von" e di un pittoresco "berg" finale, faceva ad esempio il diavolo a quattro se mancava un bottone alla divisa di una comparsa, durante la lavorazione di Escape, (poi ricominciato da Phil Rosen e presentato nel 1926 col titolo The Exquisite Sinner); oppure osava rifiutarsi di far visionare ai dirigenti il materiale di un film con Mae Murray, The Masked Bride (1925) anche questo condotto a termine da un altro regista, Christy Cabanne, che fini anzi per fermarlo). E' l'epoca in cui von Sternberg si fa crescere un paio di baffi smisurati, indossa camicie nere, si copre le spalle con uno scialle rosso; atteggiamenti che riproducono solo esteriormente certe manie di Stroheim, e che agli occhi dell'uomo d'affari - preoccupato solo di problemi pratici e di natura economica - finisce per fare del regista una sorta di fanatico, capace di influire in maniera del tutto negativa sull'esito commerciale del prodotto. (continua)
FAUSTO MONTESANTI

CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10 NOVEMBRE 

lunedì 20 gennaio 2020

Joseph L. Mankiewicz vs Cecil B. De Mille


 LA LISTA NERA DEI “RIBELLI” DIFESA DA MANKIEWICZ
Il comitato direttivo del Guild forzato a dare le dimissioni.
Esso infatti esigeva dai soci la sottoscrizione di un arbitrario veto.

LA CONTROVERSIA sorta recentemente in seno all’associazione (Guild) dei registi cinematografici, è stata risolta con un personale successo di Joseph L. Mankiewicz, il quale, in qualità di presidente, ha ottenuto un completo accordo fra la maggioranza dei membri. In settembre, mentre Mankiewicz si trovava in Europa, l’associazione aveva decretato, sotto Ia guida di Cecil B. De Mille, un totale ostracismo ai membri che si fossero rifiutati di sottoscrivere una dichiarazione giurata conto il comunismo. Una lista nera dei "ribelli" era già stata approvata dal Consiglio direttivo, e copia delle deliberazioni inviata a Mankiewicz. Ma al suo ritorno a Hollywood, Mankiewicz iniziò la lotta per scalzare l’arbitraria presa di posizione. In violenti e drammatici dibattiti in cui Ceci! B. De Mille commise un grave errore tattico, alienandosi le simpatie degli elementi più conservatori, la tesi di Mankiewicz appoggiata da George Stevens, ha finalmente trionfato. E' stato deciso che nessun regista è obbligato a firmare una dichiarazione del genere suaccennato, a meno che il Governo federale Io esiga esplicitamente; la “lista nera" è stata eliminata, ed il Consiglio direttivo, che aveva provocato tale subbuglio, forzato a dare le dimissioni in massa. Interessante notare che la proposta di De Mille era stata in un primo tempo accettata a grande maggioranza: dopo l’intervento di Mankiewicz ed il favorevole appoggio di Stevens, tale maggioranza ha dato invece il suo pieno voto di fiducia alla seconda tesi.

A Broadway, intanto, mentre dura ancora l'eco dei successi di A Letter to Three Wives e No Way Out, la Fox ha presentato l’ultimo film Mankiewicz dall’indovinato titolo All About Eve (Tutto ciò che riguarda Eva). Il soggetto, scritto dallo stesso regista, presenta in una luce sarcastica, cinica, spesso satura di biliosità, il mondo teatrale di Broadway. L'ambizione di raggiungere l’apice di una ricca carriera di attrice spinge una giovane donna (Anne Baxter) ad avvicinare una strana figura di celebre donna (Bette Devis).



CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO III - 1950 1 DICEMBRE 
Nelle foto Gary Merrill, Bette Davis, Anne Baxter, George Sanders in All About Eve del 1950

domenica 19 gennaio 2020

Mario Mattoli


I REGISTI (senza peli sulla lingua)
MARIO MATTOLI
DI EUGENIO GIOVANNNETTI


Nelle Marche, da cui sono venuto anch'Io, ho conosciuto dei Màttoli. Pare che il nostro Mario, accennandosi come Mattòli, voglia nettarsi da un sospetto di mattia ed avvicinarsi ai gravi mattoni.
Tal sia di lui! Un po' di grave gli conviene certo oggi, a compensato la levità della prima giovinezza'. Ha diretto allora undici compagnie teatrali e ha fatto gran chiasso con gli spettacoli Za Bum. Non mi pare un gran titolo per la carriera d'un regista. E' diventato infatti qualcuno a mano a mano che s'è liberato da cotesto milanesismo grossolano ed improvvisatore.
Ed era entrato anche nel cinema per la via, meno artistica: per il portone dei soldi, come produttore. Ha' giudizio, il mio marchigiano. Laureato in giurisprudenza, ha preferito per tempo ad un gramo Azzeccagarbugli un maneggione chiassoso. Ma, anche per gli artisti, c'è una sola prudenza: la concentrazione; un solo male: la dissipazione. Ed il nostro Mattoli deve scontare oggi la sue brutalità di gioventù.
Noi marchegiani nasciamo, del resto, con la pelle dura e ci sgrossiamo a poco a poco, con lentezza ultralaboriosa. Il nostro Mario comincia, ora, come regista, a dare un po’ nel fino, dopo ott'anni ormai di professione. Tranne qualche escursione garbata verso un cinema comico-sentimentale, alla Camerini. (L’uomo che sorride), o verso un cinema dal costume brillante (Amo te sola), ha continuato per sei lunghi anni più o meno a zabumeggiare. E quando il subalpino dagli occhi di bue, Macario, ha voluto brillare nei film. è andato per istinto verso il regista zabumeggiante.
Ma Mattoli, l’ho già detto, è il marchcgiano che s'innalza e si raffina nella dura fatica. Non è l’anfibio cafone e stazionario: non è quel principe marchigiano cui, un giorno, al Circolo della Caccia, un gentiluomo romano diceva: «tu vai a Londra e fai il principe romano: tu torni a Roma e fai il lord inglese; ma più mondo giri e più marchigian ti trovo».
Mario Mattolì non è, voglio dire, l'uomo di vetro, che, se l’urti con un gomito, ti cade addosso col fracasso d’una vetrina. E', come tutti gli artisti che si ritrovano e si elevano faticosamente, duro quanto agile. Mi propongo d’esaminare con franchezza, quelli che mi paiono ancora i suoi gravi difetti come artista, ma intanto sono lieto di poter dare una gomitata, cordiale ad un uomo della mia terra, sicuro che non si frangerà.
Mario Mattoli non ha avuto, sino a ieri, una carriera facile. Ha sfacchinato intorno a piccoli film, che non avevano spiraglio alcuno per un regista di talento; quando non ha dovuto addirittura tagliare film sulla misura di Macario. In sostanza, le buone, le grandi occasioni, il Mattoli le ha avute soltanto in questi ultimissimi anni (1940-41) con due cose che l`hanno messo fortemente in vista. Su questi due film, Luce nelle tenebre e Ore nove, lezione di chimica, lo giudicheremo.
Quì, per la prima volta, il regista racconta un linguaggio personale, fluente e scintillante. C’è ancora, qua e là, del Camerini, ma non è che una reminiscenza. L'uomo ha, senza dubbio, imparato a parlare cinema ed intende dire cose proprie, in maniera propria, con un proprio accento.
Solo un difetto s'avverte, che vien dalla vecchia, abitudine d'improvvisare e superfìcializzare. Il narratore scivola brillante sulla materia e non l`approfondisce e non la domina. Pattina soltanto, arabescando appena la lucida pianura del ghiaccio. Che cosa veramente sia sotto il gelido specchio, lui non sa con precisione e, talvolta, non sospetta neppure.
Le sequenze prettamente cronistiche e descrittive, quelle cioè in cui non si tratti che di fiorire in superficie, sono quasi sempre ottime. Vedete, in Luce nelle tenebre, le due sequenze iniziali: la corsa della ragazza per i negozi e la visita dell'ingegnere in casa del clinico. Niente di più arioso, di più vero, di più fine. Il narratore sa veramente che cosa sieno cinema e ritmo. Anche l'arrivo delle due sorelle alla miniera, e la visita alle gallerie, hanno il linguaggio della più fresca e vivida realtà.
ln Ore nove, lezione di chimica c'è qualcosa di più che garbo descrittivo: c` è il tono azzeccato, il tono ambientale nelle sue infinite sfumature. Bisogna chiudere un occhio, naturalmente, e talvolta due, sulla goffaggine manierata di qualche figura (quella del papà milionario, per esempio, nel suo modo d'accomodar le cose familionarmente, come avrebbe già detto ai suoi tempi Arrigo Heine). Ma, nell’insieme, il tessuto sociale è ben sentito, tanto nelle movenze caratteristiche quanto nella discorsiva finezza.
Quelli di cui il Mattioli non s`accorge mai sono i trapassi disastrosi di tono nella sua materia: i crepacci subitanei della sua lucida superficie. Lo sceneggiatore può tendergli qualsiasi tranello: avvezzo a brillare sulla sua nitida pianura, il regista andrà dritto verso l’insidia e precipiterà, sicuro, sicurissimo di pattinare ancora sul più solido ghiaccio. Non ho mai visto una tale allucinatoria sicurezza.
E' chiaro che il nostro Mattoli dovrà avvezzarsi sempre più a scrutare lungamente o profondamente la sceneggiatura, prima d'affidarsi a lei e mettersi a pattinare. Bisogna. che avverta tutte le insidie e le elimini in tempo, prima di lanciarsi. La sceneggiatura è oggi, per lui, troppo foglio musicale, troppo composizione intangibile. Ci rimetta le mani lui e ricomponga arditamente sino all'ultimo minuto, e dia finalmente alla sua materia quell’omogeneità, quella coerenza, quella solidità, che, sino ad oggi, le sono mancate.
Il giorno in cui disporrà d’una materia perfetta, senza crepacci né buche, il Mattoli farà un’opera' d'arte, pulita come un gioiello. Per essere un perfetto artista, il nostro Mattolì deve fidarsi meno di chi lo circonda: deve affrontar direttamente la sua materia e guardarci ben dentro da solo: deve fare insomma come quel contadino marchigiano che quando, in agonia, il prete cominciò a dirgli: « non vorreste, figlio mio, regolare un po' il vostro conto col ministro di Dio?», raccolse quel po' di fiato che gli restava e rispose: «no: vojo fa' Ii conti direttamente col padrò».
Se gli ultimi due film del Mattoli avevano debolezze, eran debolezze assai più di costituzione, di sceneggiatura cioè, che di stile. Il regista aveva lasciato fare troppo ai ministri che, come avvertiva il Pascarella, non sono mai da prendere troppo alla lettera, «perché te lassano contento e cojonato».
Il lento ma sicurissimo maturare di quest’artista va seguito con attenzione e simpatia.  Il Mattoli è un osservatore realistico, pieno di forza e di finezza, quand’è in vena. In Luce nelle tenebre, ho ammirato come una piccola, gustosissima acquaforte, il suo appuntamento galante al Caffé Greco. C’era una grazia amara ed epigrammatica ad un tempo, che non mi sarei mai aspettata da un «figliuol prodigo» così zabumeggiante e così poco fatto per diventare un impressionista incisivo, un Toulouse-Lautrec. Voglio illudermi i che anche questa gomitata di paesano gli farà bene e lo farà sempre più svelto e bravo. In ogni modo, sono felicissimo d’avergliela data. Io non sono, e neppure lui, un licienciado Vidriera che tema di cadere in frantumi appena qualcuno lo tocchi.
Sapete chi era questo Vetriera? Un personaggio delle cervantesiane «novelle esemplari», che aveva la fissazione d’esser tutto di vetro e di dover quindi frantumarsi al menomo urto per via. Guai a toccarlo: dava in ismanie ed urla di terrore. Quanta gente, eh, quanti Vetriera passeggiano oggi per via, che non si devono toccare neanche con un dito! E’ forse il tempo di cominciare a capire che gli uomini che hanno un cuore nel petto ed una coscienza pulita, non hanno paura d’un urtone: e, se occorre, ve lo restituiscono allegramente.
Eugenio Giovannetti

Opere di Mario Mattoli : Tempo massimo (1934) - Amo te sola, Musica in piazza, Sette giorni all’altro mondo (1935) – La damigella di Bard, L’uomo che sorride, Questi ragazzi (1936) – Gli ultimi giorni di Pompeo, Felicita Colombo, (1937) – Nonna Felicita, L’ha fatto una signora, La dama bianca, Ai vostri ordini signora (1938) – Imputato alzatevi, Mille chilometri al minuto, Lo vedi come sei, Eravamo sette vedove (1939) – Non me lo dire, Il pirata sono io, Abbandono, Luce nelle tenebre (1940) – Ore nove, lezione di chimica (1941) – In lavoro: Viglio vivere così.  
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRA E RADIO ANNO V - N. 3  17 GENNAIO 1942 XX



La testata si riferisce al film Soltanto un bacio diretto da Giorgio C. Simonelli e interpretato da Valentina Cortese, Carlo Campanini, Otello Toso, Lauro Gazzolo (Prod. Aquila Film).

giovedì 16 gennaio 2020

Emilio "el Indio" Fernández - Flor silvestre

Un giudizio di valore sull'opera di Fernandez, oggi, non può non tener conto di questo peccato originale, di questa deviazione radicale subita dal suo lavoro. I segni autentici della sua personalità vanno perciò cercati in frammenti della sua opera, in qualche sequenza isolata (ve ne sono di bellissime) in cui egli si abbandona alla sua vena. Ecco allora in Enamorada la scena della serenata, sostenuta quasi per intero dal primo piano di Maria Felix, e nel finale la partenza notturna dell'esercito, i soldati che sfilano al rullo dei tamburi proiettando lunghe ombre sui muri delle case; ecco in Flor silvestre la fuga di Esperancia dalla casa dei banditi e l'esecuzione di Jose Luis; ecco in La perla la lotta a coltello sulla spiaggia; ecco in Maria Caldelaria le scene sul fiume, Maria che porta a vendere i fiori ed è respinta dalla folla, il funerale in barca; ecco in Rio escondido la processione per invocare la pioggia. Sono pagine purissime di cinema in cui Fernandez, momentaneamente liberato da preoccupazioni estranee esprime liberamente il suo mondo.
Egli fallisce invece quando affronta motivi di una drammaticità esteriore, elie rimangono lontani dalla sua sensibilità. Si veda per esempio l'inizio di Enamorada, la battaglia e l'ingresso in città dell'esercito rivoluzionario: tutto rimane oleografico e privo di nervi (quelle granate fumogene!). E si veda ancora in Maria Candelaria la ridicolaggine della cattiveria di Don Damiano e nel finale di La Perla, l'opprimente retorica di quel campo lungo con Pedro Armendariz in piedi sopra la rupe, dopo l’uccisione del rivale. 
Una zona marginale della sua personalità è costituita da certa verve umoristica che affiora qua e là con` accenti intrinsecamente validi (la fotografia del bambino in Las abandonadas, la scommessa dei due gauchos in Flor silvestre, l'oratore e la visita del generale in casa della fanciulla amata in Enamorada, ma che provoca sempre una frattura stilistica nel tono generale del film. Osserva giustamente G.C. Castello (1 a proposito di Enamorada, (in cui questa verve umoristica è forse più scoperta) che il racconto oscilla fra il dramma e il vaudeville. Anche indipendentemente da queste apparizioni umoristiche è però raro che  Fernandez sappia conservare un tono unitario di racconto. (continua)
(1) G. C. Castello: «Infanzia precoce del cinema messicano», in si «Cinema ›› n. s. n. 2, Milano, 10 novembre 1948.

Franco Venturini in BIANCO E NERO ANNO XII – N. 4 -  APRILE 1951