lunedì 19 ottobre 2015

Dr Paul Fejos

Per rendersi conto a che punto fosse arrivato il cinema muto prima dell’avvento sonoro, basta assistere alla visione di due film realizzati da Pal, Fejos sul finire degli anni 20 del secolo passato. Nei loro confronti Nanni Moretti si rivela un ciarlatano, Martin Scorsese un razziatore di idee altrui e Wim Wenders un pallone aerostatico. In Lonesome ( Primo amore) del 1928 e The last performance del 1927  Pal Fejos porta le tecniche di ripresa e montaggio e con esse del linguaggio filmico ad una svolta che ancora oggi sbalordisce. Di più, queste possono essere considerate come opere di un regista cinéphile, prima di Godard, amante dell’espressionismo tedesco o del cinema americano anche per come conduce gli attori davanti l’obiettivo: in Lonesome americani, in Last Performance Conrad Veidt . Poco soddisfatto dell’America Pal Fejos rientrò in Europa e ancora più insoddisfatto del cinema si dedicò con successo all’antropologia lasciando a noi la sua fama di mago dello sguardo.


domenica 18 ottobre 2015

Gangster e co.

3
Frattanto, depressione e << New Deal >› aiutando, il mito del «gangster» s'era sgonfiato come, troppo cincischiato da vogliose mani infantili, si affloscia il palloncino di un bimbo. Occasionale ma rivelatrice ironia, il capo dei << G. Men», Hoover, aveva lo stesso cognome dello sfortunato presidente che aveva promesso la prosperità << all'angolo della strada ›>. Accadevano cose incredibili nella democrazia prima devota al << laissez aller >› e alla libera iniziativa. Il periodo si saldava con gli speculatori rovinati che si gettavano dall'alto dei grattacieli e con il << Brain Trust >› rooseveltiano che, dopo aver abolito la proibizione, prima origine del gangsterismo, si preparava all'iniziativa << sociale >> della << Tennessee Valley >>. Nell'euforia dei primi anni del regime di Franklin and Eleanor l’aquila degli indefessi <<newdealers >> fu pure l'emblema protettivo dei film di Hollywood; cinematografie celebrative degli uomini di Hoover fiorirono l'una dopo l'altra: G. Men di Keighley (La pattuglia dei senza paura, 1935), e Public Hero No. I di Ruben (Missione eroica, 1935). G. Men è più importante di Public Hero No. I per la superiore densità dell'azione e per la mancanza di trappole sentimentali; mentre Public Hero No. I vince il rivale per una sorta di dilatazione dell'assunto - la lotta contro i banditi in pro di una superiore dimensione cornelliana che tocca, oltre la vicenda << périssable ››,  conflitti d’anime antichi come l'uomo. E valga il vero. Mentre in G. Men è la lotta dell'uomo della legge contro i banditi, con la piccola complicazione di Ann Dvorak, venuta difilato da Scarface, dove figurava come sorella di Paul Muni e fidanzata di George Raft, in Public Hero No. I sentimenti eterni come la Donna e l'Onore erano il perno del racconto. Conflitto col Dovere, risolto nello stupendo episodio del capo dei G. Men che ricorda al subordinato incerto il giuramento prestato, e conflitto sentimentale (tipicamente cornelliano!) quando Chester Morris s'accorge che Jean Arthur è sorella del fuorilegge Calleja. È caratteristico, per aver la riprova del diverso peso psicologico dei due film, che, dopo tanti anni, e anche qui, ahimè!, senza rilettura, la memoria indugi, compiaciuta e appagata, sulla battaglia finale per G. Men e su episodi come l”atrio dell'albergo durante l’alluvione in Public Hero No. I. L’anno dopo con The Petrified Forest (La ƒoresta pietrificata) e, ancora più decisamente, nel 1937, con Dead End (Strada sbarrata) il genere << gangster ›› finiva gloriosamente nelle mani di Archie Mayo e di Wyler. Dietro non c”era più la divina inconsapevolezza della cronaca ma l’abilità mercenaria dei teatranti di Broadway, più usi al crepitare degli applausi che a quello delle pallottole. Le spericolate, facinorose redazioni di Chicago erano state sostituite dalla falsa semplicità dei bar e del Greenwich Village. L'eroe delle nuove storie è Bogart, che si appoggia ai versi di Villon recitati con intellettuale estenuatezza da Leslie Howard e alla scaltrezza istrionica di Bette Davis, cui tutto fa brodo per far le scarpe a Greta << divina >>. Come lo stupefacente impianto di Dead End non riuscirà a farci dimenticare lo scipito idillio di McCrea, i fondali dipinti, e la fissità « aristotelica ›> dell'azione, del tempo e del luogo. Figlio della cronaca, il film << gangster» era stato adottato dagli intellettuali, pronti a rivestirlo di panni accademici e ad introdurlo, tutto ravviatino, nei salotti. Dopo aver suonato lugubre a Roncisvalle ed elegiaco sui colli di Scandiano, il corno di Rolando si apprestava a incontrare l'approvazione dei cardinali ferraresi. L’<< arte >› vinceva lo slancio vitale, le ottave di messer Ludovico facevano obliare la canzone di
gesta.
                                                                                                                                       1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema


giovedì 15 ottobre 2015

Gangster e co

 2
Prima della reazione << virtuosa >> e dell’idealizzazione del G. Men ha luogo l’apparizione del capolavoro: Scarface (1932) di Howard Hawks. La materia, grezza ed informe, si nobilita in una rappresentazione affatto scevra di compiacenze estetizzanti o di mire didascaliche. L'unità artistica è data dallo stile che ricorda i precetti stendhaliani circa l’efficacia della lingua del Codice civile. Scarface è nella memoria di tutti perché è arrivato da noi nel dopoguerra; ma la schematicità e l”enfasi della stesura fotografica hanno aggiunto, almeno per me, incanto ad incanto. `
Così come s’è potuto dire con cognizione di causa che la fotografia della piccola martire di Primavalle, con quegli occhi spalancati e la sciarpettina attorno al collo, << exploit ›› di un fotografo di periferia, può ricordare un Matisse. Mentre, in un adeguato ritorno cinematografico, i vecchi cronisti romani parlarono di << giglio infranto ››. Senza esitazione, metterei invece da parte City Streets (Le vie della città, 1931), di Mamoulian, non senza la debita reverenza al talento, alquanto facinoroso e bluflistico, dell'armeno: per la nostra ricerca, apporto per nulla genuino. Mentre nella stessa direzione, e quasi per le stesse ragioni, è da scartare risolutamente l’intelligente Ford di The Whole Town’s Talking (Tutta la città ne parla, 1935). Con Scarface, ma a un gradino più sotto, sono invece da registrare in quegli anni The Beast of the City (Il nemico pubblico No. 1, 1932), e The Story of Temple Drake (Perdizione, 1933) i cui autori, Charles Brabin e Stephen Roberts, ebbero comune il breve  destino. The Beast oƒ the City racconta un caso piuttosto romanzesco. Il capo della polizia in una certa città ha per fratello il responsabile di un commissariato. Di carattere debole costui (Wallace Ford) è irretito da una ragazza (Jean Harlow), affiliata a una << gang >>. A un certo punto il giovanotto traviato si ravvede; il capo della polizia (Walter Huston) affronta i banditi riuniti a banchetto; il capo della << gang» si fa scudo del poliziotto tarato, che incita il fratello ad aprire il fuoco. Nella sparatoria muoiono i due fratelli e la mala femmina, colpita a morte mentre fugge su una scala. Nel film Jean Harlow, ancora acerba, aveva scarso peso. Non c'era alcuna ricerca formalistica o psicologica. Si trattava di una nuda narrazione di fatti, resi pregnanti dalla speditezza del montaggio, da una quantità di particolari di suggestione immediata e dalla spontaneità degli interpreti. Tutt’altre ambizioni in The Story oƒ Temple Drake. Il successo del romanzo di Faulkner (uscito nel '31, ma scritto in precedenza), da cui la pellicola era ispirata, << Sanctuary», era soprattutto di scandalo; pochi avevano saputo intravedere, oltre la scorza, il significato rivoluzionario della << Weltanschauung ›› faulkneriana; è logico che, cadendo nelle fauci hollywoodiane, la storia del gangster Popey si edulcorasse, sfumando farisaicamente i troppo rilevati contorni. Si fecero dunque necessari << adattamenti >›; ma Roberts era un artista, e qualcosa restò. A suo tempo io dubitai forte che la scelta di Miriam Hopkins, attrice troppo caratterizzata e intellettuale, per la parte di Temple, fosse felice, né so risolvermi a cambiare idea malgrado la mancanza - et pour cause! - di una << rilettura ›> del testo; ma è certo che la scelta di Jack La Rue come Popey risultò indicibilmente felice. E certi allucinati interni (il bordello di Memphis) non facevano affatto rimpiangere la mancanza della troppo celebre pannocchia di granoturco.
                                                                                                                  1950
Pietro BianchiMaestri del cinema

mercoledì 14 ottobre 2015

Gangster e co.

1
Per  gli intellettuali europei chiusi tra Proust e Joyce nella breve pace tra le due guerre mondiale, il messaggio di Hollywood ha avuto soprattutto un significato di energia: Fazione contrapposta alle conversazioni di caffè, il pericolo che annulla la pacifica vita borghese, i sentimenti esposti
nella loro nudità primitiva, così lontani dalle supreme analisi del parigino- e dell'irlandese. Per codesti intellettuali il cinema americano era dunque una grande risorsa, ma non una risorsa indiscriminata; era necessaria una scelta. La scelta fu il << gangster >>. Prima, c'eran state tre false piste: il << cow-boy >› stava esaurendosi. Gli intellettuali sapevano già che la << vera >› America non era Hollywood, troppo snob, né Nuova York, troppo cosmopolita; sapevano, attraverso Carl Sandburg e Sherwood Anderson, Armstrong e Bessie Smith, che Chicago è la vera capitale degli Stati Uniti. L'occasione a un rapido riepilogo del film <<gangster ›> può essere forse offerta da una testimonianza minore, quel film di Curtiz che si chiama Angels with Dirty Faces (Gli angeli con la faccia sporca, 1938). La pellicola di Curtiz, salvo qualche episodio della prima parte, offre sbiadite immagini di una realtà incondita, ma rappresenta la chiusura di un <<genere ›>, e per questo è importante. Nella selva ardente delle origini (a non voler tener conto dei <<primitivi ›> degli anni precedenti la guerra del '14) mi è caro il ricordo di quel negletto capolavoro, che in italiano si chiamò La volpe argentata, e nel quale è forse da ricordare, attraverso buone congetture, una Girl from Chicago che cade negli anni della presentazione italiana. La volpe è, con tutta probabilità, del '27, come dello stesso anno è il primo celebre archetipo Underworld di Josef von Sternberg (Les nuits de Chicago nell`edizione francese; in Italia non venne, forse per ragioni di censura; come non venne The Little Caesar di Mervyn Le Roy, del '30). Per La volpe e per Underworld erano a ogni modo gli anni dell'abbondanza: erano lontani la crisi di Wall-Street e Hitler; Mussolini non era << articolo da esportazione>› e Stalin non era ancora << interessante >>. Tutto era liscio e tranquillo e la Madame Bovary che sonnecchia nel cuore di ognuno non fece nessuna fatica a scoprire nel << gangster ›› ciò che la patetica Emma scoprì nello << hobereau >› di provincia e, ricadendovi, in << monsieur Léon >>. La gente riconosce l’emblema del nuovo << gusto ›› nella canna corta del mitra come si riconoscerà più tardi nelle gambe di Marlene.
                                                                                                  1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema

lunedì 12 ottobre 2015

domenica 11 ottobre 2015

Il mondo di Apu


Riportami al tuo grembo, Madre Terra,
Riprendi il tuo figlio e accoglilo nella tua ampia tunica!
Che sia uno col suolo e che mi distenda
che mi apra totalmente, come le messi della primavera,
che prorompa dalla stretta cella del mio petto,
e che abbatta le pareti della gabbia della mente,
e che fluisca nella totale delizia
fino ai confini estremi della terra
innalzandomi e fluttuando !

Apurba Kuman Ray

in Satyajit Ray, Il mondo di Apu (Apur Sansar), 1959

giovedì 1 ottobre 2015

Ancora fuori sala


Il cinema Metropol in via Garibaldi