Vi sono fatti, in Rashomon*, che forse noi non comprendiamo interamente, e prima di tutto la serie di tremendi duelli che arrivano al sadismo. Si tratta del motivo più comune della drammatica giapponese, con una terribilità che noi possiamo rintracciare nelle loro antiche stampe, di cui possiamo stupire per la furia e la crudele maestria fino a quando non sentiamo di aver raggiunto il limite della sopportazione, ma di cui non abbiamo il gusto. La nostra vera adesione va a molti atteggiamenti degli attori, della più alta facoltà d'espressione, d'una scuola quasi rituale, in questo dramma i cui bagliori di tragedia classica, d'una originale autenticità che fa violenza a molte convenzioni cinematografiche, si mescolano a elementi che ci sembrano più spuri, quasi dialettali e convenzionali.
Ma forse ci resterebbe da capire il rapporto che esiste tra questa vicenda e la situazione attuale del popolo giapponese, le allusioni a uno stato d'animo di questo dopoguerra. Ce ne sfugge la simbologia precisa, sebbene con un gioco di pazienza potremmo illuderci di ritrovarne il filo. Comunque, questo è il racconto di un'indicibile sofferenza, e la testimonianza d'un crollo di non pochi valori della vita.
CORRADO ALVARO, «Il Mondo», 8 marzo 1952
Akira Kurosawa, Rashomon (羅生門), 1950
*La porta nelle mura difensive