domenica 11 giugno 2017

Sulla parete trasparente

Il cinema ha dato all’uomo un senso nuovo: di agire come in una finzione e di vedersi agire. (Corrado Alvaro)

La città aperta e bassa aveva un cinema, un giardinetto dove si ballava l’estate, e nei mesi caldi la vita dei
villeggianti.  … I film che avevano maggior successo erano quelli della vita facile spensierata, libera e ardita, la vita delle città. Nella sala bassa e lunga che odorava di stalla si apriva un’altra dimensione, viveva un altro mondo, e pareva che si fosse aperto un quartiere misterioso in qualche luogo della città piatta. Là tutto era facile, senza drammi. I personaggi diventavano gente vera su cui circolavano malignità. Erano presenti dappertutto, non si sa come formavano un mondo ideale, una vicenda quotidiana che amplificava enormemente la città aperta e distesa, la rendeva avventurosa. Con un poco di pazienza si sarebbero scoperti quei personaggi in qualche luogo, si sarebbe imbattuti in essi a un angolo della strada. Quei personaggi erano gli stessi abitanti della città. Leoni non si accorgeva, per esempio, che uno di questi era sua moglie Teresa.
Ella lo era divenuta all’improvviso, senza accorgersene.
La stanza chiusa, i mobili che rivelavano una vita agiata ma distaccata da tutto e quella donna che per la prima volta manifestava un pensiero di opposizione con quelli di lui, gli davano uno sgomento indefinibile. Si ricordò della sala lunga e bassa, con l'odor di stalla, dove era il cinematografo: il suono corrente che se ne sprigionava ad avvicinarsi, le voci che rimbombavano nella stretta cabina aperta in cui si trovava l’operatore, voci che parevano di litigio; e poi entrare nella sala, le ombre di quelle immagini sulla parete divenuta trasparente, la facilità con cui evadevano da una dimensione all'altra, le loro voci gutturali e
gelose, trepide e piene di una gioia incontenibile, i loro passi un poco barcollanti in quel mondo spettrale, in cui sono i sogni degli alberi, dei fiori, dei bicchieri urtati nei brindisi, dei vetri tersi, dei visi tersi, tutto d’una
materia che ricordava la gomma e l’alluminio, il vetro e la bachelite, tutto, anche gli alberi.
“Vogliamo andare al cinema” disse Leoni, come se promettesse una felicità facile e pronta.  
Mentre ella si vestiva nella stanza accanto, gli pareva che la luce fosse divenuta piú limpida, ed egli vedeva ora tutto con altri occhi, quasi facesse parte di quelle scene irreali che tra poco nella sala lunga si sarebbero aperte ai loro occhi, in una specie di sogno lacustre.
In quei giorni il giovane Tommasi che veniva dagli studi fu accolto come praticante dall’avvocato Leoni.
 “Andiamo al cinema insieme una sera” disse Teresa
Adiamo fuori in campagna un giorno. Prendiamo una macchina e scendiamo in aperta campagna si trova una casa isolata. Si colgono ciliegie da un albero, e si mangiano. Facciamo un po' di cucina sul focolare. Si mette a piovere. La pioggia cola dietro i vetri. Circonda tutto e isola ogni cosa. Si. sta a guardare dietro i vetri,”seguitava Teresa, come se raccontasse una favola. Il battito del motore, e poi lo scroscio della pioggia, avevano lo stesso senso del ritmo della macchina del cinema che scandisce ogni movimento dei personaggi.
Immaginava tutto lieve, trasparente, immateriale. Era una specie di malattia che la divorava. Non voleva mangiare  nulla di quello che le era sempre piaciuto; non le piaceva neppure la sua immagine quando si guardava nello specchio. Si sentiva diventare un'altra: precisamente un personaggio del cinema.
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“E’ molto semplice, “ ella disse il giorno dopo; “mi potrei vestire da uomo mentre il Leoni sta fuori di casa; esce alle nove e torna a mezzanotte o all’una. Ci sono almeno tre ore. Potrei vestirmi con un abito di lui. Nessuno lo potrebbe immaginare.”
 Queste cose le nascevano nella mente con una fertilità incredibile, ed era stupita lei stessa della propria fantasia.
“E allora?" ella insistette, con lo stesso fastidio di quando al cinema si rompeva un film e la luce inondava di colpo la sala, e quel mondo fantastico dileguava come una bolla di sapone. "Allora?”
Non e questione, disse Teresa ostinatamente. Veramente, non ci avevo pensato, prima, che potevo vestirmi da uomo. Stasera verrò di sicuro." Ella parlava come se inventasse un dramma, e come se recitasse. Inventava senza fatica, e ci credeva. Inventava perché voleva vedere quell'uomo interamente posseduto da quella fantasia, e non avrebbe smesso fino a quando non lo avesse dominato del tutto. Viveva in un altro mondo, e tutto il suo viso si trasformava.
Teresa ne fu entusiasta.
Mentre pensava a queste cose, sentiva il sangue che le batteva alle tempie, col suono delle trombe e dei violini che al cinema incalzano chi sta prendendo una grave deliberazione. Questo le dava una voluttà angosciosa. Si trovò davanti allo specchio vestita da uomo, con un abito smesso che aveva trovato in un armadio. Si trovò come travestita per scendere in una miniera. Si cacciò un berretto- in testa fino agli occhi. Voltandosi vedeva la curva dei suoi fianchi delineata sotto la giacca, per quanto la giacca fosse larga. Si ritrovò nello specchio col viso convulso di chi si sente precipitare.
Anzi, dapprincipio aveva, almeno per Teresa, qualcosa di nuovo di facilmente riparabile, come se non fosse lei a quel posto, ma ella recitasse soltanto una parte. Il costume che indossava l’aiutava a sentirsi una forestiera. E non diceva le parole che pensava, ma altre parole, carpite in un’altra vita fantastica; le parve di parlare ad altri e non a suo marito. Un senso di film l’accompagnava di continuo, in questo momento i violini e le trombe tacevano dopo averla assordata per tutta la sera, e le parole cadevano liquide come nella dimensione trasparente della parete del cinema
 …
Che cosa e stata la mia vita? … Che sapevo io? Era stupita che tutto fosse accaduto con tanta rapidità e in un modo irrimediabile. Di nuovo l’immagine dei film si ripresentò alla sua mente: porte si aprono e si chiudono; gente appare, e muta il destino d’altra gente; vapori navigano con la felicità a bordo; chi parte per sempre e chi si riunisce per sempre ad altri.
Teresa si mise a piangere silenziosamente …  “Menzogna, menzogna." Ma non sapeva bene a che cosa dicesse “menzogna”, se alla vita passata o a quella che aveva veduto sulla parete trasparente del cinema. Ora piangeva in un deserto.
"Menzogna, menzogna," disse. I violini del film non suonavano più; a un tratto tutta l”orchestra immagina-
ria cominciò a vibrare cupamente seguendo l’agitazione del suo sangue.

*****

Questo ampia selezione proviene dal racconto “I nemici” di Corrado Alvaro racchiuso ne La Moglie e i 40 racconti (Bompiani, 1963), che raccoglie lavori (anche inediti) pubblicati tra il 1930 e il 1955 su riviste o quotidiani con cui lo scrittore collaborava.
“I nemici” è tra i meno noti presso i lettori e la critica vi ha dato poco conto. Non è così che lo si è letto e riletto.
Certamente il periodo di composizione appartiene a quello di un articolo, Come al cinematografo del 1937, apparso su La Lettura mensile del Corriere della Sera.
Nel momento che videro la luce le due opere alvariane la cinematografia di tutto il mondo era ancora nella sua fase adolescenziale; la tesi che nell’articolo si teorizzava è il tema di fondo del racconto: il cinema come fatto sociale e gli effetti che esso produce sugli spettatori, molto spesso un’identificazione con i personaggi che agiscono su una “parete trasparente”. Comportarsi nella vita reale come contagiati da eroine ed eroi dello schermo, ingaggiati a modelli.


mercoledì 7 giugno 2017

Palpiti, fremiti, lampi, dedizioni


LA DANZATRICE ROSSA
con Dolores Del Rio e Charles Farrell
messo in scena da Raoul Walsh

Dall’uno all’altro mare, da Polo all’Equatore il ritmo è sempre uguale: amore, amore, amore!!!

Questo potente dramma che rievoca |'amore ardente di una umile fanciulla del popolo per un principe del sangue, ed è da questi riamata con pari intensità, è senza dubbio una trama che è stata svolta in molti campi dell’arte, ma certamente mai prima di oggi era stata riprodotta sullo schermo una storia d’amore dall’intreccio così potente e dall’interpretazione così splendidamente realistica.
 Il concetto poetico del fiore che innalza il suo profumo verso il sole che gli dà la vita è il concetto che si è prestato innumerevoli volte per l’interpretazione di un dramma, per la la composizione di un’opera poetica o per la realizzazione di un quadro d'arte.
Questa volta il cervello prodigioso di Raoul Walsh, il celebre direttore americano, si è servito di un tenue motivo per creare una delle più belle cinematografie che siano state eseguite in questi ultimi tempi
La celta degli interpreti del dramma, pone di per se stessa la marca del successo a questo capolavoro.
Dolores Del Rio, la grande e inarrivabile attrice, ha saputo dare all’eroina del dramma tutto il fascino della sua squisita sensibilità artistica, ha dato ad essa palpiti di vita vera, fremiti di passione, lampi cupi di odio e dedizioni di amore sconfinato. Si può dire senza tema di esagerare che nessuna interpretazione di questa grande attrice ha raggiunto i vertici del sublime come la Del Rio ha saputo raggiungere in questa parte e il suo compagno, l’uomo per Il quale essa si sacrifica, per il quale vibra e  al quale si dona, è Charles Farrell, il giovine attore che in breve tempo ha saputo conquistare il favore e  il plauso dei pubblici di tutto il mondo.
In questo poderoso dramma Charles Farrel interpreta per la prima volta un personaggio dalla personalità completamente differente da tutte le sue altre precedenti interpretazioni; nella brillante divisa di ufficiale
della guardia imperiale russa, egli incarna il tipo leggendario dell’eroe creato dalla fantasia dei romanzieri e dagli artisti di ogni epoca.
E le scene da lui eseguite insieme alla Dolores Del Rio, sono svolte con tale naturalezza da far veramente pensare di assistere a un dramma di vita vissuta anziché a una trama cinematografica.
Ad aggiungere poi maggior bellezza alla trama e all’interpretazione si prestano gli scenari originalmente preparati per l’ambiente fastoso in cui si svolge il film e gli splendidi paesaggi che servono di sfondo naturale all’azione drammatica.
Molti elogi sono stati fatti dalla stampa nei paesi in cui il film è stato rappresentato in questi giorni, ma per quanto di esso si possa dire, nulla potrà eguagliare la vera bellezza e il godimento estetico che dà la visione di questo autentico gioiello della cinematografia. 

BOLLETTINO FOX FILM, 1929 n. 3

domenica 4 giugno 2017

GINA -Teresa Raquin - MANES

Gina Manès
1893 - 1989



Si è rivelata, imposta al pubblico internazionale incarnando la zooliana Teresa Raquin nel film omonimo di Jacques Feyder, dopo aver tentato inutilmente di imporsi attraverso altre films che precedettero questa e nelle quali la sua intelligenza di interprete, l’eccellenza della sua recitazione non si può dire non emergessero.
Ma il pubblico, il grande pubblico internazionale, per accorgersi, per rilevare che Gina Manés era attrice che non doveva essere confusa con tante altre sue mediocri colleghe aveva bisogno di vederla in una produzione che si staccasse dalle normali, che si imponesse su le altre e per concezione e per espressione cinematografica, ed ha atteso Teresa Raquin.
Ma per i critici, per i giornalisti cinematografici e per la ristretta cerchia di un pubblico intelligente e osservatore, Gina Manés con Teresa Raquin non è stata una rivelazione, ma bensì l‘attrice le di cui qualità erano già note e che in questo film non faceva che affermarle definitivamente.
Gina Manés. Un‘attrice di polso, una interprete coscienziosa, di fine intuito, di temperamento eccezionale.
Chi, come noi, l’ha seguita passo passo nella sua carriera, può dire che il suo valore è grande e reale, e che ben prima di oggi avrebbe meritato di essere riconosciuta una grande attrice dal pubblico che oggi l’ammira, l’applaude.
Ma forse non é da rimproverarsi tanto, questo pubblico che fino a ieri ha misconosciuto il talento di Gina Manés. Perché, a parte il fatto ch’ella non fu mai prescelta come interprete di produzioni che potessero attirare una soverchia attenzione, ella fu utilizzala in tutti i ruoli tranne che in quello che avrebbe corrisposto al suo temperamento e al suo tipo: di “vamp” e più che questo ancora, di “tragica”.
Gina Manés si dice essere nata in Parigi nell‘aprile 1897. Nel 1915 fece la sua comparsa al “Music-hall” come “girl” nelle Riviste, e qualche anno più tardi passò al Cinematografo. ll compianto Louis Fuillade la fece debuttare sotto la sua direzione in L'homme sans visage,mettendola a fianco di René Cresté, il popolarissimo “Judex” morto ciuque o sei anni fa, e da allora si puo dire che per lo schermo ha continuato a lavorare ininterrottamente. La vedemmo in Tue la mort, nel ruolo di “La Chiffa » a fianco di René Navarre - Secrét d‘Altarocca - Le sept de Tréfle - La Dame de Montsoreau, nel ruolo di M.ne de S. Luc - L‘Auberge Rouge, di Jean Epstein, nel ruolo della figlia dell’albergatore – Coeur fidéle, un altro film di quell’intelligente “metteur en scéne” che é l‘Epstein - Le soleil de Minuit, con Armand Tallier e Georges Charlia – La nuit rouge, di de Marsan e Gleize - La main qui tue, di de Marsau - Cavalier de Minuit - Les fevuilles tombent - Naples au baisér de feu - Sabbie, di Kirsanof nel ruolo di una mamma -Teresa Raquin, del quale fu interprete magnifica - Il cerchio della morte, con la Jugo - Train Sans jeux, di Cavalcanti – S.O.S, di Carmine Gallone - lvresse girato in lsvezia con Lars Hanson - Nuits de Princes, di L‘Herbier - Quartiere Latino, di Genina, Le Requin, un grande film sonoro e parlante dovuto a Henry Chomette.
Abbiamo detto che il temperamento di questa attrice e il suo tipo, la vogliono “vamp” o meglio ancora attrice “tragica”. In Teresa Raquin, Gina Manés fu un pò l‘una e un po’ l’altra, ed infatti ha dovuto a questa sua interpretazione la sua rivelazione.
Dopo Teresa Raquin i produttori che la utilizzarono la vollero esclusivamente “vamp” (Cerchio della morte - Quartiere Latino, ecc), la solita, la classica “vamp”. Ma se questo ruolo ha nella Manés una interprete ideale, non può essere quello che le offra la possibilità di utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione. “Donna fatale” sta bene, ma non la “donna fatale” del solito “cliché”, voluto, creato per essere posta di fronte all'ancor più solita “ingenua”; perché questo é un ruolo convenzionale e che convince fino a un certo punto. Ma “vamp”dovrebbe essere la Manés invece, se la “vamp” ci si decidesse a renderla un personaggio più umano e che si avvicinasse alla “drammatica” alla “tragica” Teresa Raquin.
Gina Manés, profilo duro, occhi chiari dallo sguardo tagliente, bocca sttile dal sorriso che turba, mani sensuali, corpo felino, non può essere la solita “vamp” che gli schermi americani ci hanno mostrata confezionata su false misure, ma qualche cosa di più umano, di più sentito.
In Teresa Raquin ci ha mostrato quale deve essere il suo ruolo; ce Io riconfermerà nel film drammatico Le Requin.
Speriamo che in seguito, di conseguenza, di una intelligenza viva, di un ingenuo reale come quello della Manés, i produttori sappiano far giusto uso.
Perché dalla Manés ci aspettiamo interpretazioni di grande rilievo che non potrà darci se non sarà posta in grado di trovarsi nel suo ruolo.
FRAN.

CineSorriso Illustrato, Anno VI N. 15, 13 aprile 1930 (VIII)







mercoledì 24 maggio 2017

Il "Barbaro", il Cile e l'"Orientale" a Camaro


Torna il Circolo del cinema « U. Barbaro »
Spazi culturali nuovi

Finalmente una nota positiva nello stanco panorama cinematografico e culturale messinese: il 1978 segna la ripresa di attività del circolo di cultura cinematografica «Umberto Barbaro». Nonostante ii circolo, intitolato al grande teorico (siciliano e marxista) del linguaggio cinematografico, non abbia funzionato per alcuni anni, in tutti gli ex-soci era sempre rimasta la speranza di rivederlo. Il «Barbaro» si eri infatti subito
messo in evidenza per le sue rigorose e puntuali scelte politiche ed artistiche, che avevano fatto sì che in una stagione si mancò di poco la cifra clamorosa di tremila soci. Purtroppo dopo quella eccezionale stagione, non si e saputo ripetere lo stesso successo, anzi è seguito un pauroso declino.
Ma c'è stato anche il coraggio di analizzare decisamente le ragioni del fallimento e trarne le dovute conseguenze. Ecco che quindi il circolo si presenta con un gruppo responsabile completamente rinnovato e deciso a non farsi scoraggiare da ostacoli di sorta. Una delle maggiori difficoltà del «Barbaro» e stata quella di non poter disporre di una sede propria, ma l'ostacolo quest'anno è stato aggirato. Le sale del centro ormai si sono trasformate tutte in prime visioni e chiedono cifre esorbitanti per l`affitto (anche se nei giorni feriali godono di poche decine di spettatori), quindi la scelta è dovuta cadere su una sala periferica, nella convinzione che la maturità dei cittadini saprà comprenderne la necessità. E' anzi questo uno degli aspetti più interessanti del sesto anno di attività dell'«Umberto Barbaro», avere il coraggio di programmare il ciclo al cinema «Orientale» di Camaro Inferiore. Per altro dobbiamo dire che la sala, come struttura e collocazione, e più che dignitosa e di conseguenza debbono essere superati molti luoghi comuni. Non e giusto sfruttare solo le strutture esistenti nel centro urbano, emarginando con sdegno quelle periferiche (oltre tutto la zona di Camaro ormai è perfettamente inserita nel nucleo urbano). E' un discorso che si ricollega a quello più vasto della riappropriazione degli «spazi» culturali, che abbiamo fatto già altre volte e che molti, a parole, condividono. Ecco un'occasione per dimostrare fattivamente la propria volontà concreta: è una sfida a certa mentalità che deve essere vinta.
Passiamo ad un esame del programma. Si inizia il 18 gennaio col primo di quattro film dedicati alla lotta che il Cile sta conducendo per la propria liberazione. Si vuole sottolineare come sia sbagliato l’atteggiamento di molti di occuparsi intensamente per un certo periodo di un problema e poi lasciarlo perdere, completamente irrisolto. La vicenda del Cile è un esempio classico: dopo anni di slogan, Inti Illimani, ecc., adesso quasi non se ne parla più mentre i Cileni continuano a languire in piena dittatura. E' opportuno quindi proporre i film di Miguel Littin, grande regista cileno in esilio, di cui alcuni avranno già visto la «Tierra prometida», mentre l'ottimo «Actas de Marusia›› (col nostro Gian Maria Volontè) ed «El chacal de Nahueltoro›› sono in prima visione. Conclude il ciclo sul Cile un formidabile documentario sulla repressione in quel paese girato da Tedeschi dell’Est.
IL SOLDO 15 gennaio 1978


lunedì 22 maggio 2017

aLaMaR








Qualcosa di più di un documentario d’autore. Il rapporto uomo natura che attraversa le relazioni affettive ratificate dal noise di una efficace presa diretta fino a renderla un ulteriore corpo emotivo.


domenica 21 maggio 2017

Калина красная



 Viburno rosso

In uno dei suoi abbottonatissimi interventi Sergéj Geràsimov, gran cencertatore del cinema sovietico, esprimeva le perplessità ufficiali di fronte a questa estrema “insolenza"'di Shukshin che osava insinuare che nell'Unione sovietica possono anche non riuscire gIi sforzi tesi a ‘redimere’ un ladro recidivo: “Quale motivo c'è di collocare al centro di un film cosi ricco di talento il destino di un criminale, di un delinquente? Come ha quest’uomo il diritto di entrare nella coscienza e nel cuore degli spettatori, di conquistare la loro attenzione e attraverso di essa anche la loro simpatia? » [Nicole Zand, Le message ambigu de Vassili Choukchine, in Le monde, 2.5.1974].
E‘ destino (e remora) di ogni agiografia di squadernane modelli edificanti in tutto e per tutto politi, tirati a lucido da ogni imperfezione. La pia fraus può essere giustificata con motivazioni “edificatorie” nelle società strette e giovani, come un soprassalto di devozione. Ma i suoi modem sono implausibili fuori di essa. E anche dentro di essa, appena passa il memento delle emergenze parenetiche e quando il tempo abbia fatto giustizia delle amplificazioni acclamatorie.
L'implausibilità ha piedi d’argilla e contraddice I’estetico. E’ appena una forma edulcorata di menzogna. E la menzogna può anche esser necessaria in certi casi; ma se diventa regola finisce con lo smentire se stessa. Ecco che Ia mistificazione zdanoviana del realismo ritorna petulante nei dubbi ‘ortodossi’di Geràsimov, col quel tacito richiamo alla tendenziosità delI'arte, la quale dovrebbe essere coedificativa nella realizzazione piena della società socialista. Ma il deontologismo unidirezionale e assordato dell'estetica ufficiale viene esorcizzato da Shukshin anche in Kalina krasnaja, che é stato definito il suo film-testamento.
II precetto di Vissérion Grigierévic Belinskij, per il quale Ia funzione poetica sta non già neIl'esornare la realtà ma nel coglierla cosi com’é, resta uno dei capisaldi della poesia di Shukshin. E qui anzi si vena di un patetismo che chiameremmo ambiguo se si ignorasse che Shukshin respira, in questo film, la morte: ma come nascita al definitivo.
L'accorata malinconia non é qui fine a se stessa ma vestibolo per quell'appello alla coscienza individuale che é costante ossessione di Shukshin, indice di autentica umanità,in Kalina krasnaia la ripulsa ad un facile happy-end consolatorio va oltre il rifiuto dell'aggiustamento confortatorio e filisteo. Presentando il suo film, Vasilij Makàrovic ha detto espressamente di diffidare di ogni happy-end ‘da copione’.
Che é inevitabile - e non parliamo qui della domanda della platea - quando I'autore condolendosi con tutta l'anima per il suo eroe caduto in disgrazia, << cerca compassionevolmente di buttargli un salvagente ». La storia di Viburno rosso aveva effettivamente in sé l'insidia delle paternali moralizzati. Shukshin libera lo spettatore da questa impostura dandosi da fare per “distruggere il testo », traguardando a problemati che più ampie, raccontando cioè  “non del destino infelice di un recidivo, ma di un'anima, di come essa cerca il suo posto nella vita, si tormenta... »
Una tormentosa inquietudine é infatti il filo che lega tutti i protagonisti noti della narrativa iconica di Shukshin. Dal Paska scapato e vagabondo che in Zivét takoj paren’ cerca la sua identità, allo Stepan nostalgico e naif di Vas syn i brat, dall'affranto e smarrito Matvéej Ivénovic di Strannye Iiudj aIl'Egor Prokudin di Kalina krasnaia, che cerca I’ ubi consistam dopo i < disaccordi con la coscienza ».,corre il filo sottile di questo inquieto scontento, della pena di uno straniamento che sbocca nella nostalgia di una sede serena - la coscienza? —, di un ordine interiore con un suo ancoraggio etico: qualcosa che I’organizzazione sociale non garantisce, e che in Viburno rosso é indicato esplicitamente nella capacità di amare {la paziente indulgenza di Ljuba Bajkalova].
Una indicazione, questa, tenera e accorata, come il saldo sentimento che già nella- vita legava Shukshin all'attrice che nel film interpreta Ljuba. Giò che scioglie i grumi dell’anima di Egor -  icasticamente suggeriti dalle sequenze che mostrano Egor far esplodere il suo vitalismo nella ricerca di divertimenti, di distrazioni. di donne; e poi nello stesso bagno nella sauna, che indicizza il bisogno di una corroborante purificazione fisica, di una liberazione dalle tossine di una vita “in disaccordo con la coscienza” – è l’incontro, prima diffidente e poi ricco di abbandoni, con la donna, che già conosce gli smarrimenti della solitudine.
E’ lei che ridesta in Egor < qualcosa di profondo, di dimenticato »: é la memoria dell'infanzia trascorsa sulla “buona terra", e di tutto quel che di buono e di sano vi era stato allora instillato per sempre: e che l'esperienza della malavita aveva solo ottenebrato.
Questo é il tema del film, anzi e il nodo di tutti i problemi di Egor: “Com'é possibile — si chiede Shukshin — che in una vita vissuta ad alta velocità, segnata dalla potenza delle macchine, dilatata da straordinarie scoperte, assillata da mille superproblemi, com'è possibile trovare uno spazio per l'anima? ». Com’é, insomma, possibile trovare — per dirla con Saba – “la bontà non morta / la dolcezza di un caldo angolo »?
Egor è l'ultima campionatura della commedia umana di Shukshin, nella quale una gente cerca se stessa dopo un ennesimo “disaccordo con la coscienza”. Qui Shukshin segue questa ricerca con partecipazione assoluta, e non solo perché, come in questo caso, è lui stesso l’interprete di questa esplorazione. Narratore sincronico, Shukshin ha scelto ancora la misura breve del racconto per approfondire i motivi che gli stanno a cuore, quelli che il suo Erlebnis fa mulinare dentro, e spasimano di uscire, di trovare comunicazione.
Neanche qui Shukshin é eziologico. Neanche qui dice il come e il perché e il quando del  “disaccordo con la coscienza”. Ne registra la effettualità, e ne studia I rimedi. Pone ancora una volta in dubbio l’efficacia in quantum delle strutture sociali e si appella a un tipo di moralità individuale, scontrosa anche — e qui I'accusa di egotismo può appigliarsi ben facile —, che é sempre invariabilmente tesa dal desiderio/dolore di un ritorno -è questo il senso pregnante della nostalgia - verso valori conosciuti, indettati un tempo e smarriti nel corso di un peregrinare deviante.
Ma Shukshin non mette a carico della società — che é la società in cui crede - questo sbandamento,anzi. Afferma e riafferma con forza estrema l'obbligo della responsabilità personale che è appunto, un frammento necessario della corresponsabilità universale. Vasilij Makerovic é stato esplicito, nel presentare il film, circa la responsabilità del|'uomo di fronte alla terra che l'ha allevato. “Per tutto quanto succede oggi sulla terra dovremmo rispondere, noi tutti che viviamo. Per il bene e per il male. Per le menzogne, per la mancanza di coscienza, per il nostro viver da parassiti, per il conformismo. per la viltà e il tradimento, per tutto bisognerà pagare. Pagare fino alI'estremo. Anche di questo parla Viburno rosso“.
L'insidia del mélo [nell'Ottocento, da noi, se ne sarebbe fatta un'opera lirica] e l'inciampo della declamazione è normale per chi si ponga a trattar di questi temi con tutta la forza della propria convinzione che già chiamavamo esiodea. Shukshin evita queste  trappole anche qui con un dettato scarno ed aspro — la tensione del volto di Shukshin interprete è l’architrave del film — che non perde però in freschezza e perspicuità nelle notazioni psicologiche e nelle modulazioni coreutiche tipiche dei suoi film. Le quali, qui, toccano il diapason, per esempio nella quieta discussione che vede Egor, Ljuba e il vecchio padre di lei nell'isba, accanto alla solenne stufa in maiolica, ad esaminare pacatamente, puntigliosamente, le "destinazioni" possibili per Egor.
Li, intendi, l’anima collettiva della gente dei campi soccorre con sapienziale accoramento allo smarrimento di un uomo che cerca il suo destino. E quest'anima collettiva non gli oppone convenzioni o divieti: ma con fermezza e pazienza gli presenta, come misura di sanità autentica, il proprio modello esistenziale.
Accettare la iustissima telus, per chi abbia “provato" la città, non é un semplice subire, non é un accomodamento o un ripiego: è un'azione attiva, un trionfo positivo. E lo é tanto che la malavita non
può graziare questo ‘tradimento’. Ed e nel momento in cui Egor paga “fino all’estremo” il fio della sua mancata identificazione coi “Iati negativi del progresso" ch'egli si riprende integralmente la sua dimensione d'uomo [Cfr. C. Benedetti, E’ morto Vassili Shukshin in “Unità, 4.10.1974] “Si, é verbo - diceva Shukshin -,è bello parlare di progresso, ma il progresso ha anche un Iato negativo. -Ed è appunto questo quello che io voglio far capire con miei racconti e con i miei film: la gente di campagna non si deve scoraggiare dinanzi all’avvento della “tecnica”, deve far ricorso, proprio per non affogare, alla propria coscienza, alla forza del cuore; deve risolvere i problemi legati al progresso con la coscienza. Ma, purtroppo, io.,da contadino come sono, vedo che la gente comincia a credere in certi valori che non sono valori. E questo é tragico. Ecco, io vorrei contribuire, a far si che la gente di campagna resti vera e viva cosi come lo é il personaggio di Viburno rosso, il quale torna ad essere uomo proprio mentre cade colpito dalla vendetta della banda che aveva rinnegato ».

SulIa scena compare un uomo. Ha larghe spalle e il viso -arso dal vento.
Dice: "0ra il coro canterà una canzone che ci farà pensare: ‘II suono della sera”!
Dalle quinte cominciano ad uscire sul palcoscenico i componenti del coro. Si dividono e si raggruppano in due sezioni, una dietro l'altra, a formare un piccolo e un grande gruppo. Sono ben lontani dall'avere l’aspetto di" coristi ...»
Così, in medo un pò singolare e insolito, comincia il racconto di Shukshin “Il Viburno rosso “.
II protagonista é Egor Prokudin, ladro recidivo. E’ uno dei coristi. II tempo della sua reclusione é scontato, ora é libero. Così, sulla porta di un campo di rieducazione, comincia la conoscenza di questo malfattore, un uomo straordinariamente interessante, a suo modo eccezionale.
A seguirlo subito dopo la sua liberazione. Egor Prokudin non sembra voglia farla finita con la sua professione . Dall'altro canto, ora che è  fuori, egli non può concedersi il lusso di filosofare, “essere o non essere", “rubare  non rubare”. Bisogna risolvere problemi più semplici e concreti:"dove trovare un
tetto, dove sistemarsi almeno per i primi tempi.
I vecchi amici di Egor non Io possono ospitare; loro stessi sono braccati dalla polizia.
Ma Egor non si perde d’animo. In tasca ha ancora un indirizzo. Prima, quand'era recluso, ha tenuto corrispondenza con una giovane donna separata dal marito, Ljuba.Lei abita in un villaggio, e anche se non ha -mai vista Egor, l’ha invitato a casa sua. “Vieni da me, al nostro villaggio, gli scriveva Ljuba; Egor ha
deciso di andarci. Non ha piani né programmi a lunga scadenza. Pensa di trovarvi un temporaneo rifugio e basta. -Ma le cose vanno in un altro modo, serio e inaspettato. L’incontro con Ljuba, l’incontro con la gente del villaggio (lui stesso é nato in campagna) muta la sua vita e i suo-i piani. Egor decide di farla finita per sempre con la sua vecchia professione e di cominciare una vita nuova, come si dice. lavora nel koIchoz come trattorista. Due mesi dopo, ai margini di un bosco di betulle, vicino al campo che ha appena finito
di arare Egor viene colpito a morte da una pallottola. l suoi ex amici non gli hanno perdonato iI tradimento.


giovedì 18 maggio 2017

Una voce per mille volti

Emilio Cigoli
1909 - 1980
In mezzo ai doppiatori di oggi Emilio Cigoli rischia la brutta figura, egli così umano, quelli puzzosi di actor studio. Il frammento è preso da un gradevole film di Mario Camerini, Una storia d'amore (1942) che ha il pregio di farci scoprire Piero Lulli quale giovane protagonista, accanto ad Assia Noris e Carlo Campanini. Il Fascismo aveva le ore contate, Cigoli e Lulli una vita davanti.