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Prima della reazione << virtuosa >> e dell’idealizzazione del G. Men ha luogo l’apparizione del capolavoro: Scarface (1932) di Howard Hawks. La
materia, grezza ed informe, si nobilita in una rappresentazione affatto scevra
di compiacenze estetizzanti o di mire didascaliche. L'unità artistica è data
dallo stile che ricorda i precetti stendhaliani circa l’efficacia della lingua del
Codice civile. Scarface è nella memoria
di tutti perché è arrivato da noi nel dopoguerra; ma la schematicità e l”enfasi
della stesura fotografica hanno aggiunto, almeno per me, incanto ad incanto. `
Così come s’è potuto dire con cognizione di causa che la fotografia
della piccola martire di Primavalle, con quegli occhi spalancati e la
sciarpettina attorno al collo, << exploit ›› di un fotografo di
periferia, può ricordare un Matisse. Mentre, in un adeguato ritorno
cinematografico, i vecchi cronisti romani parlarono di << giglio infranto
››. Senza esitazione, metterei invece da parte City Streets (Le vie della
città, 1931), di Mamoulian, non senza la debita reverenza al talento,
alquanto facinoroso e bluflistico, dell'armeno: per la nostra ricerca, apporto per nulla genuino. Mentre nella stessa
direzione, e quasi per le stesse ragioni, è da scartare risolutamente l’intelligente
Ford di The Whole Town’s Talking (Tutta la città ne parla, 1935). Con Scarface, ma a un gradino più sotto,
sono invece da registrare in quegli anni The
Beast of the City (Il nemico pubblico
No. 1, 1932), e The Story of Temple
Drake (Perdizione, 1933) i cui
autori, Charles Brabin e Stephen Roberts, ebbero comune il breve destino. The
Beast oƒ the City racconta un caso piuttosto romanzesco. Il capo della polizia
in una certa città ha per fratello il responsabile di un commissariato. Di
carattere debole costui (Wallace Ford) è irretito da una ragazza (Jean Harlow),
affiliata a una << gang >>. A un certo punto il giovanotto traviato
si ravvede; il capo della polizia (Walter Huston) affronta i banditi riuniti a
banchetto; il capo della << gang» si fa scudo del poliziotto tarato, che
incita il fratello ad aprire il fuoco. Nella sparatoria muoiono i due fratelli
e la mala femmina, colpita a morte mentre fugge su una scala. Nel film Jean Harlow,
ancora acerba, aveva scarso peso. Non c'era alcuna ricerca formalistica o
psicologica. Si trattava di una nuda narrazione di fatti, resi pregnanti dalla
speditezza del montaggio, da una quantità di particolari di suggestione
immediata e dalla spontaneità degli interpreti. Tutt’altre ambizioni in The Story oƒ Temple Drake. Il successo
del romanzo di Faulkner (uscito nel '31, ma scritto in precedenza), da cui la
pellicola era ispirata, << Sanctuary», era soprattutto di scandalo; pochi
avevano saputo intravedere, oltre la scorza, il significato rivoluzionario
della << Weltanschauung ›› faulkneriana; è logico che, cadendo nelle
fauci hollywoodiane, la storia del gangster Popey si edulcorasse, sfumando
farisaicamente i troppo rilevati contorni. Si fecero dunque necessari <<
adattamenti >›; ma Roberts era un artista, e qualcosa restò. A suo tempo io
dubitai forte che la scelta di Miriam Hopkins, attrice troppo caratterizzata e
intellettuale, per la parte di Temple, fosse felice, né so risolvermi a
cambiare idea malgrado la mancanza - et pour cause! - di una << rilettura
›> del testo; ma è certo che la scelta di Jack La Rue come Popey risultò indicibilmente
felice. E certi allucinati interni (il bordello di Memphis) non facevano
affatto rimpiangere la mancanza della troppo celebre pannocchia di granoturco.
1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema
1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema