Questa è uno dei lavori preziosi di Lardani non accreditati, non riconosciuti , non ..., con immagini esaltate dallo score del Maestro. Anche i titoli di Tepepa erano suoi come quelli di C'era una volta il west, molto simili e neanche quelli accreditati.
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
giovedì 23 aprile 2015
mercoledì 22 aprile 2015
Amico - Nemico
Dal set de La Grande Speranza (1954) di Duilio Coletti catturate da
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lunedì 20 aprile 2015
ferraniacolor
OGGI
La grande speranza
(1954) di Duilio Coletti serve oggi a rendere omaggio ad una delle industrie
che dettero un contributo non ancora definitivamente riconosciuto al cinema
italiano. Sorta in un’epoca in cui la fotografia andava prendendo piede anche
nel proletariato e sottoproletariato, dapprima si dedicò alla produzione di
apparecchi fotografici e relativi supporti per la ripresa. Andò consolidando la
sua fama facendo irruzione nel cinema col rimanerci fino al 1964 quando fu
fagocitata dalla multinazionale 3M. Mitiche sono rimaste le varie serie panchro su cui furono impresse le
immagini dei capolavori italiani tra il 1935 e il 1955. Con l’avvento del
colore in Italia sorse la ferraniacolor, e qui la casa che aveva sede
nell’omonima cittadina in provincia di Savona, dette il meglio di sé producendo
pellicole ancora oggi distinguibili tra quellie Eastmancolor e Technicolor. Il tratto caratteristico della ferraniacolor era quel rimando, e qui siamo consapevoli di esagerare, agli
affreschi della scuola di Giotto, che sa più di matita e acqua che di colori ad
olio.
L’opera di Coletti vorrebbe essere antibellica ma il suo è
un antibellicismo che porta alla successiva guerra, buona per le giurie OCIC,
le sole a prenderla in considerazione. Patetica come la recitazione di Renato
Baldini, a cui serve poco la classe british di Lois Maxwell. I soli a salvarsi
sono un gruppo di caratteristi capeggiati da Folco Lulli, dal lavoro dei quali
si evince la scrittura di Ennio De Concini. Ancora: il tema epico di Nino Rota,
l’occhio vigile e sagace di Leonida Barboni, direttore delle luci tra i più
illustri del cinema italico di quegli anni.
domenica 19 aprile 2015
Body Part
Top 20 Films with a Body Part in the Title
By Film Comment
1. Bring Me the Head of Alfredo Garcia Sam Peckinpah, 1974
2. Claire’s Knee Eric Rohmer, 1970
3. Faces John Cassavetes, 1968
4. Eyes Without a Face Georges Franju, 1960
5. Eyes Wide Shut Stanley Kubrick, 1999
6. Adam’s Rib George Cukor, 1949
7. Reflections in a Golden Eye John Huston, 1967
8. Heart of Glass Werner Herzog, 1976
9. The 1,000 Eyes of Dr. Mabuse Fritz Lang, 1960
10. Baby Face Nelson Don Siegel, 1957
11. True Heart Susie D.W. Griffith, 1919
12. Cool Hand Luke Stuart Rosenberg, 1967
13. A Face in the Crowd Elia Kazan, 1957
14. Murmur of the Heart Louis Malle, 1971
15. Fists in the Pocket Marco Bellocchio, 1965
16. The Soft Skin François Truffaut, 1964
17. The Beat That My Heart Skipped Jacques Audiard, 2005
18. Baby Face Alfred E. Green, 1933
19. Nil by Mouth Gary Oldman, 1997
20. 5 Fingers Joseph L. Mankiewicz, 1952
L'originale è qui:
http://www.filmcomment.com/article/trivial-top-20-best-films-with-a-body-part-in-the-title
giovedì 16 aprile 2015
Le dive dei nostri nonni (3)
La grande epoca del film muto si può nettamente circoscrivere dal 1919
al 1929; furono dieci anni giusti in cui sbocciarono almeno venti capolavori.
Dieci anni giusti: prima c’erano state l’invenzione, la ricerca tecnica, la
guerra, e dopo ci fu la parola. Ma in quei dieci anni il cinema visse una vita
intensissima e memorabile, in un’attività che lasciò il suo segno su tutta una
generazione.
L'Europa politicamente era in pace, ma in compenso era ricca di tutte
le nevrosi; il cinema ebbe la funzione di purificare l’ambiente, di immettere un
soffio d'aria pura in un clima viziato anche intellettualmente dalla cocaina,
dalle donne vestite da uomini e dagli uomini acconciati da donne, dalle più
disparate avanguardie e dall’anarchismo degli snob. In compenso non era ancora
stupido, ipocrita e borghese. Agì con straordinaria potenza sui ceti
spiritualmente più liberi e puri della società, sul popolo e sugli
intellettuali.
Sul popolo perché il popolo trovava finalmente, dopo il melodramma
ottocentesco, uno spettacolo fatto per lui; sugli intellettuali perché il
cinema veniva loro in aiuto, li liberava da complessi irreali o malvagi, fugava
sentimenti corrotti e convenzionali, offrendo una nuova, rivoluzionaria
dimensione della realtà.
Fu allora che i più inquieti tra gli intellettuali si rovesciarono sul
nuovo mezzo espressivo: << clowns ›› mezzo falliti come Chaplin, giornalisti
nauseati del lavoro notturno come Clair, pittori senza dipinti, musici senza
ispirazione, tutti i refrattari dell'inquietissimo dopoguerra, i Murnau, gli
Sternberg, i Pabst, gli Stroheim, i Dupont, i Feyder, si trovarono presenti
all’adunata, fioriti dai climi spirituali più diversi, dalle geografie più
appartate. Diventarono un gruppetto di maestri.
Come al tempo delle antiche poetiche, il limite (leggi, per il cinema,
l’assenza della parola) servì l'arte egregiamente. Costretto a esprimersi senza
le facili risorse verbali, il cinema fu rapido, allusivo, implacabile.
Costretto al silenzio, trovò un suo originale linguaggio per esprimersi.
Intanto, dall'altra parte della barricata, assistevano al miracolo gli
adolescenti cui la nuova civiltà, in mezzo a tante miserie, offriva un compenso
che tutte le riscattava; la prima generazione cresciuta spiritualmente nel buio
dei cinematografi, non perderà più quella impronta. La critica degli spettacoli
cinematografici nacque molto tardi da noi; la ricerca del buon film richiedeva
agli appassionati finezze che appartenevano più all’arte dei segugi che alla
preparazione filologica, finezze che risulterebbero incredibili ai giovani
esteti di oggi che discutono per colonne di stampa in corpo sei su De Sica come
direttore artistico. Le pellicole arrivavano da fuori con titoli incredibili,
con storpiati i nomi degli attori, mentre il nome del regista mancava
regolarmente sui manifesti e sui cartelloni pubblicitari, e qualche volta anche
al principio dell’opera. D'altra parte l'abbondanza del prodotto e l’estrema
variabilità dei gusti del pubblico
creavano confusioni indicibili; mentre proprio da noi, con un gruppetto
di splendide attrici, veniva inventato il divismo.
Oh, la patetica confusione che nasceva allora tra il prodotto di casa
nostra, a sfondo letterario e sessuale, cui ci sentivamo legati come da un
materno cordone ombelicale, e i liberi fantasmi di fuori! Anche recentemente
una fotografia di Francesca Bertini, che abbiamo vista riprodotta su una rivista
di lusso, ha avuto il potere di toccare un cuore che non è più tenero come
allora.
1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
mercoledì 15 aprile 2015
Le dive dei nostri nonni (2)
Chi è finito critico cinematografico dei film di oggi si deve sentire nella stessa posizione spirituale di certi cultori disinteressati di poesia, facitori di buoni versi in loro gioventù, costretti per campare a fare i professori di lettere italiane nelle scuole medie; chi per un bisogno di libertà individuale frequentò assiduamente gli ultimi posti al tempo del cinema muto è costretto ora, per pagare l’affitto e il conto della spesa, a sorbirsi quotidianamente quell’<< aridus fragor ›> di cui parla Cardarelli citando Virgilio. Con la differenza che il novello fragore non è quello che rendono le foglie morte sotto i piedi del solitario passeggero, ma cataste di parolette, imbecilli per la più gran parte, e anche cattive, uscite dagli altoparlanti. Ma forse di questo è inutile discorrere, è meglio tornare indietro.
Chi si ricorda ancora, per esempio, dei film espressionisti tedeschi che commossero la nostra adolescenza verso il 1926?I film tedeschi arrivarono tutti insieme, in masse compatte, per così dire, e a plotoni affiancati. Conoscemmo così la vera Germania prima che dai libri nei film, quella Germania che era stata falsata sino al grottesco nella nostra immaginazione infantile dalla propaganda alleata dell’altra guerra; imparammo allora a conoscere la Germania romantica, << patria dell'angoscia >›; si mossero in un clima allucinante e febbrile personaggi in dimensioni ora concrete e ora irreali, il Veidt dello Studente di Praga di Galeen e lo Jannings del Variété di Dupont. La Germania dell'altro dopoguerra reagiva alla propaganda alleata chiamando a raccolta tutte le sue energie spirituali, e di queste energie il cinema non era la meno efficace: il cinema passava le frontiere in scatole che poco ingombravano, era duttile, penetrante e silenzioso.
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
lunedì 13 aprile 2015
Le dive dei nostri nonni (1)
L’addio
al cinema muto fu dato in Italia da Alberto Cecchi, in modo solenne e non
malinconico, in accenti ricchi di speranza, con una protesta motivata contro le
parole che venivano appiccicate a un”arte che sembrava non ne avesse affatto
bisogno. Alberto Cecchi veniva dalle eleganze teatrali e il cinema di allora,
cioè il cinema muto, rappresentava per lui la libertà, la natura, la poesia dei
sentimenti primitivi e soprattutto il silenzio. Quanto a noi, che si era allora
assai giovani, assistemmo al fattaccio con sgomento, incomprensione e
malessere; e dopo lo straordinario Ombre
bianche che non era parlato ma sonoro, e dopo alcuni film buoni che erano
stati camuffati all’ultimo momento da sonori e parlati, per quasi due anni non
andammo al cinematografo.
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972
Quando i ragazzi di oggi vedono in qualche
retrospettiva uno dei capolavori del muto e mandano gridi di doveroso entusiasmo,
non possono capire il curioso effetto che fa ad uno della vecchia generazione
il vedere isolato, messo sotto spirito, spiegato ed illustrato uno di quei film
che gli accadde di vedere da giovane, magari con la fine prima del principio, in
mezzo soprattutto a una catasta di altre pellicole, e
non tutte spregevoli, di cui s’è perduto persino il
ricordo.
Con questo non si vuol dire che il tempo e la critica
non abbiano isolato a dovere i film memorabili da quelli che non lo sono: si
vuole affermare soltanto che fra quelli caduti in oblio ce ne sono molti che
avrebbero meritato di restare.
Nel cinema che chiameremo per comodo primitivo, ma allo
stesso modo in cui nel campo delle arti figurative lo scultore del Duomo di
Fidenza è un primitivo rispetto a Dupré, avvenne che molte pellicole furono
opere di scuola, uscite cioè da una stessa matrice ideale nella quale,
nell'entusiasmo della creazione comune, qualcuno, magari l'elettricista,
fungeva da capo e gli altri si mettevano entusiasticamente ai suoi ordini
nell'allegra consapevolezza di partecipare a un`opera febbrile e comunque non
duratura. Ma non è detto che ciò che è destinato a perire sia per
questo meno bello, e la retorica classicista ha commesso uno dei suoi soliti
errori eloquenti quando ha associato, male interpretando il legittimo desiderio
che ogni artista ha di vincere il tempo, solidità con bellezza. Per nostro
conto non siamo affatto persuasi che gli scomparsi tempietti greci di legno, di
cui parla Lawrence in una pagina famosa, fossero meno belli di certi capolavori
che resistettero al tempo.
Ci
accade dunque, quando una nostalgia cui è vano resistere, ci conduce in certe
salette fuori mano dove i filologi dei cine-club offrono antichi film muti, di
trovarci nella medesima posizione spirituale di Eugenia di Montijo, diventata
imperatrice dei francesi, quando nel museo di Grenoble le fecero vedere un ritratto
del famoso scrittore Stendhal.
<< Ma questo non è uno scrittore, >>
avrebbe detto la bellissima e romanzesca spagnola, << questo è il signor
Beyle che mi raccontava le avventure di Napoleone quand’ero bambina. >> Così noi potremmo dire che questo
che vediamo più di vent`anni dopo non è il capolavoro di Ford o di Murnau, ma
un certo film visto nel 1925 in un pomeriggio caldo di giugno, quando si usciva
dal ginnasio che il sole era ancora alto (si andava a scuola pure nel pomeriggio,
in quei tempi) e si mettevano le assicelle dei libri a fare da piedistallo per
diventare un pochino più alti della calca ondeggiante negli ultimi posti.
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