domenica 23 febbraio 2014

Law West of Pecos

OGGI

Walter Brennan 1894 - 1974


 The Westerner ( L’uomo del West, 1940 ), assieme a Stagecoach (Ombre Rosse), di un anno più vecchio, sono i film che deviano il genere più classico del cinema sulla via della maturità. Gli unici precedenti, a parte le classiche due bobine ed i successivi lungometraggi dell’epoca prima del sonoro sono The Texas Rangers ( I Cavalieri del Texas, 1936 ) di King Vidor, The Plainsman ( La Conquista del West, 1937 ) di Cecilio De Mille, Wells Fargo ( Un mondo che sorge, 1937 ) di Franco Lloyd.
A differenza di Stagecoach il film di William Wyler, che qui si rivede,  in fase di sceneggiatura  si concentra sulla psicologia che caratterizza le vicende dei due protagonisti: il giudice Roy Bean ed il giovane cavaliere diretto verso la California. Questa particolarità da modo di dipingere da una parte, il giudice Bean, i tratti di un pittoresco matto, occhi maniacali, grinta e devozione da cavalier servente per la sua adorata cantante Lily Langtry; dall’altra, il giovane cavaliere, pacato, laconico,sguardo ironico, svelto nell’estrarre la pistola, elegante cavallerizzo. I due si attraggono a vicenda da subito vuoi per la furbizia del giovanotto, vuoi, nel vecchio, per la mancata paternità: per tutto il film appellerà “ son  “ il giovane Cole Hardin.
Per scansarmi lo svolgimento dei fatti vi accenno soltanto che la trama  a volte dimentica il West, abbozzato nell’eterno conflitto tra allevatori ( rudi migranti ) e contadini ( pacati stanziali ) per concentrare il tutto, come si è detto, sull’amicizia, a volte ambigua, reciproca tra Roy Bean e Cole Hardin. The Westrner, sapientemente , evita tutti i cliché del genere western, attingendo dai tragici greci.
Gary Cooper quando lesse il copione si preoccupò non poco, credendo di vedersi messo da parte, star ormai riconosciuta, da Walter Brennan che si può dire il deus ex machina, il personaggio su cui si concentra la maggior parte del film, mettendo di fianco a volte il signor Cooper. Per lui si imbastì, a consolazione, una tenera love story tra la giovane contadino, già prediletta da uno dei suoi farmer, e lo spilungone infantilmente innamorato.
La sapienza di Jo Swerling e Niven Busch, gli sceneggiatori, nel finale mette sullo stesso piano il matto vecchio ed il furbo giovane: il primo colpito a morte dallo pseudo figlio viene da questi portato davanti all’effige reale dell’adorata cantante per consentirgli di chiudere gli occhi su quella bellezza vagheggiata/vaneggiata per tutto il corso del film.
Il lavoro di William “ Sunset Boulevard “ Wyler alla sua apparizione soffrì per il poco successo al botteghino, rispetto ad altri campioni d’incasso dello stesso periodo, ma alla lunga, come tutte le opere classiche che non vedranno mai il  “ viale del tramonto “, mantiene ancora oggi il suo fascino e molto spesso è stato citato dalle giovani leve che hanno affrontato il western, tra tutti cito solo Sergio Leone Tolstoi “ western’s magister “.
A questo punto rimane solo da lodare il cinematographer  Gregg  Toland che sfrutta al meglio la luce esterna, a volte filtrandola attraverso la polvere come accade nella scena della scazzottata tra Gary Cooper e Forrest Tucker, nel corso della quale i sue si intravedono solo come ombre scure catturate su sabbia chiara.

giovedì 20 febbraio 2014

Estetismo, realismo e realtà


Eduard Kazimirowic Tisse 1897 - 1961

Attualità della storia, verità dell’attore non sono altro che la materia prima dell’estetica del film italiano.
Il reale come l’immaginario appartengono, i arte, al solo artista, la carne e il sangue della realtà non sono più facili da trattenere nella maglie della letteratura o del cinema di quanto non lo siano le fantasie più gratuite dell’immaginazione. In altri termini, quando l’invenzione e la complessità delle forme non riguardano più il contenuto stesso dell’opera, non per questo cessano di esercitarsi sull’efficacia dei mezzi. E’ per averlo dimenticato un po’ troppo che il cinema sovietico è passato in vent’anni dal primo all’ultimo posto fra le grandi produzioni nazionali. Se il Potemkin ha potuto sconvolgere il cinema non è solo a causa del suo messaggio politico, e neppure perché sostituiva lo staff dei teatri di posa con gli ambienti reali e la star con la folla anonima, ma perché Ejzenstejn era il più grande teorico del montaggio dei suoi tempi, perché lavorava con Tissé, il miglior operatore del mondo, perché la Russia era al centro della riflessione cinematografia, in una parola perché i film “ realisti “  che essa produceva nascondevano più scienza estetica che non le scenografie, le luci e l’interpretazione delle opere più artificiali dell’espressionismo tedesco.
Lo stesso vale oggi per il cinema italiano. Il suo realismo non comporta affatto una regressione estetica, ma al contrario un progresso dell’espressione, un’evoluzione conseguente del linguaggio cinematografico, un’estensione della sua stilistica.
Bisogna innanzitutto capire bene a che punto si trova il cinema oggi.  Dopo la fine dell’eresia espressionista e soprattutto dopo il parlato, si può ritenere che il cinema non abbia smesso di tendere verso il realismo. Vogliamo dire in sostanza che esso vuol dare allo spettatore un’illusione il più perfetta possibile della realtà, compatibile con le esigenze logiche del racconto cinematografico e i limiti attuali della tecnica. In questo il cinema si oppone nettamente alla poesia, ala pittura, al teatro, per avvicinarsi sempre di più al romanzo.

 Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.
tratte da Che cos’è il cinema?, Garzanti, trad. Adriano Aprà


martedì 18 febbraio 2014

Un sincero suddito di Francesco II Borbone




Renato Terra ne Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro Germi
con alle spalle le Rocche di Prastarà presso Montebello Ionico, e  Pentedattilo

lunedì 17 febbraio 2014

L'assedio



Incredibile ma vero. Ubaldino, quel che fu il capo, confessato da tutti, del  Cineforum   “ Peppuccio Tornatore “ dal suo ritiro presso l’oratorio Don Orione, raccogliendo un pugno di apostoli a lui fedeli, tra tutti abbiamo notato il fido Trupianoi, non ascoltando Cicco Pino la voce, amica, che cercava di frenare un ardore mai visto in lui, ha sferrato un attacco al cuore del Circolo di Cultura di Cinematografica “ Yasujiro    Ozu “.
Dopo un primo sgomento Caratozzoli, chiamato d’urgenza a lasciare la cellula del Partito dove presiedeva una riunione della commissione cultura e spettacolo, precipitatosi alla sede del Circolo sopra menzionato, indossato un elmetto  ed afferrato un mitra, vedendolo a molti ha ricordato l’eroe cileno Salvador Allende, anche per il grido di battaglia lanciato dai suo partigiani, “ el pueblo unido jamàs serà vencido “, ha difeso strenuamente e sbarrata la via a Ubaldino ed i suoi apostoli.
Ubaldino costretto alla fuga ha rilasciato un comunicato in cui afferma la nuova amara sconfitta e la volontà di ritirarsi sul colle Ignatianum, dentro l’istituto gesuita onde far ritiro spirituale per almeno due anni dopo il quale scrivere un saggio su “ La fede contadina nell’opera di Augusto Genina Cielo sulla palude “.
Presso il Circolo di Cultura Cinematografica “ Yasujiro    Ozu “ dopo l’acclamata vittoria il comitato centrale ha deciso di proiettare per due giorni, gratuitamente, Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, allargando l’invito a tutta la cittadinanza zanclea.

domenica 16 febbraio 2014

undici mesi in Calabria, seimila comparse, 200.000 metri di pellicola


Il film che per me è il piú importante e  che la gente conosce meno è Il brigante. Nasceva da una proposta di Rizzoli. Il libro era  di Berto. Sono stato quattro mesi in Calabria a vedere e a parlare con la gente. Non  contento di questo ho portato con me Berto  perché mi mostrasse i posti che aveva de-  scritto e ho caricato in macchina anche Antonello Trombadori, perché è una persona  straordinaria per parlare con la gente. Ho  fatto un'inchiesta a fondo sulla gente del  crotonese. Quando sono tornato ho detto a  Rizzoli che volevo fare un'altra storia, quel-  la di un uomo che avevo conosciuto in Calabria, uno che viveva con due mogli e tanti  bambini, in una serenità straordinaria, uno  che aveva partecipato all'occupazione delle  terre. Lui fece un sacco di storie e io ebbi  l'ingenuità di pensare di mettere il mio film  nel film di Rizzoli, cosí venne troppo lungo.  Malgrado questo è stato il migliore film che  ho fatto. C'era anche il racconto storico del-  la grande speranza che il mondo cambiasse  in cinque o anche quindici anni, che è un'i-  dea sciocca, perché il mondo cambia in cento, duecento anni, è una questione di evoluzione di generazioni. Il film raccontava tutte  queste grandi speranze che a poco a poco si  sono infossate come nelle sabbie mobili.  L'ho girato in assoluta libertà, perché  non mi ha posto limiti: sono stato undici  mesi in Calabria ed ho amministrato personalmente il film. Il brigante è stato fatto nel  1960 ed è costato 98 milioni. Nelle scene  dell'occupazione delle terre ci sono 6.000  comparse. Non farò piú un'impresa del genere perché sono diventato matto. Ho girato  200.000 metri di pellicola, però avevo una  troupe piccolissima, questa volta con il sonoro, con tutta gente presa sul posto. Quando è finito, il film ha fatto impressione, la  gente stava lí tre ore e mezzo a vederlo. Poi i  distributori hanno cominciato con le loro richieste di tagli e anche Chiarini, che lo voleva per Venezia, mi ha chiesto di tagliarlo un  po'. È andata via quasi un'ora e il film si è  un po' squilibrato. A Venezia, appena si è  spenta la luce ed è cominciato il film (c'era  un pubblico molto elegante, era il boom), si  è sentita una signora lagnarsi di vedere ancora un film di straccioni. Questa era l'atmosfera. Mi era costato anni di fatica. A volte la gente si crede in diritto di liquidare  tutto con due parole. Io Il brigante lo difendo: c'è dentro un tale amore al lavoro, una  tale quantità di fatica. Tre anni interi! Ai  critici Il brigante non piacque. Lo trovarono  démodé. Nel clima del miracolo economico  certe istanze erano démodées. Ai critici del  miracolo andavano bene i film nebulosi,  sfuggenti, i famosi film con “la passeggiata”. (Renato Castellani)     

L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti  a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli op. cit.

giovedì 13 febbraio 2014

C'era una volta in Calabria


Con tutti i difetti che derivano dalla sceneggiatura, dello stesso regista, e dai tagli subiti nelle corso delle prime proiezioni, in origine superava le tre ore abbondanti, rimane ancora oggi il film più importante girato in Calabria. I temi che affronta, il brigantaggio e le lotte contadine finite con l’occupazione delle terre, lo collocano tra le poche pellicole che affrontano il meridionalismo con ardore.
La storia riprende quella che fu del Musolino di Mario Camerini innestandola con le rivolte agrarie nel crotonese ed a Melissa in particolare, insanguinate da parte della celere statale che uccise tre poveri braccianti i cui nomi qui si vuole ricordare: Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito.
L’opera rievoca quanto accadde nella Calabria  a partire dagli anni fascisti, anni di ruberie da parte di chi rappresentava il potere centrale a spese di chi lavorava la terra; al ritiro dei soldati tedeschi in fuga verso il nord; all’arrivo degli americani, che instillarono un barlume di speranza tra quanti subivano, inermi, lo strapotere dei latifondisti; sino al ritorno sotto nuove divise, questa volta bianche, degli stessi uomini con nuove promesse mai mantenute. Il film è una favola, in cui tutto resta uguale malgrado gli sforzi degli uomini ( Sergio Trasatti).
Oggi la pellicola ricorda i futuri Novecento di Bernardo Bertolucci, I cancelli del cielo di Michael Cimino e per certi aspetti della storia del ragazzo in crescita, spettatore di quanto accade, Malena di Giuseppe Tornatore.
Renato Castellani è saggio nel servirsi delle luci di Armando Nannuzzi, operatore Giuseppe Ruzzolini ; delle forbici di Jolanda Benvenuti e della partitura di Nino Rota che a tratti riecheggia quella composta per Il Padrino di Francis Ford Coppola dieci anni più tardi.
Il regista girando il film tra Santo Stefano d’Aspromonte ed il crotonese tenta di recuperare gli stilemi, ormai abbandonati, neorealisti, per l’uso che ne fa degli attori quasi tutti non professionisti: ora si menzionano Giovanni Basile, l’appuntato Fimiani, e Mario Jerard che interpreta Pataro, uomo di molte donne e di molti figli la cui storia era l’origine del film.
Ancora una volta, non si comprende bene perché, in un film di ambientazione squisitamente calabra, si fanno doppiare gli attori in ispanico-siciliano ,e, a livello più basso, si mette in bocca ad uno dei protagonisti maschili Ciuri ciuri, canzone sicula più che mai. Lasciamo da parte Calabrisella mia che in quanto a testo e musica sono quel che sono, che Mino Reitano era ancora un infante ed il Boss di là da venire con Bad Lands, ma a livello popolare qualche refrain verdiano doveva pur sempre serpeggiare. Cade così, infine, quell’adesione al neorealismo che abbiamo citato prima. Del resto Castellani era stato accusato, ai suoi tempi, di aver reso quel movimento cinematografico, di color rosa.