Paisà è innanzitutto
senza dubbio il primo film ad essere l’equivalente rigoroso di una raccolta di
novelle. Non conosciamo d’altro che il film a episodi, genere bastardo e falso
come pochi. Rossellini ci racconta una dopo l’altra sei storie della
Liberazione italiana. Esse non hanno in comune che questo elemento storico. Tra
di esse, la prima, la quarta e l’ultima si riallacciano alla Resistenza, le
altre sono degli episodi buffi, patetici o tragici ai margini dell’avanzata
alleata. La prostituzione, il mercato nero, la vita di un convento francescano
ci forniscono indifferentemente la materia. Nessuna progressione se non un cero ordinamento delle storie
secondo l’ordine cronologico a partire dallo sbarco delle truppe alleate in
Sicilia. Ma lo sfondo sociale, storico e umano delle sei storie conferisce loro
un’unità del tutto sufficiente per farne
un’opera perfettamente omogenea nella sua diversità. Ma soprattutto la lunghezza
di ogni storia, la struttura, la sua materia, la sua durata estetica ci danno
per la prima volta l’esatta impressione di una novella. L’episodio di Napoli in
cui vediamo un ragazzino specialista del mercato nero vendere i vestiti di un
negro ubriaco, è una splendida novella “ di “ Saroyan. Un’altra fa pensare a
Steinbeck, un’altra a Hemingway, un'altra ( la prima ) a Faulkner. Non voglio
dire solo per il tono o per il soggetto, ma più profondamente: nello stile. Non
si può sfortunatamente citare fra virgolette una sequenza cinematografica
come paragrafo, e la descrizione
letteraria che se ne può fare è per forza incompleta. Ecco tuttavia un episodio
dell’ultima novella (che mi fa pensare
ora a Hemingway ora a Faulkner): 1) un gruppo di partigiani italiani e di
soldati alleati è stato rifornito di viveri da una famiglia di pescatori che
vive in una sorta di fattoria isolata in mezzo alle paludi del delta padano.
Gli danno una cesta di anguille, loro se ne vanno; una pattuglia tedesca
successivamente se ne accorge e giustizia tutti gli abitanti della fattoria; 2)
al crepuscolo, l’ufficiale americano e un partigiano camminano fra le paludi.
In lontananza una fucilata. Un dialogo molto ellittico fa capire che i tedeschi
hanno fucilato i pescatori; 3) degli uomini e delle donne stesi morti davanti
alla capanna, un bimbo mezzo nudo piange senza posa nel crepuscolo. Anche così
succintamente descritto, questo frammento di racconto lascia vedere a
sufficienza delle enormi ellissi, o meglio delle lacune. Un’azione abbastanza
complessa è ridotta a tre o quattro brevi frammenti, in se stessi già ellittici
in rapporto alla realtà che rivelano. Passi il primo, puramente descrittivo.
Nel secondo l’avvenimento ci viene significato solo attraverso ciò che potevano
saperne i partigiani: dei colpi di fucile in lontananza. Il terzo viene presentato
indipendentemente dalla presenza dei partigiani. Non è neppure sicuro che
questa scena abbia un testimone. Un bambino piange in mezzo ai genitori morti:
ecco, è un fatto. Come hanno i tedeschi a sapere della colpevolezza dei
contadini? Perché il bimbo è ancora vivo? La cosa non riguarda il film. Eppure
tutta una serie di avvenimenti si sono concatenati fino a giungere a questo
risultato. La tecnica di Rossellini conserva senza dubbio una certa
intelligibilità nella successione dei fatti, ma questi non si ingranano l’uno
sull’altro come una catena su un pignone.. I fatti, in Rossellini, acquistano
un senso, ma non alla maniera di un utensile la cui funzione ne ha, in
anticipo, determinato la forma. I fatti si susseguono e lo spirito è costretto
ad accorgersi che si raccolgono e che, raccogliendosi, finiscono per
significare qualcosa che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole che era
in ciascuno di essi e che è, se si vuole, la morale della storia. Una morale
alla quale lo spirito appunto non può sfuggire perché essa gli viene dalla
realtà stessa. Nell’episodio di ” Firenze “, una donna traversa la città ancora
occupata da alcuni tedeschi e da gruppi fascisti per cercare di raggiungere un
capo partigiano, suo fidanzato. L’accompagna un uomo che cerca anche lui sua
moglie e suo figlio. La macchina da presa li segue passo passo, ci fa
partecipare a tutte le difficoltà che essi incontrano, a tutti i pericoli, ma
con una perfetta imparzialità ell’attenzione che essa presta ai protagonisti
dell’avventura e alle situazioni che devono traversare. In effetti, tutto quel
che avviene nella Firenze agitata dalla Liberazione è ugualmente importante,
l’avventura personale dei due personaggi si insinua bene o male in un brulichio
di altre avventure, come quando ci si fa largo coi gomiti attraverso una folla
per ritrovare la persona che abbiamo perduto. Di passaggio, si intravedono
negli occhi di quelli che vi fanno largo altre preoccupazioni, altre passioni,
altri pericoli, di fronte ai quali i vostri non sono forse che irrisori. Alla
fine e per caso, la donna viene a sapere dalla bocca di un partigiano ferito
che colui che cercava è morto. Ma la frase che glielo rivela non era destinata
a lei, la colpisce come una pallottola vagante. La purezza di linea di questo
racconto non deve niente ai procedimenti di composizione classica per una
narrazione di questo genere. L’interesse non è mai portato artificialmente
sulla protagonista. La macchina da presa non vuole essere psicologicamente soggettiva. Il che ci
fa partecipare ancor meglio ai sentimenti dei protagonisti, perché è facile
dedurli e perché il patetico non proviene in questo caso dal fatto che una donna
ha perduto l’uomo che ama, ma dalla situazione di questo dramma particolare fra
mille altri drammi, dalla sua solitudine solidale al dramma della liberazione
di Firenze. La macchina da presa si è limitata a seguire come per un reportage
imparziale una donna alla ricerca di un uomo, lasciando al nostro spirito la
responsabilità di essere con questa donna, di comprenderla e di soffrire.
Il cinema americano si fa oggi in Italia, ma mai il cinema della
penisola è stato più tipicamente italiano. Il sistema di riferimento che ho
adottato mi ha allontanato da altri accostamenti ancor meno contestabili, per
esempio con la tradizione della novella italiana, della commedia dell’arte e
della tecnica dell’affresco. Piuttosto
che di un’ “ influenza “, si tratta di un accordo del cinema e della letteratura
su degli stessi dati estetici profondi, su una comune concezione dei rapporti
dell’arte e della realtà. E’ un bel po’ di tempo che il romanzo moderno ha
compiuto la sua rivoluzione “ realista “ , che ha integrato il behaviorismo, la
tecnica del reportage e l’etica della violenza. Il cinema è lungi dall’aver
esercitato la minima influenza su questa evoluzione, così come si crede ancora
spesso, e un film come Paisà prova al contrario che esso restava di un
vent’anni indietro sul romanzo contemporaneo. Non è merito minore del cinema
italiano recente quello di aver saputo trovare per lo schermo gli equivalenti
propriamente cinematografici della più importante rivoluzione letteraria moderna.
Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin,
op. cit.