lunedì 30 giugno 2014

Capri 17 maggio 1963 ore 17,00

OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu "
    



Nella primavera del 1963 Jean-Luc Godard sbarca a Capri per  girarvi, set villa Malapartre, Le mepris. Non era solo, non lo poteva mai essere,  avendo scelta come protagonista del film Brigitte Bardot. Neanche lei era sola, si portava dietro un codazzo lungo quanto la distanza che c’è tra Capri e Napoli di paparazzi. Esseri molto avventurosi e intraprendenti di fotografi il cui soprannome fu regalato  loro da Federico Fellini. I protagonisti di questo documentario di Jacques Rozier sono loro e i teleobiettivi delle macchine fotografiche a tracolla  che cercavano di rubare una posa inedita, quanto sconcia, alla bella Brigitte. Le guardie cercavano invano di tenere a bada i caparbi  rubapose, essi saltavano da tutte le parti, dal mare o come capre dalle rocce capresi. Forse quello fu il momento più alto vissuto da questa categoria di artisti finiti a rubare immagini anche ai più insignificanti divi televisivi per copertine di giornali spazzatura che finiscono sui tavolini delle sale d’attesa di medici e assicuratori. Nel documentario Rozier monta con gusto nouvelle vague, alle musiche di Antoine Duhamel e alla voce di Michel Piccoli, immagini di copertine di riviste con fotogrammi frammentati della Bardot, ricreandone un mito ad libitum.

·         Regia,Montaggio e Testo: Jacques Rozier . Voce: Michel PiccoliJean Lescot et Davide Tonelli
·         Assistente regia : Michel S. Cavillon, Hubert Watrinet -Musica : Antoine Duhamel
·         Photographie : Maurice Perrimond
·         Suono : Jean Baronnet - Mixage son : Louis Perrin


Antonioni chiuso in Ferrara



 Mi si rimprovera di guardare tutto da lontano. È il mio modo di raccontare, non una posa. Questa “distanziazione ” è forse un pò di pudore. Mi capita d”immaginare una scena emozionante, ma non la
 realizzo. Forse è perché ne sono commosso io prima degli altri. Forse anche perché sono del nord,
 di Ferrara, una città in cui ci si sente terribilmente chiusi.
Michelangelo Antonioni

giovedì 26 giugno 2014

Aporia e doni in Caulonia (RC)

     


“ Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare  il legame sociale tra le persone ”. Jacques T. Godbout
Al momento di girare Il dono (2003) Michelangelo Frammartino era un architetto che costruiva delle video-installazioni. Il dono è una video installazione gonfiata in 35 mm.
Il film come le video-installazioni non ha una trama, poggia su delle immagini dentro cui si muovono le figure, la luce e soprattutto, e qui sta la sua forza, i suoni o, se per voi è meglio, i rumori –  catturati con discrezione da Davide Sampieri  - creando l’armonia della musica. I dialoghi sono preventivamente esclusi.
C’è un paese, c’è un vecchio che ha lo sguardo sottaciuto di Buster Keaton, c’è un’ebete che si crede posseduta dal demonio, in realtà si dona a chiunque la carica in macchina, compreso il barbiere del paese. Questa però soccorre con il suo aiuto ( dono ) le vecchie che non hanno nessuno che si prenda cura di esse.
L’ebete è soccorsa dal vecchio che le regala una Vespa e sembrerebbe quasi che la voglia emancipare da quel darsi ai paesani.
Infine c’è il mare, con i suoi relitti sulla riva dove si vanno ad infrangere le onde.
“ L’ho chiamato Il dono il mio primo film perché il dono è un concetto aporetico, nel senso che il dono esiste e non esiste. Se tu doni non ma hai memoria del dono fatto vuol dire che senti il credito, allora non è più un dono, è uno scambio, allora devi farlo e dimenticarlo, cioè nello stesso istante in cui lo fai non lo devi fare, non dev’esserci “. Michelangelo Frammartino
Il dono è un film libero, che libera lo spettatore di farsi catturare dall’armonia, che è anche l’armonia della natura.
Girato a Caulonia a monte dell’antica Kaulon, in piena Magna Grecia, paese natale della famiglia Frammartino, il lavoro attraverso quei suoni di cui si diceva ci restituisce intaccati i luoghi e i colori della nostra infanzia: i vicoli silenziosi; le vecchie case, spesso disabitate; lo scorrere lento del tempo ricordato dal rintocco della campana della chiesa; la vallata che si espande sul mare Jonio; la fiumara, riflettente la luce solare.


mercoledì 25 giugno 2014

lunedì 23 giugno 2014

Loser in Mexico


OGGI



Warren Oates è un loser sulla scia dei precedenti che costellano la filmografia di Sam Peckinpah. Vivacchia in Messico City cantando in locali per turisti americani che offrono di tutto: tequila, birra Corona e donne. E’ infantilmente innamorato di una cantante poco chiara e molto ambigua che non si fa scrupoli di raggirarlo in ogni occasione. Il caso offre a Warren di uscire fuori dalla melma. Gli arriva sottoforma di una testa che guarda caso era sulle spalle di un amante della sua, creduta, donna: Alfredo (Al) Garcia. In molti cercano Al reo di aver messo in stato di gravidanza la figlia di un boss messicano con il volto di Emilio El Indio Fernandez. Riuscito ad impossessarsi della testa di Alfredo, ormai ricercata pure dalle mosche, Warren vuole conoscere chi paga e perché. Nel frattempo Al è diventato anche un rivale con cui fare i conti per via della poco chiara donna.
In questa occasione Sam Peckinpah si trasferisce totalmente in Messico, lo aveva preceduto poco tempo addietro anche Don Siegel per girarvi Two Mules for Sister Sara ( Gli avvoltoi hanno fame). In Messico Peckinpah si avvale del lavoro di Alex Phillips Jr per catturare al meglio il retroterra rurale ma anche della presenza di due nomi che hanno contribuito a fondare il cinema nazionale messicano: il nominato Indio e Chano Urueta. Il film lo si può prendere come un’elegia di quel cinema come di un paesaggio ormai al tramonto e a Peckinpah si affiancherà negli anni anche Cormac Mc Carthy con la sua trilogia letteraria.


domenica 22 giugno 2014

Il cinema americano si fa oggi in Italia

Paisà è innanzitutto senza dubbio il primo film ad essere l’equivalente rigoroso di una raccolta di novelle. Non conosciamo d’altro che il film a episodi, genere bastardo e falso come pochi. Rossellini ci racconta una dopo l’altra sei storie della Liberazione italiana. Esse non hanno in comune che questo elemento storico. Tra di esse, la prima, la quarta e l’ultima si riallacciano alla Resistenza, le altre sono degli episodi buffi, patetici o tragici ai margini dell’avanzata alleata. La prostituzione, il mercato nero, la vita di un convento francescano ci forniscono indifferentemente la materia. Nessuna progressione  se non un cero ordinamento delle storie secondo l’ordine cronologico a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia. Ma lo sfondo sociale, storico e umano delle sei storie conferisce loro un’unità  del tutto sufficiente per farne un’opera perfettamente omogenea nella sua diversità. Ma soprattutto la lunghezza di ogni storia, la struttura, la sua materia, la sua durata estetica ci danno per la prima volta l’esatta impressione di una novella. L’episodio di Napoli in cui vediamo un ragazzino specialista del mercato nero vendere i vestiti di un negro ubriaco, è una splendida novella “ di “ Saroyan. Un’altra fa pensare a Steinbeck, un’altra a Hemingway, un'altra ( la prima ) a Faulkner. Non voglio dire solo per il tono o per il soggetto, ma più profondamente: nello stile. Non si può sfortunatamente citare fra virgolette una sequenza cinematografica come  paragrafo, e la descrizione letteraria che se ne può fare è per forza incompleta. Ecco tuttavia un episodio dell’ultima novella  (che mi fa pensare ora a Hemingway ora a Faulkner): 1) un gruppo di partigiani italiani e di soldati alleati è stato rifornito di viveri da una famiglia di pescatori che vive in una sorta di fattoria isolata in mezzo alle paludi del delta padano. Gli danno una cesta di anguille, loro se ne vanno; una pattuglia tedesca successivamente se ne accorge e giustizia tutti gli abitanti della fattoria; 2) al crepuscolo, l’ufficiale americano e un partigiano camminano fra le paludi. In lontananza una fucilata. Un dialogo molto ellittico fa capire che i tedeschi hanno fucilato i pescatori; 3) degli uomini e delle donne stesi morti davanti alla capanna, un bimbo mezzo nudo piange senza posa nel crepuscolo. Anche così succintamente descritto, questo frammento di racconto lascia vedere a sufficienza delle enormi ellissi, o meglio delle lacune. Un’azione abbastanza complessa è ridotta a tre o quattro brevi frammenti, in se stessi già ellittici in rapporto alla realtà che rivelano. Passi il primo, puramente descrittivo. Nel secondo l’avvenimento ci viene significato solo attraverso ciò che potevano saperne i partigiani: dei colpi di fucile in lontananza. Il terzo viene presentato indipendentemente dalla presenza dei partigiani. Non è neppure sicuro che questa scena abbia un testimone. Un bambino piange in mezzo ai genitori morti: ecco, è un fatto. Come hanno i tedeschi a sapere della colpevolezza dei contadini? Perché il bimbo è ancora vivo? La cosa non riguarda il film. Eppure tutta una serie di avvenimenti si sono concatenati fino a giungere a questo risultato. La tecnica di Rossellini conserva senza dubbio una certa intelligibilità nella successione dei fatti, ma questi non si ingranano l’uno sull’altro come una catena su un pignone.. I fatti, in Rossellini, acquistano un senso, ma non alla maniera di un utensile la cui funzione ne ha, in anticipo, determinato la forma. I fatti si susseguono e lo spirito è costretto ad accorgersi che si raccolgono e che, raccogliendosi, finiscono per significare qualcosa che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole, la morale della storia. Una morale alla quale lo spirito appunto non può sfuggire perché essa gli viene dalla realtà stessa. Nell’episodio di ” Firenze “, una donna traversa la città ancora occupata da alcuni tedeschi e da gruppi fascisti per cercare di raggiungere un capo partigiano, suo fidanzato. L’accompagna un uomo che cerca anche lui sua moglie e suo figlio. La macchina da presa li segue passo passo, ci fa partecipare a tutte le difficoltà che essi incontrano, a tutti i pericoli, ma con una perfetta imparzialità ell’attenzione che essa presta ai protagonisti dell’avventura e alle situazioni che devono traversare. In effetti, tutto quel che avviene nella Firenze agitata dalla Liberazione è ugualmente importante, l’avventura personale dei due personaggi si insinua bene o male in un brulichio di altre avventure, come quando ci si fa largo coi gomiti attraverso una folla per ritrovare la persona che abbiamo perduto. Di passaggio, si intravedono negli occhi di quelli che vi fanno largo altre preoccupazioni, altre passioni, altri pericoli, di fronte ai quali i vostri non sono forse che irrisori. Alla fine e per caso, la donna viene a sapere dalla bocca di un partigiano ferito che colui che cercava è morto. Ma la frase che glielo rivela non era destinata a lei, la colpisce come una pallottola vagante. La purezza di linea di questo racconto non deve niente ai procedimenti di composizione classica per una narrazione di questo genere. L’interesse non è mai portato artificialmente sulla protagonista. La macchina da presa non vuole  essere psicologicamente soggettiva. Il che ci fa partecipare ancor meglio ai sentimenti dei protagonisti, perché è facile dedurli e perché il patetico non proviene in questo caso dal fatto che una donna ha perduto l’uomo che ama, ma dalla situazione di questo dramma particolare fra mille altri drammi, dalla sua solitudine solidale al dramma della liberazione di Firenze. La macchina da presa si è limitata a seguire come per un reportage imparziale una donna alla ricerca di un uomo, lasciando al nostro spirito la responsabilità di essere con questa donna, di comprenderla e  di soffrire.
Il cinema americano si fa oggi in Italia, ma mai il cinema della penisola è stato più tipicamente italiano. Il sistema di riferimento che ho adottato mi ha allontanato da altri accostamenti ancor meno contestabili, per esempio con la tradizione della novella italiana, della commedia dell’arte e della tecnica dell’affresco.  Piuttosto che di un’ “ influenza “, si tratta di un accordo del cinema e della letteratura su degli stessi dati estetici profondi, su una comune concezione dei rapporti dell’arte e della realtà. E’ un bel po’ di tempo che il romanzo moderno ha compiuto la sua rivoluzione “ realista “ , che ha integrato il behaviorismo, la tecnica del reportage e l’etica della violenza. Il cinema è lungi dall’aver esercitato la minima influenza su questa evoluzione, così come si crede ancora spesso, e un film come Paisà prova al contrario che esso restava di un vent’anni indietro sul romanzo contemporaneo. Non è merito minore del cinema italiano recente quello di aver saputo trovare per lo schermo gli equivalenti propriamente cinematografici della più importante rivoluzione  letteraria moderna.

 Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.


mercoledì 18 giugno 2014

Quando il prossimamente diventa poesia

Miro Grisanti e il poeta Pier PaoloPasolini

mercoledì 11 giugno 2014

Clint Eastwood morally ambiguous figure


Eastwood’s persona carries a unique distinction among superstars; he represents almost exclusively morally ambiguous figures. He is a coyote/trickster figure among banal comic book heroes. No one has stretched more, or questioned the confines of the movie star construct. Imagine Ben Affleck, Gibson or Willis, or the action hero of your choice in any of these situations:
Homoerotic LoverThunderbolt and Lightfoot (Michael Cimino, 1974)
Terrorised Male GothicPlay Misty for Me (Clint Eastwood, 1971)
Sacrificial Erotic Murder VictimThe Beguiled (Don Siegel, 1971)
Secret Service Agent FailureIn the Line of Fire (Wolfgang Petersen, 1993)
Sexual Obsessive CopTightrope (Richard Tuggle, 1984)
Deathly, Consumptive Country LegendHonkytonk Man (Clint Eastwood, 1984)
Orangutan Co-Star:Every Which Way but Loose (Hal Needham, 1978) and
Any Which Way You Can (Hal Needham, 1980)
Unredeemed Mercenary KillerUnforgiven (Clint Eastwood, 1992)
Saccharine Circus FreakBronco Billy (Clint Eastwood, 1980)
Fey, but Psychotic DirectorWhite Hunter, Black Heart (Clint Eastwood, 1990)
Loveless Commitment-PhobeThe Bridges of Madison County (Clint Eastwood, 1995)
Geriatric Washed-up AstronautSpace Cowboys (Clint Eastwood, 2000)
tratto da:
It Came from the Mystic
by Carloss James Chamberlin
http://sensesofcinema.com/2004/feature-articles/mystic_river/

lunedì 9 giugno 2014

Absolute biginners

Top 20: Best Directorial Debuts by Screenwriters

By Film Comment
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Badlands Terrence Malick
1. Badlands Terrence Malick (1973)
The Maltese Falcon John Huston
2. The Maltese Falcon John Huston (1941)
The Great McGinty Preston Sturges
3. The Great McGinty Preston Sturges (1940)
Story of a Love Affair Michelangelo Antonioni
4. Story of a Love Affair Michelangelo Antonioni (1950)
Force of Evil
5. Force of Evil Abraham Polonsky (1948)
Blue Collar
6. Blue Collar Paul Schrader (1978)
Accattone Pier Paolo Passolini
7. Accattone Pier Paolo Pasolini (1961)
I Shot Jesse James Sam Fuller
8. I Shot Jesse James Samuel Fuller (1949)
Variety Lights Federico Fellini
9. Variety Lights Federico Fellini (1950)
Terms of Endearment
10. Terms of Endearment James L. Brooks (1983)
Cameron Crowe Say Anything...
11. Say Anything... Cameron Crowe (1989)
Mauvaise Graine Billy Wilder & Alexander Esway
12. Mauvaise Graine Billy Wilder & Alexander Esway (1934)
The Road to Glory Howard Hawks
13. The Road to Glory Howard Hawks (1926)
Fingers James Toback
14. Fingers James Toback (1978)
Lord Love a Duck
15. Lord Love a Duck George Axelrod (1966)
You Can Count on Me Kenneth Lonergan
16. You Can Count on Me Kenneth Lonergan (2000)
Hard Times Walter Hill
17. Hard Times Walter Hill (1975)
The Iron Giant Brad Bird
18. The Iron Giant Brad Bird (1999)
Sixteen Candles John Hughes
19. Sixteen Candles John Hughes (1984)
Thunderbolt and Lightfoot  Michael Cimino
20. Thunderbolt and Lightfoot  Michael Cimino (1974)

L'originale è qui:
http://www.filmcomment.com/article/best-directorial-debuts-by-screenwriters

domenica 8 giugno 2014

Calabria: passato, presente , futuro




Senza nulla togliere ad alcuni pregevoli film che verranno postati in seguito Articolo23 di Vittorio De Seta è il film più bello girato in Calabria e la sua particolarità è evidenziata dai pochi istanti su cui poggia. In cinque minuti la Calabria è ritratta attraverso passato, presente e futuro.
Su uno strato di suoni, rumori e voci che provengono dalla presa live De Seta scatta poche inquadrature,  liberamente alternando documentario e finzione, paesaggio e figure, attori non professionisti e interpreti poco conosciuti, tra cui la messinese Margherita Smedile.
Tutto è catturato attraverso i colori estivi .  Pentedattilo ha perso nel tempo la sua forza rinnovatrice, quello che rimane sono pochi vecchi, genitori solitari, case abbandonate: i giovani sono emigrati verso uno dei tanti nord anonimi.

Per incanto Pentedattilo -  uno sfondo più volte ripreso, e qui citato, nei film girati in Calabria – diventa il nord di altri luoghi più a sud: altri giovani di un colore e una nobiltà diversa, con una sensibilità rinnovatrice.