mercoledì 13 marzo 2019

Briguglio Film - Giovanni Grasso & Co.

Gli attori Di Cenzo,Cristina, Grasso, Biliotti, Randi, Salvietti e Nicolosi 
discutono di politica. (Ma solo nel film, s'intende...)


Uno stuolo
di calorosissimi artisti

Enzo Biliotti sarà il podestà, uno di quei famosi podestà siciliani dell’epoca, e la scelta non poteva essere più ƒelice. Suo figlio sarà il Castellani, una autentica scoperta di Zampa, che appena al suo secondo film è già una rivelazione.
La moglie di Giovanni è appena quindicenne; l’avete vista ne «I ƒratelli Karamazoff» suo primo film: si chiama Milly Vitale ed è la figlia del celebre direttore d`orchestra Eduardo Vitale, di cui ha la
stupenda sensibilità artistica.
Uno stuolo di calorosissimi artisti è accanto a loro: Giovanni Grasso, Benedetto Cirino, Ernesto Almirante, Rainiero De Cenzo, Olinda Cristina, Agostino Salviettì, Aldo Silvani. (continua)

N. S.
Nitto Scaglione

Gazzettino Peloritano  ARTISTICO MONDANO LETTERARIO APOLITICO  Anno 1  N. 2 Messina Domenica 26 Ottobre 1947



lunedì 11 marzo 2019

Detective Thriller - da Hitch a Freud

Gérard Genette ha fatto a suo tempo notare che non si è giustamente apprezzato il fatto « che l'autentico colpevole di Rear Window, quello di cui Hitchcock si riserva di mostrarci il castigo finale, non è il criminale ma invece il testimone, il voyeur, perché è lui che commette il vero peccato: il peccato di conoscenza ››. A Gérard Genette pare che «l’atteggiamento di Hitchcock di fronte ai propri eroi non dipende da un'etica del male [come quello di Flritz Lang) più di quanto non dipenda da una sociologia del crimine [come quello di Hawks in Scarface), ma invece da una metafisica del peccato... ››, la cui tentazione autentica è costituita dall'Albero della Conoscenza.  Vi è tutto, fino all'immagine della caduta, che Hitch ci mostra prendendola impietosamente alla lettera...››. Ma in realtà Gérard Genette non fa che ricondurre alla propria metafisica personale -[che si esprime nei termini della casuistica religiosa) l'ambiguità costitutiva di ogni conoscenza, speculazione o filosofia, analizzata da Freud sotto il termine di « onnipotenza dei pensieri ››: in « Totem e tabù ›› infatti Freud ha tracciato alcune analogie tra tre specie di neurosi e tre specie di attività non neurotiche, vale a dire fra ossessione e rituale religioso (il che non è sfuggito a Hitchcock, il quale nel  suo ultimo Frenzy fa esplicitamente stabilire questo accostamento tramite l'affermazione dell'íspettore di New Scotlanld Yard: « manie sessuali e manie religiose sono spesso legate tra loro ››), tra isteria e arte mimetica [l'isteria esprime le sue paure e i suoi desideri di contatto sessuale mediante ciò che viene chiamato « conversione ›, cioè mediante una gesticolazione mimetica che condivide con la sfera dell'arte il «comune processo di identificazione] e fra paranoia e conoscenza (non essendo ogni gesto conoscitivo che l'effetto di una psicomachia). Il che non mancavano di ricordare nell'antichità i misteri sacri e gli oracoli. Nei misteri di Eleusi si rappresentava il mito di Persefone, smarritasi nelle spire che conducono al regno dell'oscuro e dell'informe, perché nell`attore e nello spettatore si risvegliasse il brivido originario delle iletiche vicissitudini della Psiche. E consultare un oracolo, secondo Otto Fenichel, in linea di principio, significa estorcere il permesso o il perdono per qualcosa che sarebbe normalmente proibito, oppure tentare di scaricare su Dio la responsabilità delle cose di cui uno si sente colpevole. All’oracolo viene richiesto un permesso divino, che può agire come contrappeso nei confronti della coscienza. Al di là del razionalismo imperante che considera il moderno pensiero filosofico e scientifico come il superamento dello stadio primordiale legato a pratiche magiche e religiose [sintomo clamoroso di « onnipotenza dei pensieri »), la « detective story ›› ha l'effetto di ricordarci l'ambivalenza di ogni gesto conoscitivo e i rapporti strettissimi che quest'ultimo intrattiene con la compulsione, l`indifferenziato, l’oscuro e gli stadi anteriori della razionalità esistente: in breve, con l'inconscio.
È per questo che l'indagine del « detective ›› assomiglia a una psicanalisi: non a caso entrambe mirano a far diventare conscio laddove c'era inconscio [« Wo es war, soli ich werden ›› dice Freud; sostituire il registro dell'esattezza a quello della verità, dice lo statuto della « detective story ›); si basano sulla tecnica della « talking cure ›› [il detective ›› e lo psicanalista fanno domande e sono soprattutto buoni ascoltatori); devono fare i conti con l'esperienza del transfert e del contro-transfert (il « detective ›› le lo psicanalista non sono spettatori passivi e straniati del teatro   dell'inconscio che si spalanca davanti a loro, non solo, vi sono inclusi anch'essi e vi apportano il tributo della loro gesticolazione); vanno in cerca di una rimemorazione e di una ripetizione.
Infatti [sia nella < detective story » sia nella psicanalisi] non si tratta tanto di sostituire la conoscenza all'ignoranza quanto di vincere alcune resistenze, di rimuovere alcuni ostacoli. Nel corso di questa lotta contro le resistenze, la rimemorazione o rievocazione, espressamente ricercata dal metodo catartico di Breuer contemporaneamente alla scarica emotiva o «abreazione›› era dapprincipio il fine cui mirava la tecnica analitica. (continua)

Franco Ferrini, I GENERI CLASSICI DEL CINEMA AMERICANO, BIANCO E NERO, 1974 Fascicolo ¾


domenica 10 marzo 2019

Unforgiven & others


How Unforgiven laid the classic movie western to rest

Clint Eastwood’s gritty 1992 film dispelled many of the myths which he helped to popularise.
Ever since John Ford admitted to printing the legend in his 1962 masterpiece, The Man Who Shot Liberty Valance, the traditional mythology of the Old West has undergone an extensive series of cinematic reappraisals. From The Wild Bunch to Heaven’s Gate, gritty revisionist westerns and so-called ‘anti-westerns’ have sought to counteract the romantic misrepresentations of violence, history and heroism perpetuated by the genre’s talented mythmakers in an effort to bring audiences an undiluted dose of the ‘real’ Wild West.
As the effortlessly cool protagonist of Sergio Leone’s seminal Dollars Trilogy, Clint Eastwood once helped usher in a new wave of westerns that would dispel some of the falsehoods of the John Ford era while popularising plenty of fresh ones. As the director and star of Unforgiven, he provided the final word on half a century’s worth of horse-mounted do-gooders and lone wolf gunmen. Neither the most disparaging nor most realistic of the various cinematic responses to the genre’s creaky archetypes, it is nonetheless gratifyingly direct and psychologically astute, stripping the gloss and pretence from the old tropes to reveal their raw, bloody origins in both American history and the modern day moviegoer’s own escapist needs.
Like the Leone westerns before it, Unforgiven takes place in a dangerous world full of rugged sons of bitches, killing each other for money, pride or in the name of vengeance. The key difference lies in our response to the brutality on display. Whenever Eastwood’s legendary Man with No Name dispensed justice, the questionable nature of his acts was rendered moot by the fact that his adversaries were always depicted as being more unambiguously wicked than him. In Unforgiven, when Eastwood’s retired bandit William Munny is hired to kill two men who cut up a prostitute’s face, their capital punishment is carried out in entirely joyless fashion.
At the same time, David Webb Peoples’ script is saturated with unnerving reminders of Munny’s own horrific, booze-fuelled track record. In a land where cocky gunslingers fraudulently brag about past murders (which either happened not as reported or not at all), Munny is the only one to actively downplay his own body count out of a sense of remorse for what he’s done – and fear of what he might yet do.
Of course, even in the era of Leone any suggestion of moral righteousness was mere window dressing to the real reason for watching these films. When stylish works like A Fistful of Dollars dragged the western into meaner terrain, the genre wasn’t de-romanticised so much as it was given a fresh shot of testosterone. This was a rougher wild west than the one John Wayne had inhabited, and so the heroes (and by extension the viewer) had to be even tougher in order to thrive in it. Unforgiven short circuits this arrangement by turning the implicit into the explicit – namely, that what this really all comes down to is men and their dicks.
When those men set the film’s grim events in motion by mutilating Delilah Fitzgerald (Anna Levine), they do so as a furious response to Fitzgerald giggling at her client’s “teensy little pecker”. By contrast, local sheriff Little Bill Daggett (Gene Hackman) tells the story of ‘Two-Gun Corcoran’, who earned his name from the pistol he held in his hand and the considerably larger weapon stored in his pants, recalling how bounty hunter English Bob killed Corcoran in a drunken act of jealousy. Combine these obvious phallic references with images of Munny struggling to mount his horse or his gun failing to fire, and suddenly his mission to avenge the damsel in distress doesn’t seem so dignified.
Sheriff Daggett, meanwhile, sees right through the performances of these arrogant, self-styled killers and conmen – yet he too is a striking subversion of a timeworn archetype. His ruthless response to the crimes of Munny and his contemporaries positions him as the primary antagonist of the piece, but it’s not hard to imagine Daggett being the hero of this story in the same vein as John Wayne, Henry Fonda and Gary Cooper. Like Marshal Will Kane in High Noon and Wyatt Earp in My Darling Clementine, Daggett is a steadfast, arguably well-intentioned proponent of law and order.
Nonetheless, his vindictive side emerges once trouble comes to his town, mirroring the violent sense of justice enforced by the very outlaws he beats to a pulp. While Daggett’s final line, “I’ll see you in hell, William Munny,” may read like a typical tough guy kiss-off, in the context of the graceless, primeval omnishambles that results from one woman laughing at a man’s dick, his words become a chilling admission.
In the 25 years since Unforgiven’s release, the western has thrived as an arthouse genre that continues to probe the themes explored by Eastwood’s film and other revisionist forebears – be it in issues of masculinity (Meek’s Cutoff) or mythmaking (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford) – with even the most crowd-pleasing and action-centric of recent entries tending to contain some element of critique. It seems that any attempt to rejuvenate the screen outlaws and lawmen of yore now comes with a twinge of guilt. As for Eastwood himself, Unforgiven was perhaps the statement he needed to make in order to step away from the genre once and for all.
9 AUG 2017

L'originale è qui:

giovedì 7 marzo 2019

Briguglio Film - "Si gira"


Ave Ninchi ed il brillante attore siciliano Umberto Spadaro 
in una simpatica scena de ”Il vecchio con gli stivali”.

L'accurata regia
di Luigi Zampa

Dalla inquadratura del soggetto alla scelta dei tipi il lavoro del Zampa si profilò diritto, lucido, sicuro come lama: egli esperto nel conoscere come la materia del libro debba divenire spirito sullo schermo inquadrò felicemente nei luoghi vivi le persone vive. Scelto Modica, come luogo dell’azione (che si svolge nel
romanzo a Catania), come luogo più spiccatamente siciliano e molto più agevole alla lavorazione per la possibilità di trovare vive e palpitanti le ƒigure di contorno, ed elesse a protagonista, nella parte di
«Piscitello» un giovane attore siciliano, figlio d'arte e di artisti sommi, Umberto Spadaro, nel teatro e nel cinema rivelatosi per quella ƒresca e pur vigorosa immediatezza che distingue gli attori dialettali in genere ed i siciliani in specie.
Spadaro, col suo intuito pronto e specialissimo, ha stagliato un tipo che rimarrà indelebile nella cinematografia e non italiana soltanto.
Sarà, suo figlio Giovanni, nel film s’intende, Massimo Girotti in travolgente ascesa: dopo le recenti e susseguentisi rapidamente, interpretazioni di «Fatalità», «Preludio d'amore›› «Caccia tragica» e
«Gioventù perduta» Girotti raggiungerà in questo film il «massimo›› della sua popolarità.
Ave Ninchi, l'attrice che per la sua pacata dolcezza e per la vivezza della sua espressione si è, ancor giovane, dedicata al ruolo di madre sarà la moglie di Pìscitello.

N. S.
Nitto Scaglione
Gazzettino Peloritano  ARTISTICO MONDANO LETTERARIO APOLITICO  Anno 1  N. 2 Messina Domenica 26 Ottobre 1947



mercoledì 6 marzo 2019

My dad



My parents are squatting in an abandoned building on the Lower East Side.
They were homeless for three years before that which is pretty much how they raised us.
My dad is not developing a technology for bituminous coal, but he could tell you anything that you want to know about it.
He is the smartest man that I know.
He is also a drunk.
Never finishes what he starts and can be extremely cruel.
But he dreams bigger than anyone I've ever met.
And he never tries to be somebody that he's not.
He never wanted me to either.

I miei genitori occupano un edificio dismesso nella Lower East Side.
Sono stati senzatetto per i tre anni precedenti, ed è così che ci hanno cresciuti.
Mio padre non lavora ad una tecnica per il carbone bituminoso, ma potrebbe dirvi tutto quello che
non sapete sull'argomento.
E' l'uomo più intelligente che conosca.
Ed è anche un alcolizzato.
Non finisce mai quello che comincia, e può essere estremamente crudele.
Ma è il più grande sognatore che conosca.
E non cerca mai di essere la persona che non è.
Mi ha insegnato a fare lo stesso.
Destin Daniel CrettonBrie Larson, The Glass Castle, 2017


lunedì 4 marzo 2019

LA CITTA' E LO SPAZIO in Vittorio De Sica - Miracolo a Milano


Cosi, ancora una volta, la città è lo spazio dell'estraneità, della alienazione, della repressione e spesso dell'ingiustizia e della sopraffazione. In una dimensione che ha il sapore dell'apologo è ciò che ci ripete Miracolo a Milano, con quella sua oleografia del capitalismo disegnata in stile disneyano; e lo spazio che la contraddistingue non si presta certo a equivoci. Il palazzo di Mobbi, ampio, slanciato verso l'alto secondo imponenti linee verticali di marca architettonica fascista sembra indicare un'altezza irraggiungibile dalla povera gente delle baracche, alla cui esistenza reale Brunella Bovo — nel film una di loro — si rifiutava a suo tempo di credere, un'altezza che invece verrà raggiunta e di gran lunga superata nella famosa sequenza finale con i barboni librati su una Milano che mostra soltanto qualche tetto e l’immancabile immagine della guglia più alta del Duomo, destinati a un cielo che di sicuro non è il paradiso della classe operaia né tantomeno quello del credente, ma soltanto un ideale, fiabesco spazio alternativo nel quale la sopraffazione del potente non poté più avere la meglio sul povero, come invece era stato persino nell'Anticittà di Totò. Pure, l'esperienza di questa Anticittà non va sottovalutata. Miracolo a Milano in generale, anzi, si presenta come momento essenziale nell'«iter» spaziale del cinema di De Sica. Si noterà per prima cosa come il teatro di ogni cosa semplice e vera, di ogni sincerità naturale, è regolarmente situato nell'area esterna alla città 8. Il film si apre su una periferia semirurale e il gioco di Lolotta e di Totò in una delle primissime sequenze è proprio quello di saltare su una piccola città finta posta sul pavimento della casa. La città vera, del resto, è connotata in modo alquanto esplicito: la si vede la prima volta in occasione del passaggio del carro funebre della vecchia Lolotta, e ciò che la qualifica molto presto è un'immagine di furto e di inseguimento [il ladro e i carabinieri}. Una città che mostra i più vistosi squilibri: Tot passa, uscito dal collegio, davanti a un gruppo di operai al lavoro (un lavoro duro, sporco, ingrato] e la sera stessa davanti alla Scala fra uno scintillio di toilettes, un'esibizione di benessere e di scostante ricchezza. Non a caso Totò stabilirà facilmente un contatto con i primi, mentre con gli altri si limiterà alla distante ammirazione del semplice nel confronti del ricco, lui che trova naturalissimo salutare affabilmente gli estranei che gli passano accanto, suscitando irosi commenti 9.

8 E vengono in mente le parole di Mumford: Il sobborgo riesumò, superficialmente, il sogno della democrazia jeffersoniana, quasi cancellata dalle tendenze oligarchiche del capitalismo, e presentò le condizioni essenziali alla sua attuazione: una piccola comunità di individui che si conoscono tra loro e che partecipano alla pari alla vita collettiva ». Cfr. Lewis Mumford: «La città nella storia», Milano, Ed. di Comunità, 1964, pp. 623-24.
9 E sulla estraneità e l'anonimità programmatiche della città si leggano le chiare pagine di Harvey Cox:  La città secolare , Firenze Vallecchi. 1968, nel cap. La forma della città secolare, pp. 38-59. (continua)

Franco La Polla, BN BIANCO NERO, MENSILE DI STUDI SUL CINEMA E LO SPETTACOLO 9/12, 1975



domenica 3 marzo 2019