mercoledì 30 novembre 2016

Condannate in sul nascere


CON “JUDICIO”
IL PUBBLICO delle sale cinematografiche italiane ha fischiato, e sonoramente fischiato, taluni film di produzione nazionale: 5 o 6 su un complesso di circa quaranta.
Non esitiamo farne i nomi, per intenderci chiaramente:
UN BACIO A FIOR D’ACQUA, 1
PIERPIN, 2
LUCE DEL MONDO, 3
ARMA BIANCA, 4
COLPO DI VENTO, 5
IL GRANDE SILENZIO, 6
tutti film che hanno meritato la loro sorte.
Ma bisogna che il pubblico prenda nota di due fatti; dopo di che potrà continuare a fischiare serenamente tutti i brutti film che gli saranno presentati.
II primo fatto è il seguente: tutte le cinematografie, non solo le minori ma anche, e soprattutto, le maggiori, hanno una percentuale elevatissima di opere sbagliate o, peggio, condannate in sul nascere. Se il pubblico si divertirà a fare le percentuali dei brutti film stranieri che ha veduto durante la stagione, in confronto ai buoni, eppoi ripeterà questa statistica per i film italiani, si accorgerà, con gioia, che la cinematografia italiana, ha una percentuale elevatissima di buoni film: infinitamente superiore in confronto ai cattivi, a quella che può vantare qualsiasi altra industria.
Secondo fatto! anche nella attuale riorganizzazione della nostra industria cinematografica esistono e persistono dei residuati di vecchie mentalità che agiscono al di fuori di qualsiasi controllo, con iniziative private destinate al fallimento. Gli organi competenti preferiscono ignorare queste sporadiche iniziative che non hanno nessun valore e nessuna importanza di fronte al complesso: è sul complesso che occorre giudicare la nuova cinematografia nazionale, non sui singoli fatti.
Che il pubblico continui a fischiare ma, razionalmente, con “judicio”. Anche questi residuati spariranno.
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica, Luglio-Dicembre 1936 – XV

1 regia Giuseppe Guarino
2 regia Duilio Coletti
3 regia Gennaro Righelli
4 regia Ferdinando Maria Poggioli
5 regia Carlo Felice Tavano
6 regia Giovanni Zannini


lunedì 28 novembre 2016

Più che un film è un avvenimento artistico


La voce seria e accattivante di Vittorio Cramer sedusse, e non poteva altrimenti, anche Fellini



domenica 27 novembre 2016

Diva da elettrochoc 2

Tutt’altra faccenda per l’ultimo film europeo della Garbo, La via senza gioia, che è firmato da Pabst. La Vienna dell’inflazione e della fame, in quell’altro dopoguerra così simile (tutte le sciagure s’assomigliano) al dopoguerra 1945. Unica differenza le divise dei vincitori. Allora v’erano anche ufficiali in grigioverde che invitavano le belle viennesi affamate sulle Fiat e invece di Chesterfield regalavano Macedonia.
Si può pensare quello che si vuole di Pabst come regista. Probabilmente, quanto a preparazione culturale, è uno di quegli intellettuali che i francesi chiamano << primaires >>, cioè uno che non s’accorge delle sfumature, uno che non sa che certi problemi sono antichi come la vita, e soprattutto che l’arte non s’affronta gonfiando bicipiti e gote... Però è anche uno che ha il cinema nel sangue, che ogni tanto è percorso dall’alito ineffabile della grazia. Per nostro conto sentiamo di dovergli alcune delle sensazioni più piacevoli di spettatori induriti. Chi non ricorda? Il can-can di Atlantide, i mulini di Don Chisciotte, in primo piano sullo sfondo di gonfie nuvole meridionali, e, ne I commedianti, girato dal povero umanitario Pabst sotto la ferula nazista, la carrellata del banchetto, che fu subito celebre. Ma Greta e Pabst ne La via senza gioia toccarono una sorta di perfezione, ebbero un gran momento di quelli che la vita non ripete. Fu un curioso connubio, non destinato a durare.
Insieme a Pabst e a Greta erano due favolosi attori, Werner Krauss, la cui mefistofelica figura è strettamente legata al cinema espressionistico tedesco, e la maggior << diva >> dell’epoca, Asta Nielsen. Ne La via senza gioia vi erano due azioni parallele; una donna commetteva un delitto che avrebbe confessato solo alla fine del racconto; una fanciulla pura, ma avvilita dalla miseria, veniva insidiata e stava per perdersi ad opera di un losco figuro. Nel finale (evidentemente di comodo) l’illibata fanciulla veniva salvata da un ufficiale degli eserciti di occupazione.
Per un’intuizione da grande artista Pabst era il primo a trasferire nel cinematografo quel «fantastico sociale >› che Baudelaire aveva scoperto donando alla poesia quella nuova provincia, che il cinema avrebbe in seguito esplorata sino ai limiti estremi. Le incongruenze della civiltà industriale, i tristi risultati delle speculazioni edilizie, i poveri esseri asserragliati nei quartieri miseri come in un ghetto, la strana, dolente poesia delle case misere, dei muri umidi, senza sole, erano per la prima volta conquistati da uno sguardo intelligente e profondo. In questa direzione mai Pabst riuscirà in seguito a fare di meglio.
Ne La via senza gioia Greta è già l’attrice che tutti celebreranno più tardi nei film famosi d’America. Essa ha appreso sin troppo bene la lezione impartitale da Stiller (ardente maestro che brucerà la sua vita alla gloria dell'allieva); s’è dimenticata con la naturalezza di una << comica >> vera le modeste origini, le avvilenti esperienze, l’umile prova d’inizio del film comico  Pietro il vagabondo. Ha già quell’incesso regale, quello sguardo profondo, carico di significati patetici, cui nessun maschio civilizzato resiste.
Il mondo cammina e le donne camminano con la storia; in testa alla colonna capelluta e dalle tenere linee curve, vengono le figlie del Nord. La Svezia del bellicoso Carlo XII s’è convertita al femminismo di Ibsen: il benessere venuto con i frigoriferi, con le baleniere e con il pesce in barile, porta la gente a considerare con rispetto la problematica dell’anima femminile. Per reazione, gli intellettuali tipo Stiller non tardano a porgere un orecchio compiaciuto ai << trolls >>, gli spiriti maligni evocati con tanta passione dal piccolo speziale scandinavo.
Dopo il film di Pabst carico di realtà, di malinconia, dove si esprime un giudizio su certi fenomeni sociali, Greta, chiamata a Hollywood, scivolerà fatalmente, incoraggiata dal filisteismo dei produttori, sul piano inclinato del divismo. Lo scotto verrà pagato molti anni più tardi, dopo il tentativo di liberazione di Ninotchka, con Non tradirmi con me, restato fino ad oggi senza resurrezione.
Attrice istintiva, e poco << intelligente >> (come invece sono << intelligenti >> Bette Davis e Marlene Dietrich), Greta ha compiuto cinquantun anni in settembre. È perciò, definitivamente, fuori giuoco, a meno che accetti parti che non siano più di innamorata. Svelta negli affari, ma timida, schiva, carica di <<complessi», Greta si mise in testa che il capitombolo di Non tradirmi con me era stato il frutto di una cabala di invidiosi, di una congiura ordita ai suoi danni e non, come invece è vero, uno spiacevole infortunio professionale. Insistette nella sua solitudine, forse avendo capito confusamente che il suo tempo era passato. Figlia di Ibsen, non avrebbe potuto resistere alle imminenti offensive di Sartre. Sopravvive ora, patetica, goffa e anche un pochino ridicola, alla sua gloria. Resta nel cuore di innumerevoli suoi ammiratori un ricordo, una << presenza >> che ha valore soprattutto perché fa corpo con la loro giovinezza. Ma è un ricordo che perirà assieme a quelli che amarono svisceratamente la << divina >> nel buio dei cinematografi
della vecchia Europa, più di venticinque anni fa.
                                                                                                                            1956

Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972


giovedì 24 novembre 2016

Diva da elettrochoc

GRETA GARBO
Per chi non ha passato i quarant’anni, essa non è altro che un nome o poco meno. Né vale l’osservazione che le pellicole di Greta Garbo, non tutte, purtroppo, girano ancora per il mondo, ammirate da grandi e piccini: Grand Hotel, Ninotchka, Margherita Gautier, La regina Cristina. Importante non è vedere la <<divina >>, come allora venne chiamata, in film antichi che sottolineano con crudeltà la differenza fisica esistente tra la bella donna dell’<< età del jazz» e l’anziana signora nevrastenica, che detesta i fotografi, e che ciò nonostante viene ritratta in tutti i rotocalchi, infagottata in abiti qualunque, in compagnia di George Schlee, il marito di una sarta amica di Greta. Infatti la svedese fu niente di meno di un mito. Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le << Vamp >> del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. Senza contare le << dive locali >>, Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri, e son passati quasi trent’anni, il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichii argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata. Di rincalzo vennero i film europei della << divina >>, anteriori nel tempo ma presentati in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa della scoperta era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Europa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G.W. Pabst, e ne esce per cadere, a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. Per noi questo non è un semplice caso. Hollywood è quella che è: i suoi vizi, il suo conformismo, la sua arida e livellatrice mentalità industriale li conosciamo da un pezzo. E pure Hollywood ci ha dato un genio del cinema, Chaplin, e una quantità di direttori artistici originali e profondi: Vidor, Ford, Hawks, Capra, Sturges, Huston... Come mai
Greta Garbo non ha incontrato nessuno a Hollywood capace di comprenderla in pieno, in grado di superare il dato << divistico >>, di immergerla in una atmosfera concreta e nello stesso tempo fatale? Come mai una fortuna di tal sorta è toccata alla Lombard di XX secolo, alla Davis di Le piccole volpi, alla Stanwyck di Proibito, persino alla Goddard di Tempi moderni e non a Greta Garbo? La risposta ci sembra semplice: Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non << rende >>. In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta << europea >>.
Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stiller. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin.
                                                                  (continua)
Pietro Bianchi, Maestri del cinema, 1972


mercoledì 23 novembre 2016

Bloody Lardani


An another Sergio, Grieco, camuffato sotto Terence Hathaway made use of Iginio. La grafica è inconfondibile, aggiungete il Maestro supportato da Maurizio Graf e il prossimamente is served.

venerdì 18 novembre 2016

Camera scatenata

Supervisionata da Murnau, la camera << scatenata >> (è cosi che i tedeschi chiamano la camera mobile) non si presta mai a un giuoco artificioso. Di conseguenza ogni movimento, anche quando rivela la gioia che egli prova a liberare la camera dai suoi freni, ha uno scopo preciso, chiaramente definito. Cosi in
Tabú moltiplicherà le imbarcazioni indigene che si slanciano davanti a un veliero: accentuerà la diversità dei piani, farà incrociare le barche in un vivace montaggio in cui si vede l'eroe ritornare indietro col pretesto di andare alla ricerca di un fratellino in ritardo; avendo così agio di gustare il flusso e il riflusso delle sottili canoe che filano sull'acqua limpida.
Il successo dell'ammirabile inizio dell' Ultimo uomo è dovuto interamente al modo di manovrare la camera: attraverso i vetri dell'ascensore che scende abbracciamo con un solo colpo d'occhio l'intera hall dell'albergo con il suo baluardo di piani, sentiamo immediatamente l'atmosfera particolare che agita il fiotto continuo dei visitatori che entrano ed escono sotto lo scintillio delle luci vibranti di un moto ininterrotto; i contorni si rompono e si riformano, in un rapido concatenamento di immagini che mozzano il fiato.
Quando la camera è supervisionata da Murnau, tutte le risorse visive sono esplorate: essa mette a nudo, lentamente, sapientemente, tocco per tocco, il pietoso stato del portiere che qualche minuto prima ci appariva ancora ben protetto nella sonsontuosa e pesante sicurezza della sua livrea. Rivela spietatamente il colletto consunto di una giacca miserabile, il vestito sgualcito; e scende, perché nulla ci sfugga, lungo le gambe raggrinchiate nei pantaloni piegati a fisarmonica.
Murnau si compiace ad unire la mobilità della camera con gli effetti di ripresa attraverso un vetro, precisamente come ha fatto al principio del film riprendendo la hall dell'albergo attraverso i finestrini dell'ascensore in discesa. La scena che scatena il dramma - il direttore che annuncia al portiere che lo hanno assegnato a una funzione più modesta -  è vista di lontano attraverso una porta a vetri. La camera mobile si avvicina lentamente, fissa la confusione del portiere e la schiena indifferente del direttore. E, pure da un'altra porta vetrata, vediamo venir avanti la governante incaricata di condurre Jannings al suo nuovo posto; essa simbolizza con la rigidità del suo atteggiamento “il destino inesorabile” mentre nell'armadio luccica, simbolicamente, l'uniforme perduta. E' con lo stesso procedimento che Pabst mostrerà attraverso i vetri di una porta nel Diario di una donna perduta la scena decisiva fra Louise Brooks e Fritz Rasp, il suo seduttore, e che nell'Opera da tre soldi si sorprenderà Mackie Messer che prega Polly Peachum di seguirlo per sempre.
Murnau si compiace della superficie liscia dei vetri che sostituisce tanto spesso per i cineasti tedeschi quell'altra superficie liscia che è rappresentata dagli specchi. La sua camera indugia su quei piani opalescenti, grondanti di riflessi di luce o di pioggia: finestrini d'automobile, battenti a vetri della porta a bussola dove si riflette la silhouette del portiere vestito di un luccicante incerato, massa scura di case dalle finestre illuminate; pozzanghere luccicanti sul selciato umido. E' una maniera quasi impressionista di evocare l'atmosfera: sotto la sua direzione, la camera sa fissare quella penombra diffusa che viene di notte dai lampioni accesi, giuoca con le irradiazioni che sotto la spinta del movimento diventano vibrazioni, scanalature luminose; tenta anche di afferrare, nello specchio dei gabinetti i riflessi degli oggetti di toilette luccicanti o quello di una impalcatura nera che si intravede nella corte.
 Lotte Eisner, Lo specchio scuro, ed. Bianco e Nero, 1951

giovedì 17 novembre 2016

Le cinéma vu par Bonnaffé

Il grido, 1957, Michelangelo Antonioni

Chiedo asilo, 1979, Marco Ferreri

Citizen Kane, 1941, Orson Welles