mercoledì 8 giugno 2016

Praticanti lodevoli


Il compagno Sadoul bolla Joe May (all’anagrafe Joseph Mandel) come vecchio praticante ed il suo film Asfalto (Asphalt) del 1928 lo tratta con la sufficienza degna del suo compare Aristarco. Non meno dura nei suoi confronti fu Lotte H. Heisner nel suo Schermo demoniaco. Oggi, dopo il crollo delle ideologie che sostenevano quel tipo di critica, ugualmente le consorelle di segno contrario, e l’avvento per mezzo del web di un nuovo tipo di fruizione, Asfalto è un’opera da mettere a fianco con quelle più conosciute di F. W. Murnau e Fritz Lang. Asfalto è un film espressionista,l’angolazione delle luci e le prove attoriali degnano il film di Joe May del più ossequioso rispetto.



lunedì 6 giugno 2016

Vedi alla Voce Vintage


Di Vittorio Cramer (1908 – 2004) si è sempre conosciuta più la voce che il volto. Fu dapprima annunciatore alla radio, quindi voce del grande schermo. Al cinema si prestò sia come annunciatore radiofonico, quindi come voce narrante e qualche volta, raramente, attore o doppiatore. Il suo timbro vocale, con frequenze del suono che si possono definire, nel suo caso, accattivanti , dagli anni quaranta fino agli anni sessanta, è meglio conosciuto, fuori campo, nei “ prossimamente qui “, non solo per i film italiani ma anche per quelli importati. Al modo degli oggetti e dell’abbigliamento, oggi possiamo definire, con serietà, la voce di Vittorio Cramer vintage

domenica 5 giugno 2016

Vitaliano Brancati e il cinema

Per il cinema tutte le società, più o meno, sono dittature, che non consentono nemmeno - anzi meno che mai  - lo sfogo della fantasia. Così si spiega la mancanza di un cineasta classico e comico, come lo intendeva Brancati, ove si faccia I'eccezione di Chaplin. Si assiste, al più, ad una comicità di ripiego, convulsa o pacchiana, che rispetta sempre i tabù consacrati. In questa situazione, Brancati fece il massimo che si poteva fare, coadiuvato da uno Zampa particolarmente battagliero e risoluto: incise su alcune grosse
magagne della mentalità italiana, sfiorò i tabù e lasciò intendere quanto fossero dannosi, inventò alcuni tipi di sottomessi borghesi impantanati in avventure più alte di loro, mise in piedi alcune marionette azzeccate (di quelle che smontano da sè ogni obiezione, tanto è evidente la loro grottesca verità). E’ molto, è quello che nessun altro ha fatto, nel cinema italiano. Nel capitolo dell’ironia (e della satira, almeno potenziale), il suo nome, se non è l’unico, è quello di gran lunga piú grande di tutti.
Brancati sapeva che la dittatura è, nei riflessi dell’arte, una forma esasperata di grettezza mentale, di miopia, di difesa dei pregiudizi (antichi e nuovi, e inventati a bella posta). Sapeva che anche in regimi non dittatoriali, le stesse deficienze e gli stessi errori possono vivere e prosperare. Sapeva, insomma, che la sua sarebbe stata una battaglia da continuare sempre, contro le degenerazioni del conformismo: anche sul terreno impervio del cinema, il terreno piú esposto al conati dittatoriali e paradittatoriali. Se altrove si può sonnecchiare – una volta che la libertà si sia consolidata - e prendere maggior respiro da problemi più ampi, più profondamente e sostanzialmente umani, al cinema no. Al cinema questi sonni, quando si fanno, paralizzano, fanno precipitare ogni cosa nell’accademia, nell’esercizio a vuoto, nell’abbrutimento spettacolare. E se v'è una cosa da salvare, ad ogni colto, nel cinema italiano (e, naturalmente, non solo in quello italiano), è la possibilità dell'ironia. Il gusto, l’amore per l’ironia. Tanto da farsene un programma, da crearsene una costante che valga in tutti i casi, come riserva morale. Per questo, la tendenza di cui Brancati fu assertore è forse la più importante di tutte quelle che si possono coltivare. (S’intenda si distingua, com'è ovvio: importanti sono tutte le tendenze quando favoriscano il sorgere di opere significative, e non esiste una graduatoria dell'importanza in senso assoluto; quì si parla – anche astraendo dalle opere - d’importanza relativa e indiretta, di stati d’animo da diffondere, di contravveleni da predisporre contro le molte, possibili o effettive, infezioni).
Allora, opera soltanto negativa, correttiva, demolitrice quella di Brancati al cinema? Forse sì. Ma unicamente perché non ebbe la possibilità di svolgersi tutta quanta sino alle conseguenze estreme, di realizzarsi in senso davvero compiuto; non per mancanza di un proprio centro vitale che qualcosa volesse affermare, oltreché molto distruggere e su molti pericoli mettere in guardia. Con L’arte di arrangiarsi l’ultimo film scritto da Brancati che Zampa sta girando, si potrà forse avere una espressione piena e autonoma, libera dagli impacci della semplice negazione di qualcosa. Questo sarebbe stato magari – se Brancati fosse vissuto – il punto di partenza per l’abbandono del terreno artigianale e per l’ingresso dello scrittore nei quadri dell’arte cinematografica.
E' vero che, capovolgendo le se negazioni, i suoi “anti” (antifascismo, anticonfessionalismo, antibellicismo eccetera) e richiamandoci alla parallela esperienza letterale, potremmo anche schizzare un ritratto della personalità costruttrice di Brancati, ma non andremmo al di là di alcune ipotesi. Non abbiamo dati di fatto precisi per un giudizio: il personaggio del fascista controvoglia di Anni difficili e quello del professore onesto di Anni facili emergono appena dal sottofondo delle polemica e non si traducono in figure capaci di sostenere il peso di una ispirazione autentici. Sono abbozzi, notazioni, tentativi, come del resto lo sono i personaggi più fortemente ironizzati e caricaturati. Rimaneva ancora da giungere un equilibrio o, meglio, uscire dal piano del ragionamento e della tipizzazione esasperata per entrare in quello dell’umanità: sia per gli uni che per gli altri. Ma la via è stata indicata con chiarezza. Chiunque In può seguire, purché voglia, e non gli manchino il coraggio e l’impegno. FERNALDO DI GIAMMATTEO  (fine)
Cinema, quindicinale di divulgazione cinematografica Anno VII, 10 novembre 1954

domenica 29 maggio 2016

Vitaliano Brancati e il cinema

                      SERVIRA' A TUTTI LA STRADA DI BRANCATI

Se si facesse, un giorno, un discorso sui soggettisti del cinema italiano, si scoprirebbero cose insospettate. Siamo avvezzi a parlare di Zavattini, e di Zavattini soltanto, quando l’attenzione si sposta dal regista, centro della creazione cinematografica, a chi gli ha fornito la materia su cui la creazione si concreta. Scopriremmo, per esempio, alcune linee fondamentali di sviluppo che si possono spiegare assai meglio (e giustificare muovendo dalla personalità degli inventori del mondo fantastico entro il quale i film sono andati a inserirsi. Ma la nostra superficialità e la nostra fretta - e magari certa intristita adorazione del mito piú semplice, esteticamente più semplice, quello del regista - ci hanno finora impedito di prestare ascolto alle voci, oltreché di uno Zavattini, di un Amidei,di un Felllini (il Fellini del primo tempo), di un Brancati. Ci  sarebbe tutta una storia da scrivere,  a pensarci bene: una controstoria addirittura, o una storia parallela. Per poi scoprire il punto di sutura, il momento della fusione e della nascita delle poche opere compiute (ed anche di quelle incompiute, per difetto di intesa, o per mancanza di coraggio).
Mancanza di coraggio: fermiamoci all'ultimo punto. Siamo oggi dinnanzi alla scomparsa d'uno degli esempi
rarissimi di coraggio intransigente che abbia potuto vantare il cinema italiano.
Diciamo la scomparsa di Vitaliano Brancati. E’ probabile che egli, al cinema non dedicasse la stessa  puntigliosa volontà di ricerca morale che dedicava alla letteratura. Che il cinema fosse un po’ il suo secondo mestiere, il banco di prova delle invenzioni più caduche, degli esperimenti, delle concessioni chesi potevano fare al gusto di un pubblico non  selezionato. Ma Brancati, intanto, non ha mai disprezzato il suo pubblico, come gli altri fanno: non gli ha mai nascosto le sue intenzioni (di letterato alle prese con una macchina che non era, e non doveva essere, la sua consueta),  né gli ha mai negato la facoltà di comprendere, di giudicare e di apprezzare il valore dell’intelligenza. Ecco una prova di quel coraggio – di quell'onesto, umile coraggio da cui si trae la forza per dire quanto è giudicato giusto, con ogni forma di espressione - che si vorrebbe vedere più diffuso. Coraggio che è impegno, amore al proprio mestiere (qualunque esso sia, pur- ché liberamente scelto), volontà di non rinunciare, cocciuto desiderio di piegare le circostanze alla propria misura morale ed espressiva.
In quella controstoria che auspichiamo, Brancati occuperebbe il capitolo dell'ironia: della satira, se si vuole. Un capitolo di enorme importanza, che vorremmo arricchire a mano a mano che il tempo passa,un filone da tenere vivo come una possibile ancora di salvezza quando il resto fosse divenuto troppo difficile e contrastato. Dopo la lezione di Brancati, la cosa potrà essere piú agevole: avremo almeno un punto fermo a cui riferirci La reazione artistica alla dittatura (o al paternalismo: e per l’arte non fa molte differenze) si traduce sempre in termini dl analisi del costume: il rovescio di una medaglia ufficiale, o confessionale, la piccola vita degli uomini, quando divise e devozioni vengono messe da parte. Entro questi contorni brevi si snoda la poetica di questi artisti. Non c’è verso di andar oltre, quanto a spazio e a respiro, ma ciò non toglie (anzi) che il risultato possa essere alto, e non passeggero. Anche Brancati si muoveva su questo terreno; anche il cinema di Brancati, i suoi personaggi (consegnati, negli unici due esempi efficienti, a Zampa), le sue pitture della vita di provincia nascono di qui,  qui muoiono. I risultati alti, non passeggeri, lo scrittore li andava conquistando in letteratura, e  di ciò non gli faremo colpa. Ognuno sceglie la sua sfera di azione ideale – l’abbiamo detto sopra – ma l’importante è che nel resto non indulga al compromesso, non si arrenda alle situazioni esterne: la forza espressiva, e la vitalità delle opere, sono altro discorso.
Brancati portò, in questa analisi del costume, idee chiare. Le stesse che gli fornivano un sostegno razionale al lavoro letterario. – “ La dittatura - leggiamo in un saggio postumo che e stato pubblicato da Il Mondo riporta indietro le cose, più indietro del decadentismo, e più indietro del romanticismo. Dovendo lottare contro un atto concreto, solitario e monotono com’è la tirannide, la mente degli scrittori che aspirano alla libertà diventa estremamente semplice. Il loro gusto si può veramente chiamare classico, senza paura di usare una parola approssimativa … Il classicismo al quale noi ci riferiamo è quello dei vari scrittori, rimasti liberi pur dentro la stretta ferrea della dittatura, liberi non nell’attività politica, ma nell’articolazione della loro fantasia. Questi scrittori sono classici comici. Classici pèrché sono semplici, comici perché il continuo spettacolo di una società di marionette ha svegliato in loro il sorriso e il riso ”. FERNALDO DI GIAMMATTEO  (continua ...)

Cinema, quindicinale di divulgazione cinematografica Anno VII, 10 novembre 1954

mercoledì 25 maggio 2016

Nel segno di Marguerite

Margherita de la Motte
 È nota in Italia da parecchi anni. L’abbiamo vista, graziosissima, attraente, in due films di Douglas  nel Segno di Zorro e in Douglas inventore per burla. E’ nata a Duluth negli Stati Uniti nel 1903 da genitori di orgine francese e giovanissima si dedicò alla danza. Douglas apprezzò presto le sue qualità e l’ingaggiò per alune films; successivamente vedendo in lei un’artista di grande avvenire, le affidò parti di maggiore importanza ed eccola a fianco di Zorro nel film famoso che diede, anche a lei, fama ed onori. Bionda, intelligente, alta, amante della musica e compositrice, Margherita de la Motte ha un sicuro avvenire innanzi a sé. Per la storia diciamo pure che non è maritata.

Cine-Cinema Anno II -N. 7, Aprile 1926

domenica 22 maggio 2016

Piccoli maestri contaminanti

OGGI

Nell’industria cinematografica la contaminazione è una consuetudine o per meglio dire una soluzione. Che ne dite della contaminazione più estrema: la cineteca italiana per stornare il pubblico anziano dalla televisione e quello più giovanile dal web fa salire in cattedra accanto ad un critico d’assalto o un pantofolaio alla Canova gli italici registi del B Movie se non dell’ultra b movie. Uno di questi fu Antonio Margheriti alias Anthony Dawson alias Antony M. Dawson. Altresì ad omaggiarlo ci pensano Tarantino ed i suoi “ bastardi senza gloria”. Per la verità dapprima, ed in vita, aveva provveduto il Maestro dei Piccoli Maestri quando, nel 1972, gli affidò la seconda unità e gli effetti speciali di Giù la Testa.
Nelle contaminazioni cinematografiche Antonio Margheriti era un gentlman garbato, prova ne è Ursus il terrore dei kirghisi del 1964. Per farla breve, capita spesso che un genere, o se preferite un filone, quando va ad esaurirsi lo si innesta con altro più fresco. In questo caso il mitologico, il peplum,  Margheriti lo riattiva con l’horror alla Edgar Allan Poe e la suspence hitchcockiana; ancora, il maestro della suspence viene derubato anche delle sue incursioni nella psicanalisi presenti in Io ti salverò. Ecco, Ursus per mezzo delle sue trasformazioni orrorifiche vuole salvare la fanciulla che lo ama facendole riacquistare la memoria perduta, causa un delitto quando non era che una infante.
 Per confezionare questa ragguardevole messa in scena Antonio Margheriti ricorre alla sapienza nelle luci di Gabor Pogany e per dare un lustro più intellettuale alle azioni ad Ettore Manni che in quegli anni si destreggiava tra Antonioni, Cottafavi e Tony Richardson. Vi partecipa anche il cattivone Furio Meniconi che a tratti ci ricorda Livio Lorenzon a tratti Orson Welles.FINE
Antonio Margheriti
1930 - 2002

Furio Meniconi
1924 - 1981



lunedì 16 maggio 2016

Il cinema è emulsione




Dorothy Arzner, Get your man, 1927