giovedì 27 febbraio 2014

Limite è cinema?

OGGI
Al Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu"



Edgar Brazil e Mário Peixoto nel filmare  Limite
 Limite , 1931, di Màrio Peixoto è un film singolare. Lo sono anche One Eyed Jacks ( I due volti della vendetta, 1960 ) di Marlon Brando e David Holtzman’s Diary , 1967 di Jim Mc Bride  .
Limite lo hanno reso visibile gli attestati di lode di Sergej M.  Eizienstejn e Vsevolod Pudovkin i quali spinsero il sommo critico Geoge Sadoul a volare in Brasile con la speranza di vederlo integrale.
Ora vi chiarisco in che cosa consiste  Limite.
C’è un bambino che si nutre di film, e li sogna; grandicello comincia a frequentare i cineclub della città, concomitante è la lettura di testi illeggibili sul cinema,teoria, prassi , semantica, semiotica …; quindi incontra qualcuno che possiede una cinepresa 16mm o super-8.  La cinepresa è donna.
Il neo filmaker ha dei fotogrammi in testa così come delle singole scene che lo perseguitano e ritornano nelle nocturnal pollutions. Non di solo pane si è nutrito ma di ogni singolo scatto dei ventiquattro al secondo.
Ottiene in dono da Filippo Isolino fotografo alcune bobine di pellicole scadute, - Peixoto usò pellicola pancromatica sviluppata, a volte, suggerendo l’dea di un’ortocromatica - così che all’istante lo assale la voglia di impressionarle.
Senza alcun progetto, con  metà delle bobine prova le possibilità della cinepresa; l’altra metà serve a catturare delle sequenze più stabili e vi aggiunge anche, davanti all’obiettivo, uno, due amici per provare gli angoli, i campi lunghi e i primi piani; tenta pure qualche timido movimento sul proprio asse.
Le pellicole partono per il laboratorio onde essere sviluppate. Al loro ritorno dopo una prima visione vengono tagliate e cucite. Non vi è colonna sonora, quindi nessuna possibilità di commento audio, anche le didascalie vengono rimosse.
Time passes. Il lavoro lo guarda il Ghezzi di turno. Due righe, che diventano quattro, sulle metafore, i tropi e le ellissi contenute nel film, sui richiami a film di autori riconosciuti ed i consueti omaggi ai maestri.




mercoledì 26 febbraio 2014

Cinema di poesia ( per gentile concessione)



C'era una volta
Mari di nostalgia sommergono ogni senso
mentre immagini di vecchia America scorrono
evocando emigranti di vita intrappolati in
infinita memoria.
Malessere da pienezza, piacevole malinconia
di ciò che non ritorna, di amorevoli assenze
che rendono ogni gioia impossibile.
Tra tuffi nel passato e musiche sublimi
i ricordi diventano protagonisti e riportano
trepidanti emozioni di un amore mai vinto,
abbagliato da purezza e candore
di fanciulla ambiziosa , di volare più in alto ,
del suo amato aspirante.
Già finisce una storia che non è mai cominciata,
ma non cessa l'amore nato quasi spiando
passettini di danza così tanto lontani
dalle strade violente di un'America antica.
Un amaro presente di un amore
mancato e una vita rubata dall'amico più amato
Ubriaco d'immagini e di musica rara
spengo giusto quel tasto per accendere
ora ogni mia convinzione e
di viver pienamente ogni amore profondo
e la mia vita, la mia...

Claudio  Silvestro D’Audino

Messina li 17 novembre 2013



martedì 25 febbraio 2014

Mao Tse Tung in Calabria




All’interno dell’Unione dei marxisti-leninisti lavorai come regista nel settore della stampa e propaganda. Ho collaborato a due film: Paola, la storia di un’occupazione di case popolari organizzata e guidata da militanti Uci nella città di Paola in Calabria; e Viva il primo maggio rosso, documentario sulla manifestazione trionfalistica organizzata dall’Unione in varie città d’Italia il primo maggio.
Paola fu progettato da compagni artisti assieme a membri del partito (dirigenti centrali). Fu girato secondo un’idea che in teoria era giusta: protagonista del film doveva essere il popolo di Paola. Il popolo ha le idee giuste e dunque è il popolo che le deve esprimere. I membri del partito non devono parlare per il popolo, devono limitarsi a organizzare le idee per il popolo, a sintetizzarle, lo devono aiutare a risolvere le sue contraddizioni, ecc. ecc. Questi i propositi, che la realtà in parte contraddisse: nell’inchiesta che conducemmo nei quartieri più poveri di Paola documentammo soprattutto una grande sfiducia, nessun ottimismo, un fatalismo disperato nel presente e nel futuro, una scarsa coscienza politica.
Durante il montaggio, le immagini che rappresentavano i vecchi abbandonati, i malati, che indagavano, soffermandovisi, sugli aspetti più ripugnanti e disperati della miseria, vennero in gran parte tagliate, proprio perché il partito le considerava dei compiacimenti decadenti e perché, soprattutto, voleva dare un idea del popolo sfruttato e sofferente, ma attivo, ottimista, rivoluzionario. Tutti i discorsi disfattisti vennero mutilati, conservando per esempio quei punti in cui l’intervistato si scagliava contro i politicanti, i partiti, i parlamentari, in cui manifestava un odio attivo contro i suoi sfruttatori. E si mettevano  nella massima evidenza quei discorsi frammentari, e neppure completamente spontanei, di coloro che avevano già occupato le case popolari e decantavano lo stile proletario e altruistico che si era instaurato tra gli occupanti. (Marco Bellocchio)


Una volta siamo andati a girare un film sulla Sila per l’Unione! Con Franco Angeli, Marco, Lou Castel … Un continuo processo: no, questo fotogramma no, discussioni continue …  Mi guardavo intorno, e nonostante tutto mi divertivo, mi dicevo: guardiamo chi ci può cascare: io, per primo, Marco Bellocchio con quell’aria un po’ da prete, Lou Castel, Franco Angeli che è a ridosso di tutti, i quattro più predisposti! Marco, essendo la persona più nota, era quella più corteggiata. Ma loro poi al partito gli hanno dato due lire, l’unico che ha dato veramente i soldi sono stato io. Con la Sila ho raggiunto il mio culmine e ho lasciato perdere. Così me ne sono andato a Venezia a presentare Umano non umano. E a Venezia c’era un ricco dell’Unione, uno molto ricco che in Sardegna aveva motoscafi che si chiamavano Mao 1 e Mao 2, non scherzo. Mi affrontò e mi disse: “  Tu sei qui? “. E io “ E tu, dove sei? “.(Mario Schifano)

lunedì 24 febbraio 2014

Tristana



Tristana  Luis Bunuel
   Tutto in Tristana sembra essere destinato all’abbandono, alla perdita, alla sostituzione, alla riduzione. Tutto quello che scampa a questo destino finisce in pentola, o nel secchio della spazzatura.  Qualcosa viene riguadagnato, per essere nuovamente perduto, e qualcuno torna al suo posto, per andarsene definitivamente.
Enzo Ungari


domenica 23 febbraio 2014

Law West of Pecos

OGGI

Walter Brennan 1894 - 1974


 The Westerner ( L’uomo del West, 1940 ), assieme a Stagecoach (Ombre Rosse), di un anno più vecchio, sono i film che deviano il genere più classico del cinema sulla via della maturità. Gli unici precedenti, a parte le classiche due bobine ed i successivi lungometraggi dell’epoca prima del sonoro sono The Texas Rangers ( I Cavalieri del Texas, 1936 ) di King Vidor, The Plainsman ( La Conquista del West, 1937 ) di Cecilio De Mille, Wells Fargo ( Un mondo che sorge, 1937 ) di Franco Lloyd.
A differenza di Stagecoach il film di William Wyler, che qui si rivede,  in fase di sceneggiatura  si concentra sulla psicologia che caratterizza le vicende dei due protagonisti: il giudice Roy Bean ed il giovane cavaliere diretto verso la California. Questa particolarità da modo di dipingere da una parte, il giudice Bean, i tratti di un pittoresco matto, occhi maniacali, grinta e devozione da cavalier servente per la sua adorata cantante Lily Langtry; dall’altra, il giovane cavaliere, pacato, laconico,sguardo ironico, svelto nell’estrarre la pistola, elegante cavallerizzo. I due si attraggono a vicenda da subito vuoi per la furbizia del giovanotto, vuoi, nel vecchio, per la mancata paternità: per tutto il film appellerà “ son  “ il giovane Cole Hardin.
Per scansarmi lo svolgimento dei fatti vi accenno soltanto che la trama  a volte dimentica il West, abbozzato nell’eterno conflitto tra allevatori ( rudi migranti ) e contadini ( pacati stanziali ) per concentrare il tutto, come si è detto, sull’amicizia, a volte ambigua, reciproca tra Roy Bean e Cole Hardin. The Westrner, sapientemente , evita tutti i cliché del genere western, attingendo dai tragici greci.
Gary Cooper quando lesse il copione si preoccupò non poco, credendo di vedersi messo da parte, star ormai riconosciuta, da Walter Brennan che si può dire il deus ex machina, il personaggio su cui si concentra la maggior parte del film, mettendo di fianco a volte il signor Cooper. Per lui si imbastì, a consolazione, una tenera love story tra la giovane contadino, già prediletta da uno dei suoi farmer, e lo spilungone infantilmente innamorato.
La sapienza di Jo Swerling e Niven Busch, gli sceneggiatori, nel finale mette sullo stesso piano il matto vecchio ed il furbo giovane: il primo colpito a morte dallo pseudo figlio viene da questi portato davanti all’effige reale dell’adorata cantante per consentirgli di chiudere gli occhi su quella bellezza vagheggiata/vaneggiata per tutto il corso del film.
Il lavoro di William “ Sunset Boulevard “ Wyler alla sua apparizione soffrì per il poco successo al botteghino, rispetto ad altri campioni d’incasso dello stesso periodo, ma alla lunga, come tutte le opere classiche che non vedranno mai il  “ viale del tramonto “, mantiene ancora oggi il suo fascino e molto spesso è stato citato dalle giovani leve che hanno affrontato il western, tra tutti cito solo Sergio Leone Tolstoi “ western’s magister “.
A questo punto rimane solo da lodare il cinematographer  Gregg  Toland che sfrutta al meglio la luce esterna, a volte filtrandola attraverso la polvere come accade nella scena della scazzottata tra Gary Cooper e Forrest Tucker, nel corso della quale i sue si intravedono solo come ombre scure catturate su sabbia chiara.

giovedì 20 febbraio 2014

Estetismo, realismo e realtà


Eduard Kazimirowic Tisse 1897 - 1961

Attualità della storia, verità dell’attore non sono altro che la materia prima dell’estetica del film italiano.
Il reale come l’immaginario appartengono, i arte, al solo artista, la carne e il sangue della realtà non sono più facili da trattenere nella maglie della letteratura o del cinema di quanto non lo siano le fantasie più gratuite dell’immaginazione. In altri termini, quando l’invenzione e la complessità delle forme non riguardano più il contenuto stesso dell’opera, non per questo cessano di esercitarsi sull’efficacia dei mezzi. E’ per averlo dimenticato un po’ troppo che il cinema sovietico è passato in vent’anni dal primo all’ultimo posto fra le grandi produzioni nazionali. Se il Potemkin ha potuto sconvolgere il cinema non è solo a causa del suo messaggio politico, e neppure perché sostituiva lo staff dei teatri di posa con gli ambienti reali e la star con la folla anonima, ma perché Ejzenstejn era il più grande teorico del montaggio dei suoi tempi, perché lavorava con Tissé, il miglior operatore del mondo, perché la Russia era al centro della riflessione cinematografia, in una parola perché i film “ realisti “  che essa produceva nascondevano più scienza estetica che non le scenografie, le luci e l’interpretazione delle opere più artificiali dell’espressionismo tedesco.
Lo stesso vale oggi per il cinema italiano. Il suo realismo non comporta affatto una regressione estetica, ma al contrario un progresso dell’espressione, un’evoluzione conseguente del linguaggio cinematografico, un’estensione della sua stilistica.
Bisogna innanzitutto capire bene a che punto si trova il cinema oggi.  Dopo la fine dell’eresia espressionista e soprattutto dopo il parlato, si può ritenere che il cinema non abbia smesso di tendere verso il realismo. Vogliamo dire in sostanza che esso vuol dare allo spettatore un’illusione il più perfetta possibile della realtà, compatibile con le esigenze logiche del racconto cinematografico e i limiti attuali della tecnica. In questo il cinema si oppone nettamente alla poesia, ala pittura, al teatro, per avvicinarsi sempre di più al romanzo.

 Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.
tratte da Che cos’è il cinema?, Garzanti, trad. Adriano Aprà