film SETTIMANALE
DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V - N. 6
7 FEBBRAIO 1942
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
domenica 13 ottobre 2019
giovedì 10 ottobre 2019
The Evolution of the Western Movie from 1899 to 1954 pt. 2
Nei primi
trent'anni si poteva contare, per questa categoria minore, su una media annua di 156 western in serie: 8 o più per ogni casa di produzione (ad eccezione della Metro Goldwyn Mayer
che terminò la serie di Tim McCoy poco prima dell'avvento del sonoro. In questo periodo, verso il 1930, si ritirarono da questa speciale produzione anche i fratelli Warner
- che
avevano ottenuta una certa notorietà con le serie di
John Wayne e, più tardi, di Dick Foran - ma tale assenza fu appena avvertita nel complesso dei western B, che erano ancora un affare:
venivano a costare dai dieci ai ventimila dollari e si portavano a termine in meno di una settimana. I western musicali di Gene Autry per
la Republic fecero la fortuna di questa casa
di
produzione.
Nel 1940, i western si potevano dividere
in due categorie ben distinte: da una
parte quelli
grandiosi, che si elevavano ad espressione epica e non avevano un ritmo regolare di produzione: i colossi come Stagecoach e Dodge City; dall'altra,
puntualmente, i modesti filmetti a buon mercato di cinque bobine, che avevano
come protagonisti Buck Jones, Tim McCoy, Johnny Mack Brown, Tom Tyler, George
O'Brien, Tom Keene, Charles Starrett,
Tim Holt, Gene Autry, Roy Rogers, Bill Elliot, Tex Ritter, Buster Crabbe. William Boyd, John Wayne, Ken Maynard, Bob Steele, Bob
Baker, Ray Corrigan, Robert Livingston ed altri ancora - forse il più grande schieramento, che si sia mai verificato nella storia del cinema, di attori veramente
importanti che abbiano lavorato tutti nello stesso tempo. Molti di questi ottimi attori, superstiti delle avventure selvagge del cinema muto,
erano però ormai prossimi al ritiro dallo schermo e vennero sostituiti da nuovi interpreti come John Kimbrough, Eddie Dean, Lash LaRue e Whip Wilson che tentarono di inserirsi nella tradizione
classica dei loro predecessori e lasciarono di sé un ricordo senza infamia, ma anche senza lode.
Dieci anni dopo, nel 1950, il principio della fine s'avvertiva già nell'aria. Ormai la
produzione dei western di categoria B non
dava più quel margine di sicurezza come nel passato. Molte serie erano state perciò eliminate e quelle
che ancora resistevano
sul mercato diminuivano la loro percentuale annua da otto a sei per casa cinematografica. Quasi tutti i mancati guadagni,
riscontrati in questi ultimi anni nell'industria del cinema sono stati attribuiti alla maligna influenza della televisione e dell'eccessivo costo di produzione. Di solito, panico
e isterismo hanno
esagerato
tali
supposizioni, ma nel caso dei western di seconda categoria non si può dire, in coscienza, che tali accuse
fossero ingiustificate, specialmente per quanto riguarda il fattore economico. L'aumento del costo di produzione, riferito ai western B è una realtà: la media di 15.000 dollari per film durante i primi trent'anni, è salita di
recente a
50.000 dollari. E per restare in questa cifra si rende necessaria una rigorosa
economia: il film dev'essere realizzato in uno spazio di tempo ancor più
limitato e bisogna rinunciare alle dislocazioni – per gli esterni - troppo dispendiose, alle costosissime controfigure per le acrobazie pericolose, alle scene di masse. Tutt'al più, quando non se ne può fare a meno, s'inserisce per taluni di maggior risalto qualche pezzo d'un vecchio film. Come risultato di tutte queste economie si ottiene un westen che ha un aspetto familiare
di cose
viste
e manca di
quella corposità, vivacità o irruenza, di quell'impressione di ampio respiro
che avevano invece i western,
se pure a buon mercato, di dieci o quindici anni or sono. La R.K.0., con le sue serie di Tim Holt, è stata l'unica che per un certo periodo di tempo abbia
insistito,
nonostante l'aumento del costo, su una produzione che conservasse i valori, o almeno la solidità
commerciale d'una volta. Ma, malgrado le relative forti spese, alla resa dei conti, gli incassi non
superavano affatto quelli dei film dello stesso genere, prodotti da altre società cinematografiche. Un “sessanta minuti
" di
Tim Holt
costava 90 mila dollari e rendeva come i western
della Monogram o della Republic, che costavano la metà, e che pur erano considerati già un rischio. I western della R.K.O. furono i primi allarmanti segni della crisi. (continua)
WILLIAM K. EVERSON
CINEMA quindicinale di
divulgazione cinematografica Volume XII Terza serie Anno VII – 1954 10-25 Dicembre
In alto: a sinistra Dustin Farmum e Dick Lareno nella prima edizione di The Squaw Man (1913) di Cecil B. De Mille; a destra Elliot Dexter e Noash Berry nell.a seconda edizione del medesimo film (1918).
mercoledì 9 ottobre 2019
Form traces
Form traces the outline of the soul.
Le tracce della forma sono il contorno dell'anima.
lunedì 7 ottobre 2019
Andrej Tarkovskij in Sicily - & Dostoevsky's The Idiot
25 July, 1980 Taormina
This morning I talked to Anna
Semyonovna. Lara will be there today. Tyapus must be staying on
in the country.
I've been thinking about The
Idiot, and it seems to me that it would be possible to disrupt the
sequence of the plot, and the episodes, because structure is not at all
the same in literature as it is in film.
This evening there was a
rehearsal for the prize-giving ritual.
Bought three Indian dresses. I've
bought almost everything. Only one or two oddments left to do
tomorrow.
Donatella was very helpful.
We're dog-tired.
Andrej Tarkovskij, The Diaries, 1970-1986
domenica 6 ottobre 2019
NUNZIO MALASOMMA
I REGISTI (senza peli
sulla lingua)
DI EUGENIO GIOVANNETTI
Nunzio Malasomma
1894 - 1974
Non sarebbe male cominciare con una piccola predica
brillante sulla mediocrità, fiera crudele e diversa. Chi non fu mai mediocre
nell'arte sua, scagli la prima pietra.
Oh sì, io scaglio la pietra, e sono mediocre tuttavia. Beate
le arti dal climi estremi, che non conobbero mai la poltrida bestia dalla mille
iridi: la pittura spagnola, per esempio, in cui non fu mai lecito esser nel
mezzo e si fu sommi o si fu infimi. La nostra pittura? Troppi
ingegni contenti di sé, equilibrati, espansi (un latinismo odioso quanto impeccabile, che traduce perfettamente il
francese rêpandus).
Un pittore come Andrea del Sarto, un decoroso, un felice
mediocre, non è immaginabile nel paese in cui lo spirito è alla bassura di
Sancio o al delirio di Don Chisciotte. O sono El Greco o sono l’imbianchino:
non vogliono bestia che sia tra l’asino di Sancio e l’alato Ronzinante.
A galoppo per un'ora
sulla mia chimera, dannato e povero. Il resto, che conta? In quasi tutte le
arti la mediocrità è protetta? E che m’importa, se per un’ora almeno avrò
respirato nella mia apocalisse? Beati, in arte, i fanciulli che precipitano al
primo passo! Voleranno, un giorno, più alti del cherubino.
Non c'è che un’arte oggi, al mondo, in cui la saggia
mediocrità sia di prammatica, sia proclamata e conclamata come una forza:
l'arte del regista. Assicurarsi, a forza di saggie concessioni, il consenso di
quell'oscura potenza multanime ch'è la folla, può parere ed essere una sana prudenza.
Nel cinema, ritrovare l’aspirazione segreta degli innumerevoli e blandirla, per
bassa e turpe che sia, è pur sempre al segreto d`un successo perfettamente
legittimo in quanto l'industria cinematografica non se ne proponga altri. Il cinema non sì fa pei soliti
dodici o ventiquattro avanguardisti. E', al contrario, il più largo presente
dei presentisti: e voi, artisti mancati e insoddisfatti, che non tollerare la
mediocrità, rompetevi il collo altrove con la vostra chimera.
Il cinema è Sancio che si camuffa, se vuole, anche in cherubino.
Un troppo lungo preambolo, forse, per affrontar la
mediocrità decorosa di Nunzio Malasomma, ma in non ho mai saputo in realtà da
che parte prendere questo regista dignitosamente impersonale, che fa, ogni tanto,
una comparsa soddisfacente e poi scompare senza mai lasciar detto né dove vada
né quel che intenda di fare.
Dev`essere in lui qualche disdegno o qualche riserbo,
perché, ed è sempre stato, il regista italiano che fa meno parlare di sé, avendo pur l`aria d’essere ben contento
di sé. Poco si sa di lui, delle sue abitudini, dei suo passato. Sappiamo che ha
viaggiato e che lavorava in Germania al tempo della dispersione, coi Righelli,
coi Bonnard.
Ebbe, certo, in Germania la cinematografica ventura
d’imbattersi in Luis Trenker, allora nel suo primo romantico fiore. Oggi Luis Trenker è un po' il Gigione delle
vette. Allora, Nunzio Malasomma e Mario Bonnard potevano ancora combinargli un
truculento e romanticissimo film: I
cavalieri della morte.
Nel 1931 il Malasomma è con gli altri in Italia: ed eccolo
alla Cínes con l'Uomo dell’artiglio e
La cantante dell’opera. Il suo
passaggio alla Cines non lasciò veramente segno alcuno: la mediocrità del
Malasomma in cose come La telefonista
era un po’ troppo grigia. Francesco Pasinetti ricorda nella cantante dell’opera un'interessante ricerca d`effetti
contrappuntistici tra immagini e suoni. lo ho il ricordo ben vivo di quelle
ricerche non tanto nella Cantante
dell’opera quanto nella Vecchia
signora d'Amleto Palermi.
Il merito di quelle ricerche va, del resto riconosciuto oggi
al musicista Umberto Mancini assai più che ai registi. La trovata era quasi
sempre essenzialmente musicale e seguiva e animava l'immagine. Il musicista Mancini aveva allora una fresca vena umoristica, che s'è
perduta. Nella Vecchia signora la
galoppata del vecchio sfiancato cavallo di botticella sui selciati di Roma era
un capolavoro d'umorismo musicale, che vivificava d'un tratto, attraverso la
suggestione ritmica soprattutto, una sequenza che sarebbe stata in sé grottesca
e triste.
Un musicista che avesse oggi quella vena potrebbe rendere
ancora servizi preziosi alla nostra commedia filmica. Ma la nostra mu sica
filmistica è oggi così boriosa nella sua funzione di tappezzeria! Vuol mettere
sempre arazzi dove basterebbe un caprifoglio rampicante sotto una dannata fuga
di rondini.
Nelle successive comparse abbiamo sempre visto un
Malasomma dal mestiere esperto, ben curato, soddisfatto, anche in cose di
colore leggero come Nina, non far la
stupida. La commedia è visibilmente il suo forte: e tutto in questo genere
gli va.
Eravamo
sette sorelle:
qualcuno gli ha manipolato per un film, per un titolo almeno, anche questa divina
fiabetta che profuma tutta l’opera dannunziana, come un invisibile sacchetto di
lavanda profuma tutto un guardaroba. Ci dovrebbe essere una censura dei titoli
cinematografici, che punisse siffatte profanazioni. Eravamo sette sorelle: questo piccolo sacchetto di spigo, la sola
cosa forse che, tra mill'anni, i poeti trarranno ancora odorante di sotto ai
muffiti damaschi del guardaroba dannunziano, ecco che il cinema pretendeva
calpestarla sotto i suoi zoccoli grigi. Il lettore si rassicuri. Nunzio
Malasomma non è riuscito a seppellir la fiabetta sotto i passi spietati del suo
film.
Ho visto or sono alcune settimane, Nunzio Malasomma
nella sua novissima comparsa: Scampolo. Abile, accurato, ingegnoso, dignitoso
più che mai. Vecchio teatro per la giovanissima Lilia Silvi. Ha saputo farla
rendere, come nessuno saprà più. Non poteva dare più che tanto la piccola, ma
quel tanto Io ha dato, e a meraviglia. Quando compare, Nunzio è sicuro di non
fare uno sproposito. Se no, non comparirebbe.
Che cosa farà domani? Una cosa altrettanto ingegnosa e
sicura. Non vi preoccupate. Quando l’eccellenza Cipriano Efisio Oppo abitava a villa Strohlfern, assentandosi
soleva lasciare un laconico bigliettino sulla porta, in cui si leggeva: «sono
uscito›› o «ritorno›› « non ci sono sino a lunedì ››. Nunzio Malasomma non lascia mai detto nulla sulla sua ermetica porta: ma
potete star sicuri che quando meno ve l’aspettate, tornerà soddisfatto e se ne
riandrà soddisfattissimo.
Tutto sommato, o, meglio, tutto malasommato, io amo
questa regista perché è, tra i nostri, quello che lascia far meno chiacchiere
sul suo conto, quella insomma che importuna meno la gente con interviste e
ciance e s'accontenta di fare meglio che può. Una media dignitosa? Vada. La
sola insopportabile è la media boriosa, che, quando non vi seppellisce sotto le
chiacchiere, tace per insoddisfatta superbia.
Per avere scritto due parole gentili su d’un La
Rochefoucauld, l`interessato s’affretterà a ringraziarvi con una lettera: ma raramente riceverete due righe di
ringraziamento da un regista mediocre da
elogiato in pubblico con la più ingegnosa cordialità. Un autista
sarebbe, in casi simili, molto più gentile d’un insoddisfatto e borioso manipolatore di film.
Ma la vera, la peggior mediocrità è forse proprio
quella, che s`aspetta ringraziamenti o gratitudine. Bisogna far sempre le cose
per quel tanto di buono ch'esse hanno in sé, e non pensar mai a quel che
l’interessato ne dirà. Fummo mediocri perché volemmo troppo piacere: bisogna
dir sempre quella che ci pare onestamente la verità; e regalarci anche, ogni
tantino, quello che Baudelaire chiamava: «il piacere aristocratico di dispiacere››.
Eugenio Giovannetti
Opere di Nunzio Malasomma: L’ uomo dell’artiglio, La
cantante dell’opera (1931) - La telefonista,Sette giorni cento lire, La signorina dell’autobus(1932) – La cieca di Sorrento (1933) – Cleo robes et manteaux, Lohengrin, Non ti conosco più (1934) – Nina
non far la stupida (1936) – Eravamo
sette sorelle (1938)- Cose dell’altro
mondo (1939) - Dopo divorzieremo
(1940) - Scampolo (1941) – Giungla (in
lavorazione).
film SETTIMANALE DI CINEMATOGRAFO TEATRO E RADIO ANNO V – N. 1 – 3 GENNAIO 1942 XX
La testata si riferisce al film L’ultimo addio (Diagnosi) diretto da
Ferruccio Cerio e interpretato da Gino Cervi,Luisa Ferida, Sandro Ruffini,
Annibale Betrone (Produzione Inac - Sirena)
mercoledì 2 ottobre 2019
Max Ophüls, il "Barbiere" & Shakespeare
Parlando
con Max Ophuels
Vedere Ophuels
a 1700 metri, col Monte
Rosa da una parte e la più
bella prateria dall'altra, se mi ha
fatto gradita meraviglia, mi à
riportato subito nell'inferno delle
inquietudini e dei dispiaceri, che il cinema
ci procura! Ci eravamo salutati a Milano, in una fumosa
sala da bar, alzando il bicchiere per augurio di non so
quale opera sua. Max Ophuels è venuto infatti quassù
per lavorare. Tutto il giorno se ne
sta rinchiuso o col regista
Kurt Alexander o col musicista Maestro Tullio Serafin e la sua segretaria in
una specie di sotterraneo,
destinato a diventare la
sala da ballo di questa specie di falso Grand Hotel
…
In attesa delle note di
un fox, i villeggianti, che spiano nel sotterraneo, sentono
le note del «Barbiere», intorno a cui Ophuels
sta immaginando le sue favole strabilianti.
Appena finita la
colazione è il solo momento che l'itinerario
della sua passeggiata sfiora il
recinto della mia baita e ci possiamo scambiare saluti e propositi.
Col naso in aria a prendere il sole e sdraiati
sull'erba, è la 801a posizione
rassicurante per discorrere dell'avvenire della cinematografia.
Tutte le
altre posizioni sono troppo
preoccupate e polemiche. Ophuels è pieno di
fede nel cinema italiano. Ha trovato in
Italia un clima cinematografico. «Ho visitato
mi dice, la Mostra della Rivoluzione. Permettete
a un regista di guardare le cose da
un punto di vista particolare. Mi è
parso che tutto fosse espresso con tale
immediatezza, rapidità, precisione, da rivelare
un linguaggio cinematografico già maturo. La stessa
osservazione ho fatto anche nelle più piccole cose. Mi sono·
guardato intorno per le vie della città. Ho trovato nei
manifesti, nei cartelli pubblicitari un
modo di espressione diretta, vivace, sollecita, molto
più suggestiva che non siano i manifesti, tipo profumi Coty o cioccolatto
Meunier, di altri paesi.
La gran massa del pubblico è
già disposta a capire un linguaggio cinematografico.
Soltanto che la vostra cinematografia è ancora inferiore al vostro pubblico».
Speriamo che così sia.
Gli domando degli attori,
delle maestranze. Mi dice che non ha
mai avuto interpreti così eccellenti. «L'attore
italiano è intelligentissimo, pieno di volontà
e di passione: ho potuto fare in Italia alcune esperienze
che non ero riuscito ancora a fare altrove».
Poiché Ophuels sta
lavorando intorno
al «Barbiere di Siviglia» è naturale che si parli
dei rapporti fra l'opera lirica e il cinematografo. Qui
siamo, a tutta prima, di parere opposto.
Ophuls è entusiasta
dell'idea di dare
espressione cinematografica
alle nostre opere. Per lui
è questo uno dei
contributi più preziosi
che l'Italia può dare al
cinema e per la diffusione
del cinema italiano in
Europa e soprattutto in America.
Tormentato
ancora dalle immagini dei nostri
illustri tenori sullo schermo, faccio distrattamente
le mie riserve. Ophuels scuote
la testa e mi agita
le braccia sul naso, col tono perentorio che supplisce
alla poca conoscenza della nostra lingua.
"Leggete lo scenario del "Barbiere" e poi mi direte il vostro parere».
Devo ritirare le mie riserve
per quanto concerne almeno, questo caso specifico.
Ogni scena è inquadrata in un tono di balletto,
di féerie, che permette al buon gusto del regista di
liberare i cantanti e gli sfondi da tutto ciò che gli uni e gli
altri avevano di più immobile, mummificato, immutabile. E'
stata anzi questa la sua trovata. Tutto si trasforma: si agita:
vive. Un venticello acuto e assillante soffia nel fuoco, e dal
principio alla fine le soluzioni inedite si inseguono, le cose
più assurde per il teatro divengono legittime e naturali; gli uomini
diventano burattini, maghi, spiriti. Siviglia stessa esce dal
suo cliché e rivela le sue strade, i suoi
alberi, i suoi tetti, da nuovi punti
di vista.
Non manca un finale
allarmante di humour
e di parodia; alcuni policemen in
motocicletta che fermano
i signori protagonisti per chiedere loro le carte in regola.
Ho avuto da questo
scenario la migliore
smentita a un mio parere troppo precipitoso. I lettori,
a cui posso offrire qualche pagina rigorosamente
inedita, direi, appena
sfornata dal famoso sotterraneo dei lavori,
potranno giudicarne.
Frattanto si avvicina la
presentazione pubblica di La donna di tutti. Un bel giorno Ophuels è
partito improvvisamente
per assistere allo spettacolo del Festival.
E' tornato due giorni dopo. Buon successo
di pubblico e di critica. Ma mi pare che
egli attenda il giudizio di un pubblico
più libero, meno snobistico, più inclinato a giudicare
il film senza la complicità di tutto
quello che di mirabolante il Festival può offrire.
Prima di lasciarci,
abbiamo dedicato un ultimo saluto al Cinema. A uno svolto di viottola ho
chiesto, senza preamboli, a Ophuels,
come se gli tirassi una revolverata: «ma infine, ci credete, che
un film sia un'opera d'arte?"
«Vi dico in un orecchio,
mi ha risposto, ma non ripetetelo a nessuno, che per me, se oggi
Shakespeare risuscitasse, scriverebbe i suoi
drammi «in cinematografo».
ENZO FERRIERI
CINE-CONVEGNO Anno II .- N. 3-4-5 25 Luglio 1934
(XII)
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