giovedì 3 ottobre 2013

Cine Città

Il duce inaugura Cinecittà

Il cinema del Duce
Si potranno fare tutte le riserve che si vogliono sui rapporti tra il Festival di Venezia e gli interessi politici del Duce, ma è incontestabile che questa idea del Festival Internazionale ha fatto, da allora, la sua strada e se ne misura oggi il prestigio nel vedere quattro o cinque nazioni europee annettersene le spoglie.

Se non avessimo avuto durante la guerra, e a buon diritto, un partito preso, film come Uomini sul fondo o La nave bianca di Rossellini avrebbero colpito un ò di più la nostra attenzione. Del resto, anche quando la stupidità capitalista o politica limitava al massimo la produzione commerciale, l’intelligenza, la cultura e la ricerca sperimentale si rifugiavano nella pubblicistica, nei congressi di cineteca e nella realizzazione di cortometraggi. Lattuada, regista del Bandito, allora direttore della cineteca di Milano, per poco non andava in prigione per aver osato presentare la versione integrale della Grande Illusione nel 1941.

Gusto e cattivo gusto delle scenografie, idolatria delle vedette, enfasi puerile della recitazione, ipertrofia della messa in scena, intrusione del tradizionale apparato del bel canto e dell’opera, storie convenzionali influenzate dal dramma, dal melodramma romantico e della chanson de geste per romanzo d’appendice.
Oggi che la carica degli elefanti di Scipione non è più che un rimbombo lontano, possiamo prestare orecchio un po’ meglio al rumore discreto ma delicato che fanno Quattro passe fra le nuvole.

Registi come Vittorio De Sica, autore dello splendido Sciuscià, si sono sempre dedicati alla realizzazione di commedie molto umane, piene di sensibilità e di realismo, fra le quali, nel 194: I bambini ci guardano. Un Camerini realizzava già nel 193 Gli uomini che mascalzoni la cui azione si svolge, come quella di Roma città aperta, nelle strade della capitale, e Piccolo mondo antico non era meno tipicamente italiano.
André Bazin, op. cit.

mercoledì 2 ottobre 2013

Lupi ed uomini


La Lux Film torinese, casa di produzione “illuminata” e antifascista nei primi anni quaranta (come si è spesso notato), sostiene senza sorprese la causa israeliana: di fatto la cultura ebraica costituisce la punta avanzata di quel modernismo laico-massonico entro i cui confini agisce con coerenza la cinematografia capitanata da Gualino e Gatti e perfettamente inserita nell’universo ideale prevalente da decenni nella metropoli dei Savoia e degli Agnelli.
Ancora il binomio Lux-Duilio Coletti, per il tramite del produttore Dino De Laurentis, mette in cantiere un nuovo “attacco alla tradizione” con la pellicola Il lupo della Sila (dicembre 1949; 95 min.), ambientato tra gli aspri paesaggi della Calabria rurale. Come già in numerose altre pellicola finanziate dalla ditta piemontese (si pensi ad esempio al simile Notte di tempesta di Franciolini, 1945; vedi) l’astuto meccanismo consiste nel calare una vicenda fumettistica, degna di un romanzo d’appendice, all’interno di una cornice dal sapore documentaristico e perfino “neorealistico” (riprese in esterni che valorizzano in modo abile il paesaggio calabrese, utilizzazione della popolazione locale, una magnifica fotografia in un denso e contrastato bianco e nero). Al centro viene collocata una figura mostruosa che finisce con il divenire emblematica di quel luogo e di quella cultura che si vogliono dipingere con accenti “arcaico-medievali”, pieni di disprezzo. Così Rocco Barra (Amedeo Nazzari), il più stimato proprietario locale, è un fanatico, disumano e autoritario difensore dell’onore familiare: dapprima impedisce alla sorella (Luisa Rossi) di scagionare il proprio amante (Vittorio Gassman) ingiustamente accusato di omicidio, decretandone in definitiva la morte; anni dopo invece, follemente inamorato di una giovane, prosperosa lavorante (Silvana Mangano), decide di sposarla senonché, quando il figlio Salvatore (Jacques Sernas), a cui sembra sinceramente affezionato, gliela porta via, lo insegue e immediatamente, saltando ogni doveroso chiarimento verbale, cerca di ucciderlo a fucilate. Insomma una vera e propria bestia infernale, animata da un feroce egoismo dettato da un’interpretazione estremistica e artificiosa delle tradizioni familiari del meridione d’Italia.
Si noti, per finire, che l’unica figura totalmente positiva è quella di Salvatore, un presunto calabrese interpretato da un attore francese (privo del minimo tratto somatico meridionale), il quale ha abbandonato la propria terra e le proprie convenzioni per vivere e studiare in una imprecisata, lontana e popolosa città: ovvero un perfetto e astratto modello di meridionale assimilato alla cultura laico-modernista.
Il film di Coletti, basato su questo sciocco soggetto inventato da Steno e Monicelli (e da loro sceneggiato con altri), è dunque soprattutto una caricatura indecente del costume del sud ad opera dei noti settori laici della Torino “illuminista”, settori assorbiti dalla propria guerra di modernizzazione di un’Italia rurale (fin dai tempi delle guerre d’indipendenza, della repubblica romana e dei Mille garibaldini) considerata oscurantista e inutile. In questa “guerra di religione” ogni mezzo è valido e ogni risorsa viene mobilitata: la bellezza provocante di Silvana Mangano (subito spogliata nella prima sequenza), l’autorità attoriale di Nazzari, la accattivante, veloce struttura narrativa (un Coletti finalmente in forma) animata da un montaggio serrato e da eventi spettacolari che si susseguono in modo trascinante (sebbene totalmente inverosimile) e infine una indubbia capacità di fotografare in modo perfino poetico la natura montagnosa e solcata di torrenti della Sila. Il pubblico resta giustamente soggiogato dal lavoro e ne sancisce un imprevisto, largo successo. Il centro cattolico al contrario, meno sensibile a queste qualità linguistiche e più attento alla visione ideale che la pellicola reca con sé, bolla con il solito “escluso” il prodotto Lux.

L’originale è qui:

Uomini lupi


« Queste immense distese di foreste, di rupi, di laghi, hanno un nome pieno di fascino, la Sila, cuore della Calabria. Gli uomini che vi nascono e vivono sono di una razza generosa e forte. In essi il cuore resta fanciullo, le passioni sono violente e schiette. Il destino segue il corso delle stagioni, del sole, delle tempeste. Nella solitudine e nel silenzio della Sila si perde il confine tra realtà e leggenda. Così avviene in questa storia d'amore e di sangue che fu tragicamente vera ed è già come un sogno ».

Con Il lupo della Sila prende avvio una trilogia che da posto anche a Il brigante Musolino e Rivalità in Aspromonte.
Sono opere messe in lavorazione con uno scopo preciso: fare di Silvana Mangano una diva a seguito dell’inaspettato successo riscosso con Riso amaro. Con la Mangano appaiono anche Amedeo Nazzari, ancora molto ricercato ed un fresco Vittorio Gassman sempre col preciso intendo di voler combinare guai.
Regista del lupo è Duilio Coletti uno che a sentire Alberto Sordi “ addirittura si metteva seduto dando le spalle alla macchina da presa e lasciava fare tutto agli aiuti “.
Quello che ancora oggi si apprezza di questo cupo dramma montanaro – dove un’avvenente ragazza, per vendicare la madre ed il fratello, si concede ad un proprietario terriero ed al di lui figlio ereditario, scatenando gelosia e rancore con il rituale scontro finale – oltre le immagini di una Sila incontaminata, catturata con il gusto fotografico dell’epoca da Aldo Tonti su pellicola Ferrania, è un passaggio di circa quattro minuti, riportato in allegato video, posto come intro delle vicende di lotta tra i due maschi protagonisti, di festosa vita paesana calabrese, anche questo sapientemente impresso dall’occhio dell’operatore alla macchina.
E’ un giorno di fiera che, come ancora si usa oggi nelle province dell’ex Regno delle Due Sicilie, precedono il dì della festa patronale. Si offre e si compra mercanzia di tutti i generi: animali d’allevamento come da cortile, utensili per il lavoro dei campi come della casa, e ancora prodotti della campagna e dolciumi accanto ad orchestrine, saltimbanco e cantastorie.
Per bocca di uno di questi ultimi, Rosaria scoprirà che il fratello che vuole vendicare.

lunedì 30 settembre 2013

Moral Ambiguity, Greyness and Imperfection in the Classic, 'Once Upon a Time in the West'


By Shaun Huston
There are at least four known edits of Once Upon a Time in the West (1969) in existence, with a fifth reputedly available as a bootleg. In the US, there have been home versions released on VHS, on DVD, as both a three-disc “Special Collector’s Edition” and a film-only disc, and through iTunes. The subject of this review is last month’s Blu-ray release of the film.

This accessibility, and proliferation of versions and formats, is at once a boon and a barrier for criticism. On the one hand, each reissue is a new opportunity to draw attention to a film’s particular virtues, including movies originally seen decades ago and that may pre-date the critic.
On the other hand, that same opportunity, taken up by enough writers, produces a mass of repetitious reflection. The Movie Review Query Engine lists 62 reviews of Once Upon a Time in the West. Rotten Tomatoes has 49. And those lists are only a sampling of online criticism, a sampling that does not begin to approach offline sources, including archived reviews from the ‘60s and academic criticism in books and journals.
While every film, regardless of vintage, will always be new to somebody, when addressing a widely known and well-worn work, justifying one’s own work seems to call for novel insight or an original angle of approach. Particularly where the movie in question is an acknowledged “classic”, it’s easy to fall back on simple celebration or well-rehearsed appreciations. This kind of writing does no harm, but it doesn’t add to the understanding of a work, either.
Where viewers and consumers have access to a wealth of both films and writing about film, good, or at least interesting, criticism requires experimentation and innovation. One such experiment is Nicholas Rombes’ 10/40/70 exercise. Rombes, an associate professor of English at Detroit Mercy, explains 10/40/70 at The Rumpus:
This column is an experiment in writing about film: what if, instead of freely choosing which parts of the film to address, I select three different, arbitrary time codes (in this case and for future columns, the 10-minute, 40-minute, and 70-minute mark), freeze the frames, and use that as a guide to writing about the film, keeping the commentary as close to possible to the frames themselves? No compromise: the film must be stopped at these time codes. Constraint as a form of freedom (see “10/40/70 #1: Star Ship Troopers, 31 March 2010).
As Rombes implies, what a critic typically selects to highlight, which shots, which characters, which themes, is driven by the writer’s predilections, theoretical and aesthetic, and, in some cases, by the larger consensus that coalesces around a film. By starting from a series of essentially arbitrary images, the critic consents to being forced out of their preferred references and will often be compelled to address aspects and moments that they would otherwise ignore.
For this review, I decided to use Rombes’ experiment as a way to engage with Once Upon a Time in the West in a new way. I have adapted the 10/40/70 exercise into an assignment for my college classes, and when I do that, I change the time codes to five, 45, and 85 minutes. I apply those indices here to the 166-minute “restored version” of the film featured on the Blu-ray, and, in a nod to the almost three-hour running time, I pull an additional frame from 125 minutes.
At five minutes is a close-up of Jack Elam’s gunfighter, credited as “Snaky” and as a member of Frank’s (Henry Fonda) gang of killers for hire, currently working for rail baron, Morton (Gabriele Ferzetti). In the background of the shot is another member of the gang and a vast expanse of sun-baked desert, transected by railroad tracks which run past the station where Snaky and two others are waiting to “greet” Charles Bronson’s “Harmonica”, the film’s protagonist.
Snaky’s reclined posture and casual demeanor signify his comfort with violence and killing, a comfort that is ultimately disrupted by Harmonica’s utter lack of fear once he arrives. The film’s narrative is structured around several such battles of will, each one of which is won by Harmonica, but even he cannot face down the closing of the Frontier by the industrial revolution and the coming of commerce, both of which are present in this image in the form of the railroad and the rail station.
This frame is pulled from the 12-minute opening credit sequence. Heard but not seen is the tapping of the telegraph, the creaking of hinges, the buzz of insects and the rustle of the wind. Once Upon a Time in the West employs a sound design that amplifies environmental noise for dramatic effect, almost making them part of the musical soundtrack. Leone and his sound department juxtapose mechanical and organic sounds throughout the film, underscoring the clash of wilderness and machine that also plays out in the natures of the human characters.
At 45-minutes is a medium close-up of Harmonica near the end of his first encounter with Cheyenne (Jason Robards), pictured in the foreground, and from whose position we view Harmonica. The scene takes place in a roadside bar and includes Jill McBain (Claudia Cardinale), on her way to her husband’s home where, unknown to her, her new family lays dead at the hands of Frank and his gun thugs.
Both Cheyenne and Harmonica exude a cool confidence, seen here in Harmonica’s easy smile, though the older man has a lighter affect. In contrast to the two outlaws, the bartender is tense, worried, like most in the bar, that the meeting of these two men will erupt in violence. In fact, this moment is the seed of a partnership, one that ultimately enfolds Jill. While neither Cheyenne nor Harmonica is a “good” man, in relation to Frank they are at least honorable, and both are personally wronged by Frank. This also provides their bond with Jill.
At 85-minutes is a medium long shot of Frank, ducking to enter the main car of Morton’s traveling home/office. He has just captured Harmonica and is beginning to show himself to be a liability to Morton, attracting unwanted attention and complications to the conduct of business, as well as developing his own ambitions of becoming rich and settled.
The refined and elaborate design of the interior of the car makes the train an even more pronounced and visible symbol of civilization, and the end of the Frontier, than it already is without such detailing. That the gunfighter does not quite “fit” in the car entry is another reminder of the approaching social irrelevance of men like Frank, Cheyenne, and Harmonica.
Finally, at 125 minutes is an extreme close-up of Frank as he exits the hotel where the McBain family property has been auctioned off to Harmonica. Frank sent members of his gang to disrupt the auction and assure an outcome to his own benefit, but the ever implacable Harmonica, with the backing of Cheyenne, is not intimidated.
Frank offers Harmonica $5001.00, one dollar more than the winning bid, for the property. The value of the property lies in its water rights, which makes it a natural location for a train station. This was to be the McBain family’s fortune.
Frank leaves the building having had his offer rejected by Harmonica. Unnerved by this loss and by his ongoing inability to place the other man in his memory, Frank here appears alert and wary as he looks out across the town of Flagstone from the hotel porch. Perhaps he also senses that something is wrong; Morton has contracted some of Frank’s men to kill their leader, men who are at that moment positioning themselves to do that very deed. Frank escapes this ambush with Harmonica’s help, but this is only a reprieve that sets up their final confrontation.
The extra features on the Blu-ray are carried over from the “Special Collector’s Edition” DVD, and include: a commentary track from interviews with directors Alex Cox, John Carpenter, and John Milius, film historians Christopher Frayling and Sheldon Hall, and cast and crew, notably, Claudia Cardinale; a trio of short features on Leone and the making of the film, which incorporate contributions from the commentary cast; a short documentary on the railroad; two stills galleries, and a theatrical trailer.
The one difference in the features package between the earlier DVD set and the Blu-ray is the inclusion of two versions of the film, a “restored” cut and a “theatrical” edit, on the newer disc. The “theatrical” version is the one featured on the DVD. The “restoration” includes about a minute of previously excluded footage. The differences between the two versions are marginal.
In digital high definition, the picture reveals details, particularly in the weathered, ruddy, often grimy faces of the actors, that have likely not been seen with this kind of clarity before. This in no way detracts from the viewing of the film, if anything it highlights the care and craft that went into the production, but Once Upon a Time in the West is, literally and figuratively, a movie about the dirt under the fingernails of its characters, and how everyone has some of that dirt, no matter how they might appear on the outside or to those in society at large. Somehow that deliberate moral ambiguity, that greyness and imperfection, seems more at home in an analog context than in a digital one.

L’originale è qui:
http://www.popmatters.com/review/143872-once-upon-a-time-in-the-west/

giovedì 26 settembre 2013

Un film sulla volontà di non morire


   Dice Alain Resnais “ Ritengo che se analizzassi troppo seriamente i miei film sembrerei un sonnambulo che si veglia: smetterei di camminare oppure cadrei per terra”. Dice Alain Resnais “ Una delle domande che il film si pone è questa: noi siamo ciò che possiamo essere oppure diventiamo ciò che gli altri fanno di noi nel loro giudizio?”. Dice Alain Resnais “ Sono in realtà dei personaggi di cui uno sta per morire e gli altri si interrogano su questa prossima morte. Ma non sono sicuro che tutto ciò porti ad un film sulla morte, semmai a un film sulla volontà di non morire. Clive, il vecchio scrittore, rifiuta di cedere ed il film descrive la sua lotta contro la morte”.
E dove Bunuel, Visconti, Losey, Bergman e Antonioni sono più pessimisti, o più ottimisti, delle premesse da cui partono, Alain Resnais, più realisticamente, indica la possibile fine fra il suicidio e l’eutanasia.


La bella ed il gladiatore




OGGI


Fabiola di “ mastro “ Alessandro Blasetti è principalmente la storia della Universalia Film e di Salvo D’Angelo suo conducente. Salvo D’Angelo da buon siciliano all’antica era legato al Vaticano ed al Banco di Sicilia ed attraverso questi due “ Enti “ razzolava i soldi da investire nelle produzioni cinematografiche.
 Nel 1949 la Universalia e Salvuccio si assicurarono il fallimento artistico di Fabiola, per contro ebbero il riconoscimento ed i dovuti osanna di tutto il mondo per la produzione di quello che ancora oggi rimane il miglior film italiano di tutti i tempi: La terra trema di Luchino Visconti.
 Martin Scorsese nel suo Viaggio in Italia ricorda il  lavoro di Blasetti come il film della sua infanzia, catturato dalle lotte dei gladiatori e dei martiri cristiani masticati dai leoni.
 Oggi si arriva a stento al suo finale tanto è prolisso di scene inutili. Mario Mattoli nelle sue memorie dice che mentre il “ mastro “ andava avanti e indietro per le arene calzando i soliti stivaloni, ebbe il tempo di confezionare sette film, che nessuno per altro rammenta più. I difetti sono tutti da riscontrare in quel ammasso variopinto di sceneggiatori, che coprivano tutto l’arco costituzionale, chiamati a comporre le parti sceniche.
  Quel che  ancora di Fabiola regge accanto a schegge di buon cinema sono le apparizioni di alcuni attori: Michel Simon, Gino Cervi, Paolo Stoppa e perfino il protagonista maschile Henri Vidal bello e prestante quanto bastava. Delude Massimo Girotti, per una volta tanto, che vi interpreta la parte di Sebastiano, e ben prima del Sebastiane di Derek Barman, con tratti gay per usare una classificazione moderna, insensibile al fascino muliebre di Elisa Cegani.
  Sorprendono, accanto allo svestimento di alcune comparse femminili sulla croce, che irritò la parte vaticana della produzione, alcune angolazioni fatte da Blasetti a Michéle Morgan, con le luci date da Mario Craveri, che la rendono più carina e sensuale di quanto non fosse, scene anche queste poco gradite al Centro Cattolico Cinematografico.
  Del resto se ritorno infante all’infanzia sono d’accordo con Scorsese e mi entusiasmo come se fossi dentro il cinema Loreto di Platì sognando elmi, corazze, spade e reti che intrappolano il gladiatore avversario.
 








lunedì 23 settembre 2013

Vattene Eugenio

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE

“ Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese: i bambini “.
Vittorio De Sica L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935 – 1959 a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli

   Luigi Comencini ha diretto spesso l’obiettivo della cinepresa verso il mondo dell’infanzia. Prima e dopo di lui altri registi hanno guardato ai bambini: Vittorio De Sica, il buon Peppuccio ed ultimo Kim Rossi Stuart. Il modello per tutti è da ricercare in quello che ancora rimane il capolavoro: Il  monello ( The kid ) di Charlie Chaplin del 1921.
   Di Comencini si ricordano in particolare: Proibito rubare in epoca neorealista, Incompreso a metà degli anni ’60, Un ragazzo di Calabria, successivo all’Eugenio ed anche il celebre Pinocchio confezionato per la TV.
   Nel 1980 quando girò Voltati Eugenio, sceneggiato con Massimo Patrizi, rivolse l’attenzione verso una coppia disastrata di ex sessantottini incapaci di tutto ma sopra ogni cosa di amare. In questo non erano i soli a rifiutare Eugenio; uniti a loro vi erano i genitori della coppia. L’unico che apre gli occhi al bambino e lo scarica nella strada è “ baffo “ ( Memé Perlini ). Tutti si preoccupano, tutti lo cercano ma le attenzioni ed i desideri sono rivolti oltre Eugenio.
   Chiara è la scena che si svolge nella caserma dei carabinieri ( genitori anche loro ) compreso il dialogo tra “ baffo “ ed il maresciallo. Giudicate voi quella realtà ancora immutata; è cambiato solo il modo di registrare i bambini per mezzo di camere: “ baffo “ parla di super otto, oggi si ricorre al digitale.