mercoledì 22 aprile 2020

QUESTO E’ CINEMA QUESTO NON E’ CINEMA - "Il taglio"


Ma oggi sono certamente gli americani, i quali tendono alla massima immobilità (possibile) dell'inquadratura o della "camera”. Una rivista tecnica di Boston segnava in proposito i nomi di Preston Sturges (SuIlivan's Travels: «I dimenticati »), di Huston (In This Our Life: “In questa nostra vita”), di Dmytryk (Crossfire: “Odio implacabile”), di Wilder (The Lost Weekend : “Giomi perduti”), di Hathaway (Kiss of Death: “Il bacio della morte “), e sovrattutto di Wyler (The Best Years of Our Lives: “I migliori anni della nostra vita”). L'affermazione di Hitchcock: “Io opero il taglio solo quando non ne posso fare a meno”, pare venga da lui concepita esclusivamente come un metodo piú sbrigativo di lavorazione. Assai piú pertinente ci appare invece l'esempio di Wyler nel film citato, sebbene la successione dei piani che egli raggiunge con i lunghi fuochi davanti la "camera" ferma (relativamente), appare ancora un fatto puramente fisico: come se il regista avesse fatto un buco nel sipario, per presentarci la scena non piú secondo carattere murale (a due dimensioni) della pittura, ma secondo quello prospettico creato dal palcoscenico. Però, siccome tra i vari piani manca ogni contrasto di valori fotogenici, non si può dire ancora che lo spirito partecipi a questa mera profondità fisica realizzata dai portentosi obiettivi di Toland. Di un cinema d'immobilità fondato invece piú sull'esame psicologico di una situazione statica, che su proprie ricerche tecniche, ci offre l'esempio il magistrale film del regista sovietico Ernler, La grande svolta, nelle molte scene intercalate all'azione, che presentano l'anti camera della sala in cui i tre generali discutono la situazione e dove tutta la battaglia appare concentrata nell'attesa di questa decisione, mentre fuori il piantone si intrattiene con l'autista, in una delle solite ingenue e banali conversazioni degli umili soldati. In queste scene i movimenti di macchina sono quanto mai rari, e lo "specifico filmico" appare ridotto al suo impiego piú elementare: eppur l'effetto di esse, può essere paragonato solo a quello di certe indimenticabili pagine di Guerra e pace. Infine occorre aggiungere che il "record" dell'immobilità è raggiunto da Orson Welles in The Magnificent Ambersons, nella famosa scena in cucina che dura, a "camera" immobile, circa dieci minuti.
Il taglio "classico", noi lo sappiamo, è fondato prevalentemente sul cambiamento dei piani. Ma questo, dice Bazin, è una soperchieria essenziale basata sulla convenzione di presentarci una successione di piccoli frammenti chiamati piani, di cui la scelta, l'ordine e la durata costituiscono appunto il montaggio classico. Ma dal momento in cui Gregg Toland ha utilizzato gli obiettivi di grande angolazione, dimostrandosi capace di manovrare una immagine dislocata su uno spazio di 20 metri di larghezza su 30 metri di lunghezza, con una profondità complessa di piani ed i vari attori disposti sul diversi piani, egli ha inventato di nuovo il palcoscenico. Allora i soffitti sono divenuti indispensabili. Questa apparizione di soffitti, in certe scene di Citizen Kane e di The Best Years of Our Lives, è il segno esteriore di una vera rivoluzione nella tecnica del cinema perché così il partito preso teatrale di Wells ci appare una realtà cinematografica capace anche di vincere il suo modello, per creare un teatro adatto alla scala dei mezzi dello spettatore moderno, il quale è anche spettatore di cinema. Viene così potenziata la concezione stessa del teatro classico come universo chiuso. Questo superstite desiderio del movimento ad ogni costo, scrive Bazin, è la vera deficienza di un film come Hamlet, perché Olivier non ha avuto il coraggio di farci direttamente ammettere il teatro sullo schermo. Il cinema, egli scrive, non ha esistenza autonoma. Esso non si aggiunge al teatro come zucchero al caffè, perché il cinema non è che la migliore maniera di dire qualcosa sullo schermo. Olivier è stato invece ossessionato dalla preoccupazione di fare cinema. La sua "camera" ha cioè avuto paura di restare immobile, e starsene fermo a guardare ciò che davanti ad esso si svolge, invece di tirarsi dietro le carrellate come code di cometa o di parafrasare il testo con lunghe panoramiche. Il solito guaio del cinema è piuttosto sempre lo stesso e cioè che, se oggi noi abbiamo anche il teatro sullo schermo, non abbiamo ancora Shakespeare. Io però avrei voluto che Bazin, col suo acume abituale, avesse fatto ancora un passo avanti nella sua coraggiosa descrizione. In fondo egli sembra temere il ritorno al piano fisso di Méliès, di Zecca o di Fuillade. Volesse il cielo, tomo a ripetere, che in questo piano fisso noi avessimo uno Shakespeare capace di condensarvi inauditamente tutto il dramma di Macbeth! Ma io non temo neanche queste barriere che si vogliono porre all`impiego del piano fisso assoluto, costituito dall'immobilità della "camera" ed immobilità
del piano. Consultando i testi dei maestri primitivi, noi ci accorgiamo che è appunto questa permanenza dell'immagine che dà a tutte le presenze un'impronta calda d'intimità, che impone il rispetto delle cose e degli uomini, in queste prime rozze farse morali, le quali illustrano ingenuamente la fede della bimba che fa riappaciare i genitori manchevoli, o il cane di S. Bernardo che rintraccia il viandante sperduto sulla neve e dove il "genitivo possessivo" proprio di quel primo discorso cinematografico, assume un incanto pieno di esemplare poesia: per cui il martello è proprio il martello del bravo falegname, e l'incudine è proprio l'incudine del maniscalco, e lo schioppo è proprio lo schioppo del bravo bracconiere. In altri termini in queste prime manifestazioni delle scuole italiane e francesi, nel periodo 1896-1908 le cose sollecitano, proprio come dice Bazin, la nostra attenzione senza che alcun movimento di apparecchio ne attenui la presenza in modo che la fissità del quadro restituisce agli oggetti la loro densità di essere e il semplice peso della loro presenza.
Con questo noi non abbiamo alcuna intenzione di proclamare un ritorno della tecnica a prima di Griffith: vogliamo solo dire che l'artista è libero di rifiutarsi a tutte le leggi, comprese quelle del "vero" cinema.
ROBERTO PAOLELLA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica  Anno III – Dicembre 1950

In apertura, SuIlivan's Travels (I dimenticati) di Preston Sturges del 1941.


lunedì 20 aprile 2020

QUESTO E’ CINEMA QUESTO NON E’ CINEMA



NEL suo saggio su Welles. Jean Cocteau fa coraggiosamente merito al 'autore di aver voluto conservare al Macbeth, il suo stile teatrale cercando di mostrare che il cinema è persino capace di disprezzare anche quello che si immagina debba essere il proprio ritmo cinematografico. « Cinema», dice Cocteau, «è un'abbreviazione, che io riprovo a causa di ciò che rappresenta. A Venezia, noi sentimmo ripetere questo "leit-motiv" assurdo: E' cinema questo oppure questo non è cinema? E allora Welles  ed io rispondevamo che sarebbe bello apprendere ciò che è un film-cinema, lieti di possedere la ricetta per metterla in pratica». Bisogna riconoscere che il preteso problema dei rapporti tra cinema e teatro non poteva essere piú lucidamente impostato. Per una curiosa coincidenza, una recente inchiesta di Les Nouvelles littéraires, nel constatare quanto siano arbitrarie le frontiere della specializzazione, reca proprio l'esempio di Cocteau, affermando che quando questi suddivide la sua opera in poesia di teatro, poesia di romanzo, poesia di cinema, egli non fa che affermare la comune filiazione di questi generi arbitrari, la quale coincide col desiderio di esprimersi in cui propriamente consistono l'orgoglio e l'onore degli uomini. Il numero di sequenze sul letterato e il cinema, mi offre l’occasione di riprendere, quanto prima, il discorso a  proposito dei rapporti tra il romanzo e lo schermo, scegliendo all'uopo il romanzo di un moderno scrittore, Guglielmo Petroni - La vita è una prigione - ove per converso appare evidente la assimilazione, da parte dell'arte narrativa, della stessa tecnica del racconto cinematografico. La verità è che l'estetica dello "specifico filmica" appare sempre più sorpassata e perciò, mantenere fermi certi postulati, «significa considerare il progresso della tecnica come un ostacolo e non ammettere la possibilità d'un ulteriore sviluppo di essa». Il che vale a fare ancora di più sentire la necessità di una revisione dell'attuale indagine critica, a proposito della quale Guido Aristarco non ha mai abbastanza il merito di insistere.
Premesse dunque queste considerazioni (sulle quali non sarebbe neanche il caso di soffermarsi se la giovinezza della esperienza cinematografica, non rimettesse di continuo in discussione problemi, già risoluti sul piano delle altre arti), io non riesco a capire perché un artista non possa fare del teatro sullo schermo, servendosi della "camera", secondo la cruda espressione di Marcel Pagnol, come d'una macchina tipografica, per stampare parecchie edizioni della rappresentazione originale. Perché quello che interessa è il risultato e cioè il vedere, se questo teatro in scatola, è o no opera d'arte. Ho citato l'esempio di Shakespeare, ma questa volta voglio approfondirlo a dovere. Poniamo, io dico, il caso che un giorno si faccia annunciare agli studi di Londra, Roma o Hollywood un personaggio, il quale dichiari di essere Guglielmo Shakespeare, tornato sulla terra per una speciale concessione divina, allo scopo di metter su una tragedia, ch'egli avrebbe certamente composta in versi, se la morte gliene avesse lasciato il tempo. Poniamo ora il caso che un produttore bene intenzionato come ha detto di essere, su queste colonne, il signor Filippo Del Giudice, conceda a Shakespeare, un teatro ancora caldo del fuoco dei proiettori e che Shakespeare, ignaro di tutte le leggi del vero cinema, faccia semplicemente registrare, con la "camera" immobile e inquadratura fissa, la rappresentazione teatrale. Io domando cosa faremo se, dopo che Shakespeare, sarà tomato in paradiso, noi dobbiamo constatare di trovarci di fronte ad un altro capolavoro del genio di Strafford: diremo che esso non è tale, perché non rispetta le leggi del vero cinema, o riterremo che la sua opera supera abbastanza tutti gli Oscar, le coppe e i primi premi di Venezia?
Questa è ancora una dimostrazione per assurdo. Noi però sosteniamo che a risultati non diversi si può giungere se si prende in esame il lato strettamente cinematografico della questione. «Questo è cinema, questo non è cinema», sentenziano ad ogni passo molti critici. Ed allora sorge naturale il desiderio di Cocteau di appurare cosa sia un film veramente cinematografico. Conosciamo la risposta: il cinema è arte di movimento, inteso naturalmente il movimento come "movimento ornato", secondo una vecchia definizione di Béla Balázs e cioè come composizione danzante, ovvero come movimento associativo (montaggio). E allora noi rispondiamo che tutto questo sta assai bene scritto, ma che contro il cinema arte di movimento, Chaplin aveva già obiettato che forse il vero segreto di un'arte consiste proprio nel porsi al polo opposto della sua apparente vocazione e c e quella del cinema potrebbe risiedere altrove che nel movimento. Anche Delluc aveva intuito questa posizione (pretesa) anticinematografica che può assumere il vero cinema, proclamando contro quella ch'egli chiamava la "estetica Westem", e cioè del movimento a tutti i costi, che i registi di avanguardia volevano applicare, ovunque e per ogni dove, la possibilità di un cinema di "immobilità". E come il meglio dell'emozione musicale, egli dice può esser racchiuso nelle pause dì silenzio, il meglio del cinema può consistere nella fissità e nel riposo dal movimento. Certamente noi siamo convinti che, di fronte all'indipendenza dell'opera d'arte, questo schema del cinema d'immobilità vale l'altro del cinema arte di movimento, e che entrambi sono inutili di fronte alla libertà dell'artista. Ma ciò non toglie che anche la teorica del cinema d' immobilità, possa essere valida (pertinente ai fini di classificare le tendenze degli artisti. E allora e sulla base di certe recenti esperienze non si può negare alla "camera" il suo diritto alla immobilità, abbattendo la principale frontiera che la separa dal teatro. Ricerche in tale senso sono state effettuate da von Stroheim e da Dreyer, e previste letteralmente, forse prima di ogni altro, da Jean Renoir, il quale sin dal 1925 aveva pensato che invece di far muovere continuamente la "camera", era il caso di svolgere la messa in scena, in profondità, allo scopo di dislocare i personaggi, contemporaneamente, su diversi piani, avanti l’apparecchio di ripresa immobile. (continua)
ROBERTO PAOLELLA
CINEMA quindicinale di divulgazione cinematografica  Anno III – Dicembre 1950





domenica 19 aprile 2020

Actual Lie


Billi 
There are things you must understand... you guys moved to the West long ago 
You think one's life belongs to oneself. 
But that's the difference between the East and the West. 
In the East, a person's life is part of a whole. 
Family. 
Society. 
You Want to tell Nai Nai the truth... because you're afraid to take responsibility for her.
If you tell her then you don't have to feel guilty. 
We're not telling Nai Nai because it's our duty to carry this emotional burden for her.

Billi...
Ci sono delle cose... che devi capire.
Voi vi siete trasferiti in Occidente tanto tempo fa.
Tu pensi che la vita dell'individuo appartenga all'individuo stesso.
Ma è proprio questa la differenza tra Oriente e Occidente.
In Oriente...
La vita dell'individuo fa parte di qualcosa di più grande.
E' della famiglia.
E' della società.
Tu vuoi dire la verità a Nai Nai...
Perché hai paura di prenderti questa responsabilità al posto suo.
Perché è un peso troppo grande.
Se glielo dici...
Allora non devi sentirti in colpa.
Non vogliamo dirlo a Nai Nai, perché è nostro compito portare questo carico emotivo al posto suo.
Lulu Wang, The Farewell, 2019

giovedì 16 aprile 2020

Virginia Genesi Cufaro dal negativo al positivo




La S. A. C. I. - Stampa Artistica Cinematografica Italiana - di Virginia Genesi Cufaro vide la luce nel 1925. Era uno stabilimento di sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche attivo fino agli anni '50 del secolo passato. Trattò film come I promessi sposi di Mario Camerini del 1941, Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti del 1942, Il delitto di Giovanni Episcopo di Alberto Lattuada del 1947, Gioventù perduta di Pietro Germi del 1948, Catene di Raffaelo Matarazzo del 1949, Il mondo dei miracoli di Luigi Capuano del 1959.

mercoledì 15 aprile 2020

Ingrid Bergman a Messina





PER LA CONSEGNA DEI «DAVID» DI DONATELLO
Ingrid Bergman il 27 luglio a Messina
per la Rassegna Internazionale del Cinema
La manifestazione sarà inaugurata dal Presidente della Regione siciliana
e dal sottosegretario Resta - Presenti molti attori


Il Sottosegretario per lo spettacolo alla Presidenza del Consiglio, on. Raffaele Resta, ed il Presidente della Regione siciliana, on. La Loggia, inaugureranno sabato 27, nel ritrovo a mare della Fiera Internazionale, di Messina la III Rassegna Internazionale del Cinema che si concluderà, dopo una settimana di proiezioni, a Taormina, nella suggestiva cornice del Teatro Greco romano, con la consegna da parte di Donna Carla Gronchi, consorte del Capo dello Stato, dei «David di Donatello».
Il festival di Messina ha quest'anno assunto nel mondo del cinema una funzione di rilievo, dato l’alto tono di mondanità che l'Ente Provinciale del Turismo e l'AGIS sono riusciti a creare, assicurandosi la partecipazione non soltanto dei premiati dalla Giuria dell'Open Gate Club di Roma, ma di attori e di attrici di fama internazionale liberi da impegni di lavorazione nel periodo della manifestazione.
Ingrid Bergman che ha ricevuto l'Oscar per «Anastasia» ha confermato la sua presenza a Taormina ed alla Rassegna. Giungerà a Catania con un aereo della LAI ed una macchina dell'Ente Provinciale per il Turismo di Messina sarà pronta per portarla nel ritrovo della Fiera.
Purtroppo, Sir Laurence Olivier, interprete e regista di «Riccardo III», non potrà venire in Sicilia. In una lettera al comm. Michele Ballo egli ha espresso il suo rammarico di non potere essere presente alla cerimonia della consegna del «David» che considera alla stregua dell'Oscar americano.
L'aurea statuetta sarà ritirata in sua vece, dall'Ambasciatore del Regno Unito a Roma Sir Ashley Clarke. 
Dei premiati saranno pure a Messina in anticipo sulla serata conclusiva, il regista Federico Fellini e Giulietta Masina, il produttore Dino De Laurentis che sarà accompagnato dalla moglie, la nota attrice Silvana Mangano, Alberto Lattuada e la moglie Carla Del Poggio, il regista palermitano De Seta, il produttore Gualino per la Lux Film ed il Direttore Generale per l'Italia della Warner Bros. in rappresentanza di Jack Warner al quale è stato consegnato il «David di Donatello» per il film «Il gigante» l’ultima interpretazione di James Dean, prima della sua tragica scomparsa.
Hanno assicurato inoltre al comitato organizzatore la loro presenza la coppia Franco Interlenghi - Antonella Lualdi, la deliziosa Jacqueline Sassard interprete di «Guendalina», Madeleine Fischer, Giovanna Ralli, Marisa Allasio, Sandra Milo, Isabel Corey, Marisa Merlini, ed il cast di «Nonna Sabella», il film che la Titanus
invierà alla Rassegna, e cioè Tina Pica, Paolo Stoppa, Peppino De Filippo e Silva Koshina, l'indimenticabile attrice de «Il ferroviere».
Turisti d'eccezione, saranno pure presenti a Messina, il Principe Massimo e la consorte Dawn Addams.
Fra qualche giorno nei locali dell'Ente Provinciale per il Turismo di Messina funzionerà una segreteria speciale per la «Rassegna» diretta dalla signora Elena Valenzano dell'Open Gate di Roma.
La Radiotelevisione italiana ha assicurato il suo intervento con riprese che saranno irradiate ogni sera nel «cinegiornale».
GAZZETTA DEL SUD, Domenica 18 Giugno 1957


martedì 14 aprile 2020

Un leone a Culver City - Victor Sjöström, sometimes Seastrom


THE WIND, a masterpiece

Fra gli ultimi capolavori del cinema silenzioso negli Stati Uniti, accanto a La folla (1928) di Vidor, Sinfonia nuziale (1927-28) di Stroheim, Aurora (1927) di Murnau; e Il circo (1928) di Chaplin, un altro ancora venne prodotto dalla M.G.M.: The Wind (Il vento, 1928) di Victor Sjostrom (Seastrom). Ma prima di riuscire a dirigerlo, lo svedese doveva dedicarsi anche lui ad altre esperienze, certo secondarie in senso assoluto, ma ugualmente interessanti. Due film soprattutto meritano di essere ricordati: The Scarlett Letter ("La lettera rossa", 1926) e Masks of the Devil (La maschera del diavolo, 1928), tratti rispettivamente dai romanzi di Nathaniel Hawthorne e di Jacob Wassermann.
Il primo (grazie al quale Sjostrom fu giudicato nel 1947 uno dei dieci migliori registi del momento) era un accurato e spesso ispirato film in costume, sorretto fra l'altro da una risentita interpretazione della Gish - all'apice della carriera - (accanto alla quale era Lars Hanson), ma finiva in sostanza per strozzare in due ore di proiezione, puntellate da non poche e prolisse didascalie, le profonde risonanze del grande romanzo; il secondo - di solito ignorato o trascurato dai manuali di storia del cinema, forse perché meno vistoso del precedente non mancava certo di coraggio e di spregiudicatezza, narrando - pur se m un clima da realtà romanzesca - la. cupa vicenda di un "viveur" viennese (John Gilbert) convinto di aver assunto - a un certo momento della sua vita dissoluta - le sembianze del demonio: entrambi i film comunque riuscivano a staccarsi dal livello della produzione corrente, con un linguaggio di notevole raffinatezza, che nei più bei momenti creava intorno ai personaggi - sempre agitati da complessi problemi di coscienza - un'atmosfera di intensa suggestione. Ma è con Il vento che Sjostrom diede forse il meglio di sé in America.
Il film, tratto da un romanzo di Dorothy Scarborough, narrava la spiacevole storia di una ragazza di buona famiglia, giunta in una zona del West come domestica, la quale sposava - senza amarlo – un cow-boy, rude e del tutto diverso da lei, e ossessionata dall'incomprensione del marito e dall'ambiente poco accogliente spazzato in continuazione da un vento ossessionante, finiva per impazzire uccidendo un uomo che durante una tempesta di sabbia voleva violentarla. Una profonda e continua relazione veniva stabilita fra i personaggi e gli aspetti della natura considerata non già quale idillico o contrastante sfondo a una convenzionale storia d'amore bensì come un'entità ostile e ribelle, una presenza chiaramente simbolica che influiva sul dramma determinandone gli sviluppi e la conclusione: per questo essenzialmente e per analoghi motivi di carattere stilistico, Il Vento è forse l'unico film americano che sia possibile riallacciare con assoluta sicurezza alla migliore tradizione del cinema scandinavo. Da ricordare, a proposito di tale film (uno dei più importanti di tutta la storia del cinema), un assai istruttivo episodio marginale: mentre la troupe si trovava nel deserto, per effettuarvi - fra fatiche inaudite - la maggior parte delle riprese, giunse improvvisamente al regista il seguente telegramma (oggi conservato, quale prezioso cimelio, nel Museo del Cinema di Stoccolma): " V. Seastrom - M. G: M. Company - Kingston Hotel - Mojave, Calif. – Dopo parecchie discussioni con Frances (Marion: la scenarista) ed altri, abbiamo assolutamente deciso che Hanson deve essere completamente rasato nella scena in cui la donna lava i piatti e fino alla fine del film altrimenti non appare naturale l'amore che si risveglia in quel momento e siamo certi che il pubblico non lo
vuol vedere con la barba stop. Noi rischiamo anche troppo in questo film e non vogliamo sciupare una sola possibilità di farlo riuscire economicamente eccellente stop Non inquietatevi per queste righe. Irving Thalberg ".
Era l'epoca in cui il "Valet AutoStrop Safety Razor (Made in U.S.A.) " assicurava una depilazione perfetta - se non radicale - perfino dalle pagine dei "fansmagazines", destinati più che altro alle giovanette e agli imberbi: neppure un attore e un regista di fama come Hanson e Seastrom potevano sottrarsi alla furia depilatoria. Ma nonostante l'intervento in extremis del rasoio di sicurezza di Mr. Thalberg, Il vento riuscì così bello e sgradevole; così intenso e inconsueto da meritarsi un solenne insuccesso: il pubblico era inoltre troppo distratto dall'avvento del sonoro e la Gish passava di moda. Sjostrom venne chiamato intatti a dirigere, nel film successivo (uno dei ·suoi peggiori), La donna divina (1928), la "star,, del momento: Greta Garbo. (continua)
FAUSTO MONTESANTI 
CINEMA QUINDICINALE DI DIVULGAZIONE CINEMATOGRAFICA ANNO VII - 1954 10-25 DICEMBRE

In apertura Lilian Gish in The Scarlet Letter 1926 e The Wind, 1928 


giovedì 9 aprile 2020

Dive con autografo


Francesca Bertini
1892 - 1985


Giovanna Terribili Gonzales
1882 - 1940