Cosi, ancora una
volta, la città è lo spazio dell'estraneità, della alienazione, della
repressione e spesso dell'ingiustizia e della sopraffazione. In una dimensione
che ha il sapore dell'apologo è ciò che ci ripete Miracolo a Milano, con quella sua oleografia del capitalismo
disegnata in stile disneyano; e lo spazio che la contraddistingue non si presta
certo a equivoci. Il palazzo di Mobbi, ampio, slanciato verso l'alto secondo
imponenti linee verticali di marca architettonica fascista sembra indicare
un'altezza irraggiungibile dalla povera gente delle baracche, alla cui
esistenza reale Brunella Bovo — nel film una di loro — si rifiutava a suo tempo
di credere, un'altezza che invece verrà raggiunta e di gran lunga superata
nella famosa sequenza finale con i barboni librati su una Milano che mostra
soltanto qualche tetto e l’immancabile immagine della guglia più alta del Duomo,
destinati a un cielo che di sicuro non è il paradiso della classe operaia né tantomeno
quello del credente, ma soltanto un ideale, fiabesco spazio alternativo nel
quale la sopraffazione del potente non poté più avere la meglio sul povero,
come invece era stato persino nell'Anticittà di Totò. Pure, l'esperienza di
questa Anticittà non va sottovalutata. Miracolo
a Milano in generale, anzi, si presenta come momento essenziale nell'«iter» spaziale del cinema di
De Sica. Si noterà per prima cosa come il teatro di ogni cosa semplice e vera,
di ogni sincerità naturale, è regolarmente situato nell'area esterna alla città
8. Il film si apre su una
periferia semirurale e il gioco di Lolotta e di Totò in una delle primissime sequenze
è proprio quello di saltare su una piccola città finta posta sul pavimento
della casa. La città vera, del resto, è connotata in modo alquanto esplicito:
la si vede la prima volta in occasione del passaggio del carro funebre della
vecchia Lolotta, e ciò che la qualifica molto presto è un'immagine di furto e
di inseguimento [il ladro e i carabinieri}. Una città che mostra i più vistosi
squilibri: Tot passa, uscito dal collegio, davanti a un gruppo di operai al
lavoro (un lavoro duro, sporco, ingrato] e la sera stessa davanti alla Scala fra
uno scintillio di toilettes, un'esibizione di benessere e di scostante
ricchezza. Non a caso Totò stabilirà facilmente un contatto con i primi, mentre
con gli altri si limiterà alla distante ammirazione del semplice nel confronti
del ricco, lui che trova naturalissimo salutare affabilmente gli estranei che
gli passano accanto, suscitando irosi commenti 9.
8 E
vengono in mente le parole di Mumford: Il sobborgo riesumò, superficialmente, il
sogno della democrazia jeffersoniana, quasi cancellata dalle tendenze
oligarchiche del capitalismo, e presentò le condizioni essenziali alla sua
attuazione: una piccola comunità di individui che si conoscono tra loro e che partecipano alla pari alla vita collettiva ». Cfr.
Lewis Mumford: «La città nella storia», Milano, Ed. di Comunità, 1964,
pp. 623-24.
9 E
sulla estraneità e l'anonimità programmatiche della città si leggano le chiare
pagine di Harvey Cox: La città secolare
, Firenze Vallecchi. 1968, nel cap. La forma della città secolare, pp. 38-59. (continua)