La novellistica fusa e fluente dei primi due film si
scompone, nel terzo, in capitoletti autonomi tenuti assieme da un piú intenso
rap- porto di appartenenza dei protagonisti alla natura e da una loro qualificazione inequivoca al ruolo di stravaganti E’,anzi,
forte la tentazione di parlare di Strannye
ljudi come di un tentativo di confermare l'apoftemma prustiano per il quale siam tutti costretti,
proprio per render sopportabile la realtà, a tener desta in noi qualche piccola
follia.
Il film è un trittico esplicito. Il primo episodio è Fratello mio. Paška abita e lavora in un villaggio. Un giorno se ne
parte per la città, Yalta, per far visita al fratello. Si ritrovano dopo,molto
tempo. Ciascuno racconta cosa, intanto, gli è capitato. Il maggiore ha divorziato,
e pensa di risposarsi. Ne parla a Paška, presentandogli le « varianti» tra cui
può scegliere.
Si recano
insieme in casa d'una di queste possibili fidanzate. Paška parla con entusiasmo
alla bambina, che è la figlia di questa vedova, della campagna. E Ie racconta
la fiaba dei fiori e del cuculo.
Paška,
quindi, visita la città. Ma dopo un sol giorno decide di tornare a casa.
Per non far
sfigurare il fratello, racconta di non esserci mai stato e di aver perso i
solidi. Deve giustificarsi cosí davanti alla fidanzata che glieli aveva procurati. Si conferma cosi nel ruolo
di « svitato ››.
Secondo episodio: Colpo
fatale. Bronka, un vecchio contadino, viene ammonito per il suo
comportamento bizzarro dal presidente del soviet. Vengono intanto da lui, dalla
città, dei cacciatori per invitarlo ad una battuta. Dopo un battibecco con la
moglie che gli chiede dei soldi, Bronka si avvia. Durante una sosta, Bronka
chiede ai suoi giovani compagni se si ricordino degli attentati a Hitler.
Racconta poi di essere stato lui stesso l’autore di uno degli attentati. Era il
22 giugno 1943: alla sua audacia e ad una Browning con i proiettili avvelenati
sarebbe toccato di vendicare la patria e di liberare il mondo da Hitler. Bronka
rievoca come gli capito di fallire.
Il terzo episodio, Meditazioni,
è dedicato a Matvèj lvànovic, responsabile
amministrativo del suo villaggio. L'episodio descrive le riflessioni e i
tormentati sogni di questo vecchio che ha dedicato tutta la vita al lavoro e
che non riesce a seguire i ritmi del cambiamento. Dice degli scontri e delle
incomprensioni con la gente che lo circonda e soprattutto con la nu-ova
generazione: il giovane appassionato di musica che gli impedisce iI sonno
suonando la fisarmonica la notte e che gli ricorda con le sue canzoni la morte
del fratello minore: il giovane scultore che dedica tutto il suo tempo a
intagliare statue di legno; la stessa sua figlia, che non riesce ad entrare
all'università e che però rifiuta un lavoro
quaIsiasi . La figlia lo obbliga anzi ad un incontro-scontro con la
moglie che gli confessa finalmente di averlo sposato non già per dovere --
com'egli aveva creduto ma per amore. Matvèj difende le sue convinzioni anche
attraverso un sogno. Epperò alla fine, nel corso di un ultimo incontro con lo
scultore, ne approva le scelte, confermando senso e valore al «nuovo ».
La bizzarrie, in un qualsiasi corpo sociale, può diventare una sorta di
necessario anti-corpo contro le monotonie e le passività grame nel vivere.
Salutare presenza, quella degli strambi, ci dice šukšin. E' di fronte alle loro
“ammonizioni' che vengono meno le sicurezze dei savi, cioè le baldanze abituali
di tutti. Quel loro mettere 'in dubbio le convenzioni della vita sociale ed
affettiva, quel loro scrollare dalle fondamenta le abitudini e i sistemi di
classificazione sussunti col latte “materno” sono una sfida a quella “logica' che ci assicura le quietudini e le sazietà d'ogni giorno.
Gli “strambi” nei film di šukšin stanno naturalmente in campagna. La
loro bizzarria tè il correlativo dell'instintività campagnola di front alle
quadrate logiche che si nutrono in città e che ne costituiscono il malioso
fascino. La trilogia che qui ne esce è di una freschezza sbarazzina e
melanconica insieme, che fa crescere un film teso, e polito, modulato con
accortezza sui registri di una rustica -e il termi-ne è tutt'altro che restrittivo
- comédie humaine.
La bizzarria ha le sue varianti, naturalmente. E šukšin ne illustra
tre.
La prima è la variante patetica. La novelletta del giovane Paška che se
ne viene in città a trovare il fratello che non vede da tempo e che trova tanto
cambiato da non reggere l'urto di quella diversità - e a quest'urto un altro se
ne aggiunge, quello di una città austera e incomprensibile - è l'ennesima va-riazione del motivo, caro a
šukšin, della inconciliabilità dei due mondi, ovvero della confusione che la
città mette in chi l'avvicina con devota confidenza in lei.
Paška denuncia una delle situazioni dell'Erlebnis di šulkšin quando dirige
il film: « Non sono riuscito a capire bene -cosí si confessava con Benedetti
[int. cit.] che cosa deve trovare un uomo di campagna nella sua vita nuova.
Voglio, questo è certo, che riesca a trovare qualcosa di vero, di non
artificiale di solido. Qualcosa di campagnolo ».
Paška non riesce a trovar quel "qualcosa di noto" che egli
viene incosciamente cercando in città. Il suo vagabondare per le strade,
l’inattesa distonia con il fratello lo mettono in iscacco, lo risolvono ad accettare
la sua resa, senza ammetterla di fronte agli altri.- La menzogna con la quale
si pr-esenta ai suoi e alla fidanzata è appunto un modo diverso di dire la verità,
di riconoscere la propria erranza e di rientrare nel proprio personaggio. Se
viene creduto è anche perché quel suo mentire è necessario agli altri, perché
gli sia restituito il suo ruolo di specchio necessario; a se stesso per chiudere
la parentesi dalla sua ricercata esenzione dalla funzione che è sua: riscontro
della “normalità".
Un'altra variante della bizzarria dà vita al secondo capitoletto del
film di šukšin. [Ed le un delizioso entr'acte
di una specie di rustico teatro dell'assurdo. L'affabulazione di Bronka e
del suo immaginario attentato a Hitler è uno straordinario “crescendo” musicale
di invasamenti, di commozioni, di esaltazioni, di sbalordimenti, di sgomenti,
talmente ben modulati da rendere assolutamente credibile l'assolo del vecchio
contadino dinanzi agli sbalorditi compagni; ospiti venuti dalla città. La loro
confusione è mediata, metaforicamente,
dallo spento ruminare delle vacche che ficcan gli occhi nell’impossibile occhio
della camera, quasi a dire il potere
di suggestione che docilmente viene recepito attraverso le meccaniche dei mass-media. Bronka conosce la via di altre suggestioni. È vero. Ma
non a caso esplode con il suo assolo dopo che ha litigato con la moglie capziosa,
che lo molesta con una questione rasoterra, i soldi per tirare la giornata.
Di fronte alle esazioni del quotidiano Bronka ha bisogno di un colpo
d'ala. Di quel suo solito colpo d'ala che lo tragga fuori come una droga
che-assicura immantinente un trip nel mare dell'immaginario ove dolce e il
naufragio da una realtà meschina e grama
e che trasfiguri la sua realtà di emarginato, ma rispettato e invocato,
nell'aura di un epos eroico a sua misura, in fondo l'eroismo non è forse solo
uno dei tanti modi di rivelarsi goffi e bizzarri? E allora?
Un terzo momento della bizzarria può essere la scontrosità.
L'irritabile stanchezza di Matvij lvànovic è il frutto di una sollecitudine spesa
senza misura per gli altri, giorno per giorno, in una responsabilità che
logora. Se oggi ha in uggia il presente è perché è tutto preso dalla memoria
del futuro. II futuro apre enormi spazi di invenzione sulle monotonie che il
presente misura con pedante pigrizia. La morte diventa un pensiero dominante e
la curiosità dopo è cosi viva che a Matvèj lvanovic riesce facile di inventarsi
un fantastico funerale. E con la morte la memoria dell’amore che torna, altro
termine della bilancia, attraverso la candida figura del'l'amore giovanile che
sguscia ed erompe attraverso la scorza delle incomprensioni presenti.
E quando il vecchio avverte che l'amore -- quello che rammemora,
perduto, e quello, solo ora rivelato, della moglie - è il vero futuro, quello
che è entrato in lui per trasformarsi in dinamica di dedicazione, molto prima
di essere "accaduto", allora solamente rientra dal suo straniamento e
accetta il presente "mutuato" attraverso il sofferto confronto con lo
scultore nelle cui mani il legno già vivo rivive per una seconda creazione, non
indegna della prima.
La vita è una tenace recidiva. E Matvèj lvanovíc quando ancora per una
volta riconosce nella remissività degli altri, a lui d'intorno, l'ostinazione
di questa legge che ha I'età dei suoi anni.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto
1976