di Corrado Alvaro,
JULIEN Duvivier ha preso un soggetto italiano, Don Camillo di Guareschi, che e stato
negli ultimi anni uno dei maggiori successi di libri italiani all’estero e che
il successo estero ha imposto di rimbalzo in Italia, ne ha fatta la
sceneggiatura con un autore francese e ci ha dato un film che sembra svolgersi
in una provincia ricca e in vena di scherzi, dove il dramma politico diventa
commedia di risentimenti e rivalità piccine ma con una grande aria di
buonsenso, pressappoco come la provincia francese quando i francesi tornano
alla provincia per una boccata d’aria e scrivono Clochemerle. Lo scenario di questo film è una di quelle ben
costruite cittadine padane come Forlimpopoli, Imola, Guastalla, e cento altre.
Non ho letto il libro di Guareschi e ignoro perciò quanto di esso si trovi in
questa riduzione cinematografica, ma Duvivier non può essersi inventata la figura
del prete che, come appare qui, non può essere uscita se non da una mentre
italiana. Un prete la cui dote maggiore è una storica furberia, quale da noi si
scambia facilmente con tradizione e cultura. Perché forse soltanto da noi succede,
quando ci si trova sotto un qualunque regime o governo mal sopportato, di
contare sempre sulla furberia d’un avversario di qualsiasi altra specie,
pregustando che fra dieci o venti o cinquanta anni, esso riuscirà a fregare il
suddetto malvisto governo. La fama più consolidata di furberia è attribuita fra
noi al clero, e su di esso contava in genere l’opinione più paziente sotto il
fascismo, con preciso intuito. Cosi una tale opinione si rallegrò alla
stipulazione del Concordato, e non per altro che pel culto della furberia,
l’alta furberia, o diplomazia come si dovrebbe chiamare, di un istituto secolare.
A causa d’un malinteso, cioè d‘un soggetto italiano
trattato da un francese con l’occhio turistico di chi è chiamato a dare il suo
mestiere in una faccenda che non lo appassiona più d’un viaggio, avremo un tipo
di prete inedito fino a oggi nel nostro cinema, e forse anche nella letteratura
e nel teatro Guareschi e Duvivier per [manca
una riga, N.d.R.] [co]munisti purché sia ben chiaro che questi sono di gran
lunga meno furbi di don Camillo, parroco di una cittadina padana, e tanto meno
del vecchio vescovo che regge la diocesi. Meno furbi, e non dotati di
quell’accortezza e opportunità che elimina blandamente tutte le difficoltà. Che
il vescovo costringa, con dolcezza e senza darsene l’aria, il sindaco comunista
a dargli il braccio e a passare tra due ali di popolo stupito; che lo accompagni all’inaugurazione
della Casa del Popolo; che qui dia la sua benedizione al pubblico degli
scalmanati per definizione, e che questo si faccia il segno della croce, e uno
di quei tratti di furberia che deliziano il nostro pubblico educato allo spettacolo
di contese di questo genere, e cui riduce ormai la storia. Non bisogna omettere
che anche il sindaco comunista è furbo, e qualche tiro alle spalle del prete gli
riesce; ma non i colpi grossi. Non devono riuscirgli perché egli è un
personaggio di comodo. In fondo, la lotta e tra due protagonisti ugualmente
simpatici, vecchi amici dall’infanzia e poi combattenti fianco a fianco nella
prima guerra. Il prete sente le <<istanze popolari»; come il sindaco
comunista battezza il figlio, e si confessa; non si capisce perché abbia la fama
di anticristo e perché tutta la gente timorata del paese ne abbia orrore. Se il
solo punto di attrito e l’osservanza religiosa, qui i comunisti non fanno che
inginocchiarsi e segnarsi. Non si capisce dove sia il conflitto. Ma andate a cercare
una stretta logica nel film, dove una serie di considerazioni di opportunità,
di facilità, di volgarità, esulano da qualsiasi specie di ragionamento. E
inutile andare a cercare ragioni dove una sola è la necessità, quella di fare
parti adatte a Cervi e a Fernandel.
Vi sono altro fatti ugualmente esemplari nel film, ed
e la vecchia maestra monarchica, la quale insegna a quei poveri ignoranti di
anticristi un po’ di ortografia e di grammatica per i loro giornali murali
troppo scorretti, e che alla fine muore tra il sindaco e il curato ammonendo
che <<i re non si devono mai mandare via ». Uno dei trucchi peggiori
dell’arte e di far dire certe sentenze opinabili ai bambini e ai moribondi la
voce dell’innocenza e la voce dell’aldilà. Francamente, non è molto leale, non
per altro ma per una questione di gusto. Sono colpi bassi pericolosi che
possono suscitare l’indignazione proprio in chi si trova addirittura una
lacrimetta nella guancia. [manca una
riga, N.d.R.] del mestiere, ed egli ha da insegnare, è il rovesciamento dei
caratteri; l’attribuzione a un personaggio, accettato con certi caratteri
comuni, di qualità opposte a quella che la convenzione gli assegna. E’ il segreto
della fattura di questo film.
Il sindaco si confessa e dice le preghiere di
penitenza. Ma il prete gli tira un calcio mentre sta in ginocchio, perché il
penitente gli ha rivelato di averlo aggredito una sera rompendogli una dozzina
d’uova che aveva in tasca. Il sindaco comunista è tollerante, porta la bara
della vecchia maestra monarchica, ma il prete ha un moschetto e un fucile mitragliatore.
A un certo punto brandisce anche un bastone, di felice memoria, ma il Crocifisso
(egli parla spesso col Crocifisso della chiesa, che gli dà suggerimenti di
tolleranza e di democrazia con la voce di Ruggeri) lo sconsiglia di adoperarlo,
facendo, contro un comizio, quello che il prete dice: la marcia su Roma.
Meno male. Il sindaco è robusto: e Gino Cervi con quel
suo umore padano; ma il prete, Fernandel, e più robusto di lui e lo accoppa di
pugni quando vengono alle mani. E scaraventa un tavolo su certi comunisti anticlericali
venuti dalla città, che lo dileggiano seduti al caffé, ammaccandone ben
quindici.
Tutto il film si regge su questa costante legge
comica: l’inversione dei caratteri; il mite che è un leone, il fiero che è un
agnello, il forzuto che prende le busse, il pio che viene alle mani, il
dinamitardo che diventa filantropo, il mangiapreti che si inginocchia, il prete
che dà un calcio al suo treppizzi in chiesa, e via dicendo.
Il dialogo, evidentemente tradotto dal francese, ha
quella convenzionalità delle mediocri traduzioni, e questo non è l’ultimo dei
coefficienti d’una continua impressione di mistificazione sia pure con le
regole del buon mestiere. Ma anche questo mestiere con le sue trovate, e ve ne sono,
come per esempio la colluttazione fra prete e sindaco nella torre campanaria,
delle cui vicende si ha l’impressione soltanto attraverso i rintocchi delle campane
mosse dalle funi tra cui i due si battono, riesce stranamente indifferente.
Viene il sospetto che se il cinema può essere deteriore come nessuna altra arte
al mondo, capace di falsificazioni in ogni altra arte intollerabili, un buon
mestiere applicato a qualcosa di intimamente falso perde valore e diventa
offensivo. Ci si domanda che altro spicco avrebbe in un film mosso da motivi
[mamca una riga, N.d.R.] la, con quello scenario, quelle squadrature, quell’ordine
di portici e di edifici. C’è uno spreco di accorgimenti e di invenzioni attorno
a un fatto della più grossolana ispirazione. Tutti, del resto, dal regista agli
attori, hanno l’aria di fare un giuoco perché tale è la loro professione e sono
pagati per farlo. E raro che questa idea venga in mente a proposito d’un film
che pure è sempre un’operazione finanziaria cospicua. E, se uscendo ci si domanda
che cosa sia stato turbato in noi da questo film ben condotto, spiritoso come
un giornale umoristico, liscio, ci pare che la causa stia nella sua
indifferenza morale su tutto e su tutti, in un qualunquismo che non significa saggezza
e in un ossequio alla religione per quello che in essa è più formale e meno
scomodo, e per il valore che le dà chi se ne serve come politica.
Il Mondo, 29 marzo 1952