mercoledì 21 dicembre 2016

Il grido di protesta contro un infame mercato






Sulle immagini la voce di Vittorio Cramer pennella una dura realtà che fece tremare donne, sorelle e madri di un tempo ormai remoto,e Marc Lawrence con quel volto butterato è una visione di estrema
disonestà.


lunedì 19 dicembre 2016

Живет такой парень, Così vive un uomo,1964

La poesia filmica: «Così vive un uomo»

Sulla strada per Baklan un camion diretto verso un kolchoz accoglie un automobilista in panne; è il presidente del kolchoz del villaggio List-via/nka, Prokhòrov.
L'autista del camion, «meccanico di seconda categoria » Paška Ergòrovic Kolokòlnìkov, ventisettenne, scapolo,si lascia convincere a mutare destinazione al suo viaggio e a seguire il suo passeggero nel villaggio di Li'stvianka. Il suo camion servirà per trasportare il legname.
Nel corso di un ballo nel kolchoz Paška incontra la bibliotecaria, Nastia. Balla con lei e suscita la brusche gelosie dei vecchi compagni della ragazza.
Nel corso di una visita in biblioteca, Paška fa la conoscenza dell`innamorato di Nastia, l'ingegnere Zena: i tre fanno amicizia e si recano insieme ad una sfilata di modelli autunno-inverno prêt-à-porter, che si svolge la sera in una sala del kolchoz.
Dopo un'incursionie notturna in casa di Nastia, Paška si rende conto che la ragazza gli preferisce l'ingegnere. Rivolge allora le sue attenzioni in altre direzioni. Cerca di agganciare Ekaterìna, una donna divorziata per colpa del marito che beve troppo. La donna lo resipinge, rimproverandogli la sua fantasiosità, così prossima alla scapataggine.
Paška decide di presentare un suo maturo compagno, 'zio' Konrad, a 'zia' Anussia, con l’intenzione di fargliela sposare. Dopo una gustosa schermaglia, gli riesce di «mettere d’accordo 'zio' Konrad Stepànovic e Annussia.
Paška si reca poi al deposito di carburante per caricare dei bidoni di benzina.
Mentre si trova al bar, il suo camion già carico prende fuoco. Il giovane riesce a scostarlo dalle altre autocisterne e a gettarlo nel fiume prima che esplode.
ll deposito è salvo, lui 'si ritrova all’ospedale con una frattura al femore.
E' qui che gli capita di raccontare agli altri malati le sue immaginarie avventure sulla luna. Da quei momento viene considerato un eroe. Riceve la visita di un'inviata di -« Novyi Zurnal » (La nuova rivista), che lo intervista. Nel dialogo col maestro malato e negli ultimi due sogni, Paška si chiede che cosa sia la felicità. Gli si risponde: “E' ridere, piangere, perdonare di cuore”. Paška conclude che mette ben conto continuare a vivere.

ll primo film di Šukšin, ricavato, come gli altri, da racconti da lui scritti e pubblicati, ebbe subito una consacrazione. Quella autorevole di Venezia, anche se nel 'ghetto' della mostra del film per ragazzi. Relegazione incomprensibile se non fosse per quell'aria di novelletta “edificante” e buffonesca che il film si tira dietro e che gli valse in patria clamorosi biasimi dalla critica ufficiale, ma anche il primo premio per la "miglior commedia dell'anno" al festival nazionale di Leningrado.
Pensato e costruito come opera drammatica da Šukšin, Zivët takòj' pàren' fu preso per un film brillante, se non addirittura "comico".
E si ebbe reprimende spocchiose e balorde: «E' inammissibile che si glorifichi l'incoltura del protagonista in una società in cui tutti studiano; che si predichi il buonsenso in un tempo di grandi rivoluzioni sociali; che si pretenda di trovare il senso della vita nelle semplici gioie della natura ›› (Lev Anninakij, “Le film soviétique”, 1972, 9, p.35).
 Šukšin non se la prese. Poteva avallare la classificazione del film tra le commedie buffe. Non si rendeva conto di come e perché fossero scattati questi meccanismi di fraintendimento. Con una scontrosità e un amor proprio tutto contadino risolse semplicemente di attenuare quel suo modo naif di articolare il proprio mondo narrativo, nel quale la natura non è già decorazione di sfondo o elemento esornativo ma è l'ordito stesso della narrazione; mentre i personaggi ne sono la trama.
La natura, nei film di Šukšin, fa corpo con la gente; si anima per essa e con essa. Essa è la situazione del personaggio: così come il personaggio è la persuasione della situazione. La vita è totalizzante, fantasiosa e buona, anche quando si fa esattiva: «dobbiamo pagare per tutto nella nostra vita» è il leit-motiv di Kalina krasnaia, ultimo film di Šukšin, che offre anzi la più efficace drammatizzazione di questo tema. Drammatizzazione che viene confermata da quel tono di tenerezza estrema che inarca il film e dalla forza di convinzione assoluta che il discorso dell'autore ti lascia addosso: come ogni discorso pensoso di chi, sa di dover abbandonare per sempre la realtà delle cose care.
Zivët takòi paren' ebbe, a Venezia una motivazione d'onore piuttosto azzeccata: « Il film russo offre al bisogno di identificazione dell'adolescente la figura di un giovane che, pur caratterizzandosi in atteggiamenti tipici della sua età, non si chiude in schematismi, anzi si afferma in una ricca le complessa umanità”. Questo paradimma vale però non meno (diremmo: primamente) per il mondo adulto. Il film è parabola d'una ricerca d'identità.
L'Erlebnis di Šukšin affiora qui imperiosa: il vagare di Paška di luogo in luogo alla ricerca di se stesso e di una stabilità esistenziale - le sue allegre scapataggini, quel suo festoso cicalare, quegli ininterrotti approcci di colloquio sono indice d’insicurezza -, quel suo andare in caccia della donna ideale che sostanzi e confermi
la sua consistenza di uomo, divengono materia trasfigurata di poesia. Ed erano (sono) l'esperienza del Šukšin giovanetto che lavorava nei kolchozy, che vi si provava in molti mestieri, che cercava attraverso questa esperienza di colmare il gap di cultura con gli scolarizzati, lui che aveva dovuto lasciar la scuola a quattordici anni. L'irrequieto ed estroso viaggiare di Paška sul suo autocarro da una parte tradisce il suo bisogno di far presto, di recuperare il tempo perduto: non è dunque una fuga, la sua, ma una ricerca; non è un abbandonar se stesso, è un perquisire, un inseguire se stesso. E insieme è l'occasione per fare un inventario del mondo che lo circonda, per ispessire i rapporti tra fantasia e realtà, per capire il proprio ruolo in una società che cambia.
E' la furbizia contadina a farla da protagonista. Questo misto di buon senso, di cauta avventatezza, di fiuto delle occasioni possibili, di pazienza dell'attesa, di impulsiva capacità di reazione alle provocazioni delle circostanze è istinto vitale, è sobrio amore alle effervescenze della realtà, è elogio di un mondo asseverato, quello contadino. E' ripugnanza fisica verso la stupidità che nutre invece certi sciocchi intellettualizzati. Il confronto finale fra la giornalista e Paška, all'ospedale, sulle ragioni che l'hanno spinto all'atto “eroico"è emblematico. «L'ho fatto - dice |Paška - perché son stupido ›› A domanda idiota, una risposta che dice il nome di uno dei peccati mortali dei mass-media, banalità, ovvietà, stupidità.
E' stato giusto rimarcare (Lev Anninskij, cit., p. 34] che la finta stupidità di Paška è l'impulsiva difesa dell'uomo nelle situazioni singolari, eccezionali. Paška si schernisce per l'impresa: che è eccezionale solo secondo i cliché di comportamento d`una società che ha formalizzato al massimo i suoi rapporti interni e che inventa i suoi "eroi" solo quando li sorprende in una situazione “abnorme”, rispetto al mansueto quadro convenzionato delle sue sicurtà. L'ironia di Paška è la più spontanea manifestazione di quel pudore “contadino” che pervade tutto il film e che esplode in quella deliziosa 'novella' che è il “tentativo a buon fine” che 'Paška fa ,di combinare un'unione tra il maturo “zio' Konrad e la pacioccona 'zia' Anissia.
Konrad è un'ipotesi di Paška adulto: un vagabondo disposto ormai a barattare la sua pesante libertà con il caldo di una casa, con del buon cibo, sicuro, ben cotto e saporito.
La scena è un capolavoro di finezza psicologica nel pieno rispetto dell'id-entità goffa e scontrosa dei due personaggi. Paška è il folletto che saltella a infiorare un dialogo di reticenze e d'intese che si fa subito sicuro, spedito e godibile dopo il primo, sospeso approccio.
E l'interprete, Leonid Kuràvlëv, che sembra rivoltato nella parte sarà presente anche nel primo episodio di Vaš syn i brat; e dichiarerà di non essersi mai potuto esprimere con altrettanta felicità e facilità che con Šukšin (Lev Anninskij, cit., p. 33)- anima questo ben azzeccato ruolo di king's fool - ove il sistema collettivistico sta per il re - di stravagante ed eccentrico antieroe, quasi a sermoneggiare sottovoce (in un pianissimo che si deve estinguere quasi inavvertito) sulla destinazione di ogni inquieto cercare e di ogni burlesca ripulsa. E la destinazione è la casa di campagna. Essa le luogo della pace, la sede della stabilità. La casa fa corpo con la terra. E la terra non tè infedele.
Bruno De Marchi, BIANCO E NERO, Anno XXXVII, luglio/agosto 1976



domenica 18 dicembre 2016

Robert Ryan film projectionist







Fritz LangClash by Night, 1952


giovedì 15 dicembre 2016

Un passatempo di Charlot

Quando a Hollywood un visitatore, per tramite di amicizie influenti riesce ad avvicinare Charlie Chaplin egli lo trova frequentemente seduto davanti all’organo, mentre le dita dello artista scorrono con rapidità sulla tastiera.
Chaplin ha un piccolo organo nel suo studio, in formato ridotto, sul quale egli può sanare ogni volta che
ha un minuto di libertà; a casa, poi egli possiede un organo immenso con dei tubi multipli dal suono possente.
Giorni or sono “Charlot” ricevette un visitatore mentre stava suonando l'organo: l’ospite rimase ad ascoltare gentilmente e pazientemente, ma era evidente attendeva la fine del concerto onde iniziare una conversazione sperata da lungo tempo.
”Io suono molto bene, disse flemmaticamente alla fine “Charlot” ma voi non sembrate comprendere la bellezza della mia musica!”


CINE SORRISO ILLUSTRATO PER IL PUBBLICO CINEMATOGRAFICO Anno VI – N. 15 – 13 Aprile 1930 (VIII)

mercoledì 14 dicembre 2016

Natalie Kalmus Technicolor Director


 Western Union, 1941
Virginia Gilmore, Randolph Scott & Barton MacLane


 


The return of Frank James, 1940
Gene Tierney & Henry Fonda




 

Fritz Lang, director

lunedì 12 dicembre 2016

Fritz Lang goes to west


Fritz Lang prima di attrarre a sé i cinefili registi francesi, e per mezzo di questi cinefili di tutto il mondo, attirò l’attenzione e i dollari dei produttori hollywoodiani. E da subito volle cavalcare nelle terre del western: Il vendicatore di Jesse il bandito ( The return of Frank James), 1940 e Fred il ribelle (Wetern Union), 1941. I due film unitamente a Rancho Notorious del 1950, sono tra le opere langhiane le più personali perché andava a solcare in un genere considerato rendita solo di chi aveva la cittadinanza americana da almeno due generazioni. Facendo quei western Lang non si poteva servire della cinefilia perché di là da venire. Si limitò ad innestare in quel genere la sua visione della vita, il suo modo di fare cinema ricorrendo a quanto già aveva detto con i film realizzati prima della fuga dalla Germania nazista -  cadendo dalla padella nella brace dicono i maligni -  temi e personaggi compresi. “Come spesso accade nei film di Lang, la legge trionfa ma sono i fuorilegge che brillano” *. A fondere insieme i tre film è il valore artistico della realizzazione che non viene mai meno grazie al lavoro di tecnici in grado di soddisfare i desideri di Fritz Lang.


*Sigfried Krakauer


domenica 11 dicembre 2016

Diario di un soggettista - si cerca un soggetto


di Corrado Alvaro

Si cerca un soggetto cinematografico  e sono state chiamato anch’io. Chissà; può darsi ch’io abbia qualche idea. Si pensa che basti un’idea e si dimentica che nel cinema come in tutte le arti le idee in circolazione sono anche troppe. Il fatto più importante é di menare a buon porto queste idee, e cioè l’arte stessa.
L’atmosfera in cui nasce un film é sempre bella. Stanno tutti ad ascoltare e molto dipende dal fatto che chi narra a voce sia un buon narratore nel senso cinematografico. Aria di festa, di vigilia. Cominciano già a mostrarsi alcune persone che aspettano la nascita del film, attori e attrici. Fanno qualche raccomandazione; se possono; altrimenti tendono l’orecchio e cercano di carpire una frase, un gesto, uno sviluppo. Ogni
creazione ha la sua felicità, e il piacere di chi scrive un film consiste nel vedere come il personaggio di cui ha narrato comincia a prendere consistenza, e come già ognuno degli ascoltatori lo vede, lo porla in sé, gli suggerisce una frase, un atteggiamento. E allora il film è di tutti.

Ho commesso un’imprudenza. Mi pareva una buona idea: mettere in iscena la favola di Amore e Psiche come la racconta Apuleio. Uno degli astanti salta su a dire:  “E chi farebbe Venere, la dea Venere? ». Io penso che basterebbe una bella e garbata e prospera signora, gelosa degli amori del figliolo, che teme di diventar nonna e di sembrare perciò vecchia. Figurarsi se un pittore dei nostri grandi si fosse preoccupato di non trovare un modello per una Venere. “La favola, dico io, è una favola borghese di stile antico e può dare un bellissimo appiglio per un film familiare romano, dopo tanta romanità illustre e pubblica». No, non va. Sostengo che a ogni mode sia meglio cavare un dramma o una commedia da qualche scrittore antico  o nuovo, poiché nella creazione dello scrittore c’è una necessità un’ispirazione e una visione del mondo ben radicata in una tradizione che preme sempre sullo stesso punto. ll poeta cinematografico non è ancora nato, e il cinema di tutto il mondo si giova della letteratura come della sola che possa offrire schemi di significato universale. Per quanto cotesto schema si trasformi nella tecnica del film, serbrerà sempre una sua armonia e una forza.
I professionisti del cinema, tra noi, chiamano “ letterati » gli scrittori, e questa vuol essere una parola spregiativa. Alcuni professionisti del cinema sono letterati falliti, o gente che ai suoi inizi si volse alla letteratura, aspirò alla poesia. Ora, non c’è niente di peggio dello scrittore che non arriva al fondo della sua parabola, poiché nascere con questa vocazione è un segno che non si cancella, cui bisogna obbedire sino in fondo, a rischio di rompersi la testa. Se qualcuno di questi transfughi capisce qualcosa del cinema lo deve alla sua iniziazione letteraria; e molte belle cose si capirebbero meglio con un poco di letteratura e di cultura. Ma essi crollano il capo, si guardano, mormorano: a ”Letterati».
Accade che il direttore artistico da noi sia spesso troppo ignorante come letterato e come tecnico; perciò quasi sempre il pregio maggiore dei nostri film è la fotografia. Basterebbe a cotesto lavoro il semplice e
onesto operatore. E del resto un tempo da noi si faceva così. Poi il cinema grandeggiò, divenne un'arte, la conoscenza meccanica non bastò più. Si nota tuttora come non basti. Lo stato presente della cinematografia italiana è lo specchio di tale condizione. Manon un artista, un “letterato” che si serva, per esprimersi, del linguaggio cinematografico, e non che faccia del linguaggio cinematografico una semplice questione di tecnica. Le tecniche in sé sono appena un presupposto, in tutte le arti. L’esatta osservazione realistica che fa i gradi film è un prodotto dell’ispirazione, e di natura letteraria.
                                                                                                                                           (continua)

(Da “Scenario “, Marzo XV).


BIANCO E NERO  Anno I –  N. 3 –  31 Marzo 1937 -  XV