Supervisionata da Murnau, la camera << scatenata >> (è cosi
che i tedeschi chiamano la camera mobile) non si presta mai a un giuoco artificioso.
Di conseguenza ogni movimento, anche quando rivela la gioia che egli prova a
liberare la camera dai suoi freni, ha uno scopo preciso, chiaramente definito.
Cosi in
Tabú moltiplicherà le
imbarcazioni indigene che si slanciano davanti a un veliero: accentuerà la
diversità dei piani, farà incrociare le barche in un vivace montaggio in cui si
vede l'eroe ritornare indietro col pretesto di andare alla ricerca di un
fratellino in ritardo; avendo così agio di gustare il flusso e il riflusso
delle sottili canoe che filano sull'acqua limpida.
Il successo dell'ammirabile inizio dell' Ultimo uomo è dovuto interamente al modo di manovrare la camera:
attraverso i vetri dell'ascensore che scende abbracciamo con un solo colpo d'occhio
l'intera hall dell'albergo con il suo baluardo di piani, sentiamo
immediatamente l'atmosfera particolare che agita il fiotto continuo dei visitatori
che entrano ed escono sotto lo scintillio delle luci vibranti di un moto
ininterrotto; i contorni si rompono e si riformano, in un rapido concatenamento di immagini che
mozzano il fiato.
Quando la camera è supervisionata da Murnau, tutte le risorse visive
sono esplorate: essa mette a nudo, lentamente, sapientemente, tocco per tocco,
il pietoso stato del portiere che qualche minuto prima ci appariva ancora ben
protetto nella sonsontuosa e pesante sicurezza della sua livrea. Rivela spietatamente
il colletto consunto di una giacca miserabile, il vestito sgualcito; e scende,
perché nulla ci sfugga, lungo le gambe raggrinchiate nei pantaloni piegati a fisarmonica.
Murnau si compiace ad unire la mobilità della camera con gli effetti di
ripresa attraverso un vetro, precisamente come ha fatto al principio del film
riprendendo la hall dell'albergo attraverso i finestrini dell'ascensore in
discesa. La scena che scatena il dramma - il direttore che annuncia al portiere
che lo hanno assegnato a una funzione più modesta - è vista di lontano attraverso una porta a
vetri. La camera mobile si avvicina lentamente, fissa la confusione del portiere
e la schiena indifferente del direttore. E, pure da un'altra porta vetrata,
vediamo venir avanti la governante incaricata di condurre Jannings al suo nuovo posto; essa simbolizza con la rigidità del suo atteggiamento “il
destino inesorabile” mentre nell'armadio luccica, simbolicamente, l'uniforme
perduta. E' con lo stesso procedimento che Pabst mostrerà attraverso i vetri di
una porta nel Diario di una donna perduta
la scena decisiva fra Louise Brooks e Fritz Rasp, il suo seduttore, e che nell'Opera da tre soldi si sorprenderà Mackie
Messer che prega Polly Peachum di seguirlo per sempre.
Murnau si compiace della superficie liscia dei vetri che sostituisce
tanto spesso per i cineasti tedeschi quell'altra superficie liscia che è
rappresentata dagli specchi. La sua camera indugia su quei piani opalescenti,
grondanti di riflessi di luce o di pioggia: finestrini d'automobile, battenti a
vetri della porta a bussola dove si riflette la silhouette del portiere vestito di un luccicante incerato, massa
scura di case dalle finestre illuminate; pozzanghere luccicanti sul selciato
umido. E' una maniera quasi impressionista di evocare l'atmosfera: sotto la sua
direzione, la camera sa fissare quella penombra diffusa che viene di notte dai lampioni
accesi, giuoca con le irradiazioni che sotto la spinta del movimento diventano
vibrazioni, scanalature luminose; tenta anche di afferrare, nello specchio dei
gabinetti i riflessi degli oggetti di toilette luccicanti o quello di una
impalcatura nera che si intravede nella corte.
Lotte
Eisner, Lo specchio scuro, ed. Bianco e Nero, 1951