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Frattanto, depressione e << New Deal >› aiutando,
il mito del «gangster» s'era sgonfiato come, troppo cincischiato da vogliose
mani infantili, si affloscia il palloncino di un bimbo. Occasionale ma rivelatrice
ironia, il capo dei << G. Men», Hoover, aveva lo stesso cognome dello
sfortunato presidente che aveva promesso la prosperità << all'angolo della
strada ›>. Accadevano cose incredibili nella democrazia prima devota al
<< laissez aller >› e alla libera iniziativa. Il periodo si saldava
con gli speculatori rovinati che si gettavano dall'alto dei grattacieli e con
il << Brain Trust >› rooseveltiano che, dopo aver abolito la
proibizione, prima origine del gangsterismo, si preparava all'iniziativa
<< sociale >> della << Tennessee Valley >>. Nell'euforia
dei primi anni del regime di Franklin and Eleanor l’aquila degli indefessi
<<newdealers >> fu pure l'emblema protettivo dei film di Hollywood;
cinematografie celebrative degli uomini di Hoover fiorirono l'una dopo l'altra:
G. Men di Keighley (La pattuglia dei senza paura, 1935), e Public Hero No. I di Ruben (Missione eroica, 1935). G. Men è più importante di Public Hero No. I per la superiore
densità dell'azione e per la mancanza di trappole sentimentali; mentre Public Hero No. I vince il rivale per
una sorta di dilatazione dell'assunto - la lotta contro i banditi in pro di una
superiore dimensione cornelliana che tocca, oltre la vicenda << périssable
››, conflitti d’anime antichi come
l'uomo. E valga il vero. Mentre in G. Men
è la lotta dell'uomo della legge contro i banditi, con la piccola complicazione
di Ann Dvorak, venuta difilato da Scarface,
dove figurava come sorella di Paul Muni e fidanzata di George Raft, in Public Hero No. I sentimenti eterni come
la Donna e l'Onore erano il perno del racconto. Conflitto col Dovere, risolto
nello stupendo episodio del capo dei G.
Men che ricorda al subordinato incerto il giuramento prestato, e conflitto
sentimentale (tipicamente cornelliano!) quando Chester Morris s'accorge che Jean Arthur è sorella del fuorilegge Calleja. È caratteristico,
per aver la riprova del diverso peso psicologico dei due film, che, dopo tanti
anni, e anche qui, ahimè!, senza rilettura, la memoria indugi, compiaciuta e
appagata, sulla battaglia finale per G.
Men e su episodi come l”atrio dell'albergo durante l’alluvione in Public Hero No. I. L’anno dopo con The Petrified Forest (La ƒoresta pietrificata) e, ancora più
decisamente, nel 1937, con Dead End (Strada sbarrata) il genere <<
gangster ›› finiva gloriosamente nelle mani di Archie Mayo e di Wyler. Dietro non c”era più la divina
inconsapevolezza della cronaca ma l’abilità mercenaria dei teatranti di
Broadway, più usi al crepitare degli applausi che a quello delle pallottole. Le
spericolate, facinorose redazioni di Chicago erano state sostituite dalla falsa
semplicità dei bar e del Greenwich Village. L'eroe delle nuove storie è Bogart,
che si appoggia ai versi di Villon recitati con intellettuale estenuatezza da
Leslie Howard e alla scaltrezza istrionica di Bette Davis, cui tutto fa brodo per far le scarpe a Greta << divina >>. Come lo
stupefacente impianto di Dead End non riuscirà a farci dimenticare lo scipito
idillio di McCrea, i fondali dipinti, e la fissità « aristotelica ›>
dell'azione, del tempo e del luogo. Figlio della cronaca, il film << gangster»
era stato adottato dagli intellettuali, pronti a rivestirlo di panni accademici
e ad introdurlo, tutto ravviatino, nei salotti. Dopo aver suonato lugubre a
Roncisvalle ed elegiaco sui colli di Scandiano, il corno di Rolando si
apprestava a incontrare l'approvazione dei cardinali ferraresi. L’<< arte
>› vinceva lo slancio vitale, le ottave di messer Ludovico facevano obliare
la canzone di
gesta.
1950
Pietro Bianchi, Maestri del cinema