Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
mercoledì 23 settembre 2015
lunedì 21 settembre 2015
Il buono, la bella, il cattivo
OGGI
Siamo
sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso. Ancora devono venire fuori
alcuni giovani autori che cambieranno la faccia al Cinema per Eccellenza: il
western. In quei tempi John Sturgess,
uno dei massimi direttori per questo genere, confeziona un film che visto oggi
presenta delle attrattive che definiamo, con un’espressione dei giorni nostri,
intriganti.
Tutto
merito di un paesaggio quanto mai selvaggio e di due attori, Robert Taylor e
Richard Widmark, recuperati ormai avanti con gli anni. Era consueto in quel periodo
affiancare una giovane e bella ragazza con un maturo eroe degli anni andati. Qui sono Robert Taylor e Patricia
Owens, altrove Gary Cooper con Julie London, per non tacere del “ duca “ John
Wayne con Angie Dickinson. Aggiungete a questi due vecchi infantilmente
innamorati qualche altro caratterista con problemi freudiani e il soggetto
galoppa fino alla resa finale.
Il
35 mm impresso col cinemascope, ancora di più con le luci date da Robert
Surtees, sul grande schermo del cinema Garden
di via Antonio Martino o dell’ Odeon
sul “ Viale “ di certo facevano bella
mostra di sé; il piacere era sedersi nella prima fila sotto lo schermo
possibilmente nella poltrona centrale.
In
Sfida neIla città morta ( The Law and Jack Wade, 1958) i tre del
nostro titolo incattiviti tra di loro partono per recuperare un bottino sepolto
in un cimitero. Non è la fossa anonima accanto a quella di Archie Stanton resa
celebre a causa di tre altri sciagurati che si contendono il contenuto sepolto
sotto la sabbia. Nel titolo di quel film fu oscurata la Bella e messo in mezzo
il Brutto che andava per nome: Tuco, Benedicto, Pacifico, Juan Maria Ramirez.
domenica 20 settembre 2015
L' AUTUNNO DI ANDRZEJ MUNK
ANDRZEJ
MUNK 16 Ottobre 1920 - 20 Settembre 1961
Amore
mio, anche ì miei pensieri sono sempre con te. lo sono sempre con te. Non devo
neppure chiudere gli occhi per sentirti vicino, è come se bastasse allungare una mano. Amo la
tua mano, le tue braccia.
Amore, amore mio grande, non importa che tu non mi
possa parlare, conosco bene la tua voce.
E anche se non puoi starmi vicino, posso parlare con
te. Possiamo parlarci, dirci tutto.
Amore, è già autunno? Sono distesa vicino a te
sull'erba. Ci sono tante foglie rosse. Tra poco pioverà.
Mi riparerai dalla pioggia, coprirai i miei capelli. Cammino
nel fango e non ci sono foglie.
Amore, e tu? E' un bene che tu esista. Bacio le tue
labbra perché non siano tristi. Bacio i tuoi occhi
perché mi diano la buonanotte. Fine
Tratto da La Passeggera (Pasażerka. 1961)
giovedì 17 settembre 2015
Da Robert Bresson a Gustave Flaubert
In un paese che, per molte ragioni, e malgrado tutto, è ancora legato
al rispetto di certi valori tradizionali, a Robert Bresson è riuscito il colpo
incredibile di trovare dei finanziatori per tradurre in un film il romanzo del
povero Georges Bernanos, il << Journal
d'un cure de campagne >>. Si tratta di un’opera cinematografica di
raro interesse; anche se è chiaro che sul piano morale quei bei tipi di
capitalisti che hanno affidato i loro milioni a Bresson meritano almeno la
stessa riconoscenza, da parte degli spettatori illuminati, guadagnata dal regista.
I problemi del male, della grazia, della carità, del destino com’è abbastanza
noto, sono affrontati nel suo maggior romanzo dal Bernanos attraverso la figura
d’un prete di campagna candido, disarmato, malato ma dall'incorruttibile fede.
È un dramma quasi sempre interiore, e spinto, ai fini artistici, ai limiti
delle possibilità romanzesche. La Chiesa chiede infatti ai suoi servi impegnati
<< nel secolo >> che siano di buona salute, apostoli vigo-rosi e
soldati senza debolezze fisiche. Accade invece che il giovane protagonista del Diario sia affetto- da un tumore mortale,
malattia piuttosto rara nei giovani e ad ogni modo difficile da diagnosticare alle
origini. Il sacerdote trova nel piccolo centro, delle cui anime è il pastore,
diffidenza cocciuta, inerte, cieca da parte dei villici mentre il << castello
>> ospita un << nodo di vipere >> difficile da sciogliere. Malato
a morte, ma senza saperlo, il prete ha la fatale rivelazione da un medico volteriano;
scrive le ultime pagine del Diario in uno di quei caffeucci vicino alle
stazioni ; poi va a morire tra le braccia di un compagno di seminario, che ha lasciato
la veste sacerdotale per accompagnarsi con una donna. Prima di morire mormora:
<< Tutto è grazia >> .
Bresson, scegliendo il prete di Bernanos a
protagonista del suo film, sapeva di porsi una sorta di scommessa. Nel Diario di un curato di campagna non vi è
nulla di ciò che non solo i maneggioni ma i teorici dello << specifico
filmico >> -ritengono << cinematografico >>. Manca il sesso;
manca l’avventura; non c’è ombra di trama; non c’è << lieto fine >>.
E manca soprattutto il << movimento >>. A parte le difficoltà tecniche,
penso che sia più facile ricavare un film da Proust, dal romanzo nel romanzo intitolato
<< Un amour de Swann» per
esempio (idea che, a quanto ne so, non è ancora venuta in testa a nessuno), che
dal romanzo di Bernanos. Eppure Bresson ha quasi vinto la scommessa. Il suo
film, senza essere <<d’avanguardia >>, ha un fascino singolare. Non
ha, a propriamente parlare, una tradizione cinematografica. Soltanto, ma in un’altra
direzione spirituale, la coppia Coward-Lean con Breve incontro in Inghilterra ha tentato di dirci, come Bresson,
qualcosa di ineffabile. E sempre sul terreno della lezione, del messaggio, di
una certa letteratura francese che si rivolge << all’uomo interiore
>>: per Breve incontro la
lezione viene dalla << Princesse de
Clèves >> di Madame de La Fayette, per il film di Bresson bisogna rimontare,
attraverso Bernanos, alle << Pensées
>> di Pascal. Un particolare rivelatore consiste, nel Journal di un curé de campagne, nella parte
artisticamente più debole: quella che si svolge nel << castello >>
tra i ricchi, affetti, direi organicamente, da alcuni peccati mortali. Che è
l’unica che offra partiti di interesse pratico, nella quale affiori l’ombra d'una trama. Soltanto dalla civiltà
francese, da una nazione in cui una società è ancora viva e in fermento, in cui la
passione delle idee riesce ancora a muovere il capitale privato, ci poteva
venire il segno, restato quasi unico a Venezia, che il cinema non è morto, e
che la Francia è il luogo fisico e spirituale delle sue prove più durature e
virili.
Per dare maggiore autenticità al racconto, il Bresson
è ricorso a un giovane, Claude Laydu, che era alla sua prima interpretazione;
mentre l’ambiente, campagne deserte, strade
autunnali, caffeucci, povere case, è lo stesso, nel nord della Francia,
che ha ispirato il testo originale di Bernanos. Altissima prova di stile, il Diario- non ha un
cedimento: è visto e raccontato con una puntualità stilistica da dar le vertigini.
È una di quelle opere che si accettano << in toto->> o si
respingono senza remissione. Di fronte a film pur importanti e vitali come L’asso nella manica, il Diario fa la figura di << mo-stro
>> sacro'. Ma è certo che alcuni passi: le attese mistiche all’alba e al
tramonto, il dialogo finale con il buon curato di- Torcy, sono di tale potenza
da commuovere anche lo spettatore più distratto, il più tenace ammiratore dei
tipetti formato Esther Williams.
È curioso questo fatto: mentre tra il diario-romanzo e
il diario-film i << contenuti >> sono quasi identici, tra Bernanos,
l'autore, e Bresson, il regista, dal punto di vista espressivo, c’è una
differenza sostanziale. Bernanos è un narratore romantico, impegnato, pieno di
furore biblico, di canonico disprezzo per gli atei, contro i quali, nelle sue
pagine, balenano, d’improvviso, fulminanti invettive. Bresson è, invece, un
narratore avviluppante e pacato, lucido e puntuale. Un tipo per cui la lingua,
lo stile son tutto: come il Dreyer di Dies irae. E se volete un paragone
letterario', pensate al Flaubert moralista e stilista di <Madame Bovary >> e di <<Un coeur simple >>.
mercoledì 16 settembre 2015
Kinuyo vs Hideko
Tell me, what is the modern thing? You are modern? You do not believe that
you are obsolete? I ask it you to you.
It pleases you to visit temples
and gardens, for example. That is obsolete? Perhaps it is ill?
I believe that "to be new" Is "not to age".
The things that are really new, never age. You understand?
What signifies "new" for you? The short skirts? The nails
painted of the color fashionable?
Pleases you today because is "new", but tomorrow will be
"old".
Dimmi, che cos’è moderno? Tu sei moderna? Tu non credi che sei antiquata? Lo chiedo a te.
Ti piace visitare templi e giardini, per esempio. E' una cosa fuori moda? E' sbagliata?
Credo che "essere nuovo" è " non invecchiare".
Le cose che sono veramente nuove,
non hanno età. Hai capito?
Cosa significa "nuovo" per te? Le gonne corte? Le unghie dipinte del colore alla moda?
Ti piace oggi, perché è "nuovo", ma domani sarà
"vecchio".
Yasujiro Ozu, Le sorelle Munekata (THE MUNEKATA SISTERS) , 1950
lunedì 14 settembre 2015
Compromessi in cinema e musica
Raccontai al regista ( Brian De Palma ) la mia idea per musicare questa sequenza. Volevo mettere un suono di carillon, che esprimeva un motivo popolare, accompagnandolo con la musica molto dura, dissonante. Questa contrapposizione sembrò al regista un po` troppo grottesca. E lo era. lo dissi che in una scena di sette minuti, ripresa poi per altri tre minuti dopo gli spari, era necessario un po' di grottesco. De Palma non era d`accordo. Io registrai lo stesso e De Palma alla fine convenne che era giusto agire in questo modo. Quindi con il regista si può andare d`accordo, in generale; trovare dei punti in cui non si è in sintonia con lui: trovare dei compromessi o delle soluzioni dove uno subisce l`altro. compromessi non sempre sono dei pataracchi, come succede in politica; qualche volta, nella creazione artistica, quando la tecnica e la fantasia riescono a dare dei risultati, il compromesso produce dei risultati eccellenti, che prima non si sarebbero immaginati.
Centro Studi Cinematografici Anno XX n. 1-2 gennaio/aprile 1990
domenica 13 settembre 2015
Дерсу Узала
OGGI
Di Dersu Uzala, il libro di
Vladimir Arsenyev, si conosce meglio la trasposizione fatta nel 1975 da Akira
Kurosawa che questa prima versione del 1961 diretta da Agasi Babayan. La
differenza, rimarchevole, è in come i due registi affrontano il libro del
viaggiatore e geografo russo. Per farla breve se il film di Kurosawa mette
l’accento sul rapporto tra il capitano e la guida attraverso la taiga, Babayan
si concentra sul legame tra il cacciatore indigeno e le distese dell’ Ussuri.
Dersu sa che, di chiunque, il passaggio
sulla terra è breve per questo riconosce un’anima in quanto vive nella pianura
e nella foresta siano essi neve, alberi o animali. Egli a differenza del Dersu
del 1975 non andrà mai a vivere in città per poi fuggirne, rimarrà sino alla
fine nell’ elemento che l’ha visto nascere. Questo scambio è servito bene dalla
base documentaristica che è nel film: alla fine gli occhi di Vladimir Arsenyev
non sono che i nostri.
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