mercoledì 11 febbraio 2015

Anna Magdalena e Johann Sebastian

OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica “ Yasujiro Ozu


Autori di un cinema “ mai riconciliato “, che ha la sua origine in Roberto Rossellini, lontani dai consensi delle masse, con lavori inaccessibili ai più, Danièle Hulliet e Jean Marie Straub si sono costruiti intorno una piccola rete di ammiratori che come loro sono restii a cercare compromessi. Semplicità e decoro sono alla base del loro film più noto: Chronik der Anna Magdalena Bach del 1967. Trasferire sullo schermo la vita e le opere di Johan Sebastian Bach non è cosa da tutti, quando la meta non è Hollywood. Leggendo i titoli dei due film ci si accorge di quante ditte, note per abilità, hanno concorso alla realizzazione della pellicola: citiamo a titolo di esempio i nostrani Gian Vittorio Baldi produttore, la Casa d'Arte di Firenze per l'abbigliamento,  Rocchetti  per le parrucche. Con la loro esperienza il film cattura lo sguardo che rimarrà impresso nello spettatore più esigente. Ma il merito più elevato lo hanno esecutori ed interpreti, forse i migliori, del Cantor: Gustav Leonhardt, Christiane Lang, Nikolaus Harnoncourt, assieme a solisti e cori del Concertus Musicus Wien, lo Knabenchor Hannover  che oggi contano un numero elevato di incisioni su qualsiasi supporto adatto alla riproduzione.
Per tornare a Hulliet e Straub bisogna riconoscere che, pur non avendo la fama di Luchino Visconti, il duo ci restituisce integri gli anni, la vita e le opere del Maestro di Lipsia e Dresda. Attraverso le parole di Anna Magdalena entriamo nell'intimità della famiglia, le gioie per i successi e i dolori per la prematura perdita dei figli. Per mezzo delle missive di Bach scopriamo i  rapporti col potere rappresentato dai principi delle città, dai rettori delle università, dagli alti prelati delle chiese, dove egli esercitava il suo magistero. Pochi carrelli, maggior uso di angolazioni statiche in ambiti ristretti come potevano essere le stanze o i pulpiti dove la musica di Bach veniva eseguita. Il resto lo fanno gli sguardi della cinepresa sulla grafia del Maestro o sui panorami, incisi su carta, di città o chiese che hanno visto il Cantor, o meglio, ascoltato la sua musica creata per conto di Dio.
Soli Deo gloria


martedì 10 febbraio 2015

WINDOWS - Immagini sovrapposte



Ho fatto un film in America che si chiamava Windows. Questo film mi è rimasto particolarmente impresso soprattutto per due immagini straordinarie. C'era una donna alla finestra e aveva un momento di grande dolore. Il suo sguardo era rivolto alla città che aveva di fronte. Lentamente, dal primo piano della donna, con una dissolvenza che durava trenta secondi, entrava l'immagine della città: gli occhi della donna diventavano come delle finestre e le finestre entravano dentro di lei: la sua luce diventava la luce delle finestre di una grande città come New York. Erano due dissolvenze straordinarie. Questo è un caso di immagini sovrapposte. Tuttavia non possiamo vedere un film con delle immagini sovrapposte, perché l'organo della vista non capirebbe nulla. Pensate di dover sempre vedere delle immagini doppie. E come essere ubriachi.
 Ennio Morricone, Il cinema è musica
Centro Studi Cinematografici Anno XX n. 1-2 gennaio/aprile 1990

lunedì 9 febbraio 2015

Trattenimento elegante ed istruttivo



Al neocinematografo. - Nel corso Vittorio Emanuele accanto al Nettuno si è impiantato un elegante cinematografo diretto dal nostro concittadino Sig. Serravalle.
Lo spettacolo è quanto mai attraente specie perché le visioni non durano come prima appena pochi secondi, ma più di due minuti primi.
E' un trattenimento elegante ed istruttivo nel medesimo tempo e chi ci è stato può dire di aver proprio visto dal vero ciò che la tela riproduce con tanta naturalezza.
Ecco intanto il programma di stasera:
1. Gara velocipidistìca  Derby-Parck a Londra.
2. Grande piazza della Libertà a New York.
3. Sbarco dei cristiani fuggiti da Candia.
4. Sparizione di una donna.
5. La vittoria dei garibaldini contro  turchi.
Le rappresentazioni avranno luogo tutte le sere dalle ore 18 alle 12.

Pubblicato sulla Gazzetta di Messina e delle Calabrie

domenica 8 febbraio 2015

Grazie di tutto, Nigel

 Non mi va che mi guardi mentre muoio. (Cheyenne)
Se ne andato come Jason Robards in C’era una volta il West, colpito da un destino burlone, come se fosse lui stesso a canzonarsi. Nigel (Haynes) non tornerà più a Messina.  Una folla folle di ricordi si scopre, e tutti richiamano il Maestro Morricone. Nigel ha speso i suoi stipendi comprando qualsiasi incisione, dal vinile, dapprima, ai compact disc. Poi venivano Bob Dylan e Neil Young; hai voglia a dirgli che c’era anche Paul Weller. Quando ebbe modo di esternare questa sua passione ad Ennio, in Catania, quest'ultimo a sentire la quantità dei  lavori posseduti  disse a Nigel: “ risparmi il suo denaro “. A Reggio, la prima volta che lo vide, il Maestro era irritato per la poca attenzione del pubblico, Nigel ribolliva d’amore.

giovedì 5 febbraio 2015

Nascita del neorealismo (2)

La critica cinematografica, inaugurata da poco nei quotidiani, incoraggiò come poté l'epifania di Blasetti, il quale tuttavia fu soprattutto aiutato dalla rivoluzione che avvenne allora nel cinema, l’avvento del film sonoro e parlato. Il pubblico internazionale, che affollava le sale oscure sempre avido di nuove favole, che comprendeva benissimo il linguaggio dei suoi mimi, e che non sentiva affatto il bisogno che essi parlassero, fu sconvolto, atterrito e in parte disperso dall'avvento del film parlato. Non solo i nuovi film erano tanto più scadenti degli antichi; ma apparivano lenti là dove gli altri erano rapidi; dialettici e difficili da comprendere, là dove gli altri eran trasparenti e leggeri come acqua di fonte.
Le produzioni locali e nazionali, schiacciate senza remissione dall’imperialismo del cinema americano, capirono subito che il gigante di Hollywood nella sua smania agitatoria e nel suo acrobatico attivismo s'era tagliato le ali da solo. I film americani, che non si capivano, nessuno li voleva più vedere (l’espediente del doppiaggio era di là da venire); le sale erano deserte, ma le masse degli antichi spettatori non aspettavano che un cenno; Inghilterra, Germania, Francia e Italia allestirono in fretta, chiamando tecnici da fuori, stabilimenti cinematografici e in brev’ora nacquero, meglio rinacquero, le cinematografie nazionali.
S'è accennato prima che, al tempo della dissoluzione del primo cinema nostro, registi e attori avevano preso le vie dell’esilio. Appoggiato dallo Stato, che sentiva l’importanza politica del nuovo linguaggio, e dagli investimenti capitalistici che giocavano sul velluto nella contingente carenza della produzione straniera, il cinema italiano aveva fame di gente. Inghiottiva tutti, registi e belle amiche dei produttori, scrittori riusciti e letterati falliti, indigeni e barbari. Per una sorta di capriccio, il produttore più importante aveva chiamato, come direttore generale, un letterato finissimo, e non troppo in odore di santità politica, Emilio Cecchi, che, studioso di letterature straniere e viaggiatore, aveva una certa esperienza delle cose di fuori e che si era fatto notare con note critiche informate a un originale ed illuminato amore per il cinema. La gestione Cecchi fu caratterizzata da un film, sbagliato come impostazione e come interesse spettacolare, ma ricco di germi, Acciaio, di un documentarista tedesco, Walter Ruttmann, su uno scenario originale di Pirandello, e da un paio di film di Camerini, in sé eccellenti quanto caratteristici della produzione di questo direttore artistico. Gli uomini, che mascalzoni! fu la pellicola di Camerini che risultò più accetta al pubblico. Ebbene, ne Gli uomini, che mascalzoni! c’è in gran parte il mondo, la concezione popolaresca, e l’uso dei mezzi tecnici che piaceranno tanto agli << aficionados >> del nuovo cinema italiano del secondo dopoguerra. Ne Gli uomini che mascalzoni! la periferia di Milano coi tram saettanti nei mattini chiari di primavera; la Fiera Campionaria, la piccola gente colta sul vivo delle proprie ingenue passioni e scoperti difetti, il commento musicale,  ispirato da  quelle canzoncine, patetiche, melodiche, condotte  -sembra - sul filo di un rasoio, che gli americani, sbarcati a Salerno poco più di dieci anni dopo, scopriranno con tanto entusiasmo; attori e attrici quasi nuovi nel cinematografo (dei protagonisti, De Sica veniva dalle scene di prosa, e la ragazza, che si chiamava Lia Franca, era al suo primo film). Come non riconoscere in tutto questo gli elementi, anche se privi delle acute droghe della disfatta, che il mondo celebrerà più tardi in Sciuscià e in Vivere in pace?

Vennero poi per il cinema italiano anni di grande felicità materiale, quanto di intima povertà spirituale. Lo stesso precursore Blasetti non era riuscito che a un quasi capolavoro, 1860, in cui però, caratteristicamente, e ancor più che nel film di Camerini, sono riconoscibili i motivi della << nuova scuola ››: gli attori non di professione, gli esterni naturali; e addirittura l'espediente, che poi sarà usato da Rossellini, dei protagonisti che parlano la lingua che è loro propria, anche se è un dialetto quasi incomprensibile allo spettatore comune.
Quasi alla vigilia della guerra intanto, ma con molta più coscienza e preparazione culturale, s’era formata un’altra << chapelle >> di giovani intellettuali, fanatici del cinematografo, che s’erano raccolti attorno a una rivista, in parte dottrinaria e in parte d'informazione, che si chiamava << Cinema>› e che era diretta dal figlio del dittatore, Vittorio Mussolini. I giovanotti erano tutt’altro che degli entusiasti del regime, in quegli anni del resto in netta involuzione, ma il paravento serviva ottimamente. Nel gruppo erano fermenti vitali, nascosti, come accade, da astratte ideologie. Ma il terreno era buono; e nei paraggi, se non proprio tra
le pagine della rivista, dovevano svilupparsi le tre personalità da cui la << nuova scuola >>avrebbe preso lo slancio per gli ulteriori voli. Alludiamo al comandante di marina Francesco de Robertis, i cui Uomini sul fondo e Alfa Tau son nelle memorie di ognuno; il Visconti di Ossessione; e il Rossellini di Un pilota ritorna.  
L’autarchia cinematografica italiana non aveva aspettato il conflitto del ‘40. Già alla fine del '38, con uno di quei colpi di testa che son caratteristici delle dittature, si era deciso all’ostracismo ai film americani. Se il provvedimento risultò subito esiziale alla cultura del paese e alla fame di verità degli spettatori, oppressi dalla chiusa temperie del ventennio, i registi giovani più spregiudicati e coraggiosi ne ebbero un innegabile giovamento (qualcosa di simile capiterà in Francia ai Clouzot e ai Becker durante l’occupazione nazista). Esperimenti come quelli di De Robertis, e soprattutto come quello di Ossessione, non sarebbero stati altrimenti possibili.

Quando, subito dopo l”epifania della Liberazione, spunteranno, come i funghi dopo le prime piogge di settembre, il Rossellini di Roma, città aperta e di Paisà e il De Sica di Sciuscià, pochi penseranno a riconoscere nel primo lo sviluppo del regista di Un pilota ritorna e nel secondo la logica conclusione di certe premesse delle sue ultime pellicole.
Poi è venuto il successo internazionale: Roma, città aperta, Sciuscià, Vivere in pace, Paisà han tenuto gli schermi a Parigi, a Londra, a Nuova York, tra l’ammirazione universale. La << nuova. scuola >› è stata dappertutto imitata e sin dai maestri di Hollywood.
 1948



Pietro Bianchi, Maestri di Cinema, Aldo Garzanti editore,1972

Nella foto in alto il critico cinematografico Pietro Bianchi, 1909 - 1976, seguono screenshot da Sciuscià di Vittorio De Sica












     Pietro Bianchi  1909 - 1976


martedì 3 febbraio 2015

Nascita del neorealismo


Do il via oggi alla esposizione di alcuni articoli scritti da Pietro Bianchi, critico cinematografico dal 1928 al 1976 ma anche insegnante di filosofia e cultore di Marie-Henri Beyle, meglio conosciuto come Stendhal. Egli operò in un periodo in cui il cinema era giovane come giovani lo erano le persone che vi si accostavano con vergineo amore.


Prima parte

Quasi tutti gli stranieri si sono lasciati prendere al laccio di quella che, proprio fuori d'Italia, è stata chiamata la << nuova scuola >> del cinema italiano.
Apparsa, dunque, a sprovveduti e ad ignari, qualcosa di simile ad Atena uscita, grande, ben fatta ed armata, dal 'cervello di Zeus. Si aggiunga che in tanti c”è una prevenzione moralistica, ben lieta di attribuire il trionfo del cinema italiano all’avvento delle libertà democratiche nel nostro paese.
La verità invece è un’altra. Quasi tutti i trionfanti registi di oggi sono registi non trionfanti di ieri; e molti di essi, i precursori, i Giovanni Battista della << nuova scuola >>, sono addirittura sulla breccia da diecine d’anni, dal tempo del muto.
In Italia, a essere giusti, quasi nessuno è caduto nell’orcio pieno di vento delle lodi straniere: i Rossellini, i De Sica, gli Zampa eran troppo di casa per non riconoscerli, anche se un'improvvisa celebrità rischiarava lineamenti prima oscuri. Non molti invece hanno idee chiare, idee appoggiate a una cronologia e a una storia, sull'origine, sullo sviluppo e infine sulla crisi della << nuova scuola >> cinematografica
nel nostro paese.
Come in una favola, la cosa cominciò così. A un enorme amore, sia delle masse indifferenziate quanto di molti giovani preparati e sensibili, per il cinematografo, non corrispondeva, negli anni sotto il '30, nessun concreto apporto italiano nella produzione. Vagavano, è vero, ancora qua e là i fuochi fatui della movimentata avventura del nostro cinema negli anni prima e dopo la guerra europea del '14: quando, illusi da un precipitoso trionfo, dive, registi e produttori si erano dati alla produzione di pellicole a tambur battente, fatte in pochi giorni, o addirittura in poche ore, e vendute a scatola chiusa. A un certo momento la gente di fuori aveva scoperto le arance marce sotto il primo strato di quelle fresche e aveva rifiutato << in toto >› l”articolo. Delle dive, chi non si era accasata, finì malamente; dei produttori, chi dichiarò fallimento e chi cambiò mestiere; dei registi, i più avventurati se ne andarono all’estero, cercando a Berlino e a Parigi una fortuna fattasi inimica in Italia.
Il disastro si era consumato nei due o tre anni del primo dopoguerra. Ora c'era il deserto, la terra bruciata. Le masse avide del nuovo mezzo espressivo e i giovani che, confusamente, tendevano a diventare creatori, si trovavano soli: senza macchine da presa e senza danaro, senza interpreti e senza tradizione. Sorse allora il Giovanni Battista del nostro cinema, il rozzo ma acceso precursore, Alessandro Blasetti. Chi vede ora il regista Blasetti, ancor giovane e sempre calzato dei mitici stivaloni della sua giovinezza; chi vede in questi giorni il regista Blasetti, onusto della fiducia dei produttori della Universalia, accingersi all’enorme fatica di Fabìola, film che sembra voler rínverdire il tronco già arido che ci dette Cabiria e, ahimè, Scipione l'Africano, fa una certa fatica a immaginarsi che il multanime Blasetti è il precursore in titolo della << nuova scuola >›.
Eppure è la verità stessa.
Accompagnato dalla fede che crea i santi e dall'ostinazione che fa i capitani d”industria, Blasetti, circondato da alcuni giovani, si batteva negli anni mitici attorno al ‘28, che erano gli ultimi anni del cinema muto, per una cinematografia italiana. Condotto da un istinto di vita e da una volontà di creare che erano le ragioni stesse della sua presenza nel mondo, Blasetti invocava, su una rivistina dalle idee confuse e scritta piuttosto male, l'intervento dello Stato negli affari del cinematografo. Come un fiume troppo stretto dalle dighe, infine Blasetti proruppe; quasi miracolosamente, racimolando i soldi per un film che si chiamò Soleche si svolgeva in gran parte all”aperto, che era interpretato da attori ignoti, che fu visto da pochi e che tuttavia fu il suo passaporto per il cinematografo di produzione normale.
Come a dire che Blasetti si tagliò da solo una via nella giungla, a colpi di coltellaccio e di volontà, per imboccare la via reale, la via ben asfaltata e addirittura provvista di alberi da far ombra della produzione filmistica. Press'a poco nello stesso tempo, chissà come, un regista umbratile e schivo, che giuoca su pochi motivi ma che non è privo di grazia, Mario Camerini, se ne usciva con un film coloniale, che si chiamava Kif Tebbi e che, a quell’epoca, non era privo di meriti. 

continua...

lunedì 2 febbraio 2015

Grande come il cinema


In Italia il cinema poggiava su Ferrania