“ Se sapessi a che cosa serve questa pietruzza sarei il buon Dio, che
sa tutto, sa quando nasci, e sa quando muori. Questa pietruzza serve certamente
a qualcosa. Se è inutile è inutile tutto il resto, persino le stelle “. Federico Fellini, La Strada
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
mercoledì 17 settembre 2014
lunedì 15 settembre 2014
Adios, Corbari
OGGI
Ringo, Arizona o Corbari non è che un titolo per trovarci spettatori al
cospetto di Giuliano Gemma, per una volta eroe della resistenza al nazi-fascismo. Valentino Orsini riprende il tema della lotta partigiana in
chiave western all’italiana e non sbaglia, nelle intenzioni. Il felice esito
finale, a suo tempo prodotto da Giuliani G. De Negri e distribuito dal Cidif, è
deviato per colpa vuoi della sceneggiatura, vuoi, peggio, di Roberto
Parpignani che coi tagli western si trova con una moviola non sua, e ben
altrimenti più efficace con Bellocchio o Bertoluccci. Al suo posto gli
Alabiso, Eugenio o Daniele, avrebbero fatto di meglio, come ad affiancare
Valentino Orsini nella stesura della sceneggiatura ci voleva Luciano Vincenzoni
o Sergio Donati. Ne viene fuori così un film singhiozzante che mette voglia di
rifarlo se non fosse che Giuliano Gemma è passato ora nella parte degli angeli
che mangiano fagioli.
mercoledì 16 luglio 2014
lunedì 7 luglio 2014
mercoledì 2 luglio 2014
Dopo il Neorealismo
La cosa che oggi mi pare più sorprendente nella produzione italiana è
che essa sembra dover uscire dall’impasse
estetica in cui si poteva credere che la tenesse il “ neorealismo “. Passata l’esplosione degli anni ’46 e ’47, si
è potuto temere che questa utile e intelligente reazione contro l’estetica
italiana della grande messa in scena e, d’altra parte, più in generale, contro
l’estetismo tecnico di cui soffriva il cinema di tutto il mondo, non potesse
andare oltre l’interesse di una sorta di super-documentario, o di reportage
romanzati. Ci si è trovati a constatare
ch il successo di Roma città aperta, di Paisà, di Sciuscià era
inseparabile da una certa congiuntura storica, che esso partecipava del senso
stesso della Liberazione e che la loro tecnica era in qualche modo magnificata
dal valore rivoluzionario del soggetto. Come certi libri di Malraux o di
Hemingway trovano in una sorta di cristallizzazione dello stile giornalistico
la forma di un racconto più appropriato alla tragedia dell’attualità, così i
film di Rossellini o di De Sica dovevano solo ad un accordo accidentale della
forma e della materia il fatto di essere delle opere maggiori, dei “ capolavori
“. Ma una volta che la novità ma soprattutto il pimento di questa crudezza
tecnica hanno esaurito il loro effetto sorpresa, che resta del “ neorealismo “
italiano, quando deve per forza di cose tornare a soggetti tradizionali:
polizieschi, psicologici o anche di costume?
Passi ancora per la macchina da presa per le strade, ma la splendida
interpretazione non professionale non si condanna da sola a mano a mano che le
rivelazioni vanno ad ingrossare le file delle vedette internazionali? E per generalizzare
questo pessimismo estetico: il “ realismo “ non può avere in arte che una
posizione dialettica, è più una reazione che una verità- Resta da integrarlo in
seguito all’estetica che sarà, così, venuto a verificare. Gli italiano non
erano del resto gli ultimi a dir male del loro “ neorealismo “. Credo che non ci sia un regista italiano
compresi i più“ neorealisti “, che non assicuri energicamente che bisogna
uscirne.
Così il critico francese si sente preso da scrupoli – tanto più che il
famoso neorealismo ha dato ben presto segni di visibile stanchezza. Delle
commedie, per altro abbastanza divertenti, sono venute a smerciare con una
visibile facilità la formula di Quattro
passi fra le nuvole o di Vivere in
pace. Ma la cosa peggiore di tutte è statala comparsa di una sorta di
super-produzione “ neorealista “ in cui la ricerca della cornice vera,
dell’azione di costume, della pittura di un ambiente popolare, degli sfondi “
sociali “ diventava un luogo comune accademico. Cosi quest’anno, a Venezia, Patto
col diavolo di Luigi Chiarini, cupo melodramma di amore campagnolo, cercava
visibilmente di trovare in una storia di conflitto tra pastori e boscaioli un
alibi secondo il gusto del momento. Per quanto riuscito da altri punti di
vista, In nome della legge, che gli italiani hanno tentato di spingere avanti a
Knokke-le-Zoute, non sfugge affatto agli stessi rimproveri. Si noterà di
passaggio, con questi due esempi, che il neorealismo punta adesso sul problema
rurale, forse per prudenza verso i successi del neorealismo urbano. Alle “
città aperte “ succedono le campagne chiuse.
Cominciavamo già a volgerci verso l’Inghilterra, la cui rinascita
cinematografica è anch’essa in parte frutto del realismo: quello della scola
documentaristica che, prima e durante la guerra, aveva approfondito le risorse
offerte dalle realtà sociali e tecniche. E’ probabile che un film come Breve incontro sarebbe stato impossibile
senza il lavoro decennale di Grierson, Cavalcanti o Rotha. Ma gli inglesi,
invece di rompere con la tecnica e la storia del cinema europeo e americano,
hanno saputo integrare all’estetismo più raffinato le acquisizioni di un certo
realismo. Niente di più costruito, di più concentrato, di Breve incontro, niente di meno concepibile senza le risorse più
moderne del teatro di posa, senza attori abili e consumati; si può immaginare
tuttavia pittura più realistica dei costumi e della psicologia inglese?
Breve
incontro fece allora quasi altrettanta
impressione di Roma città aperta. Il tempo si è incaricato di mostrare quale
dei due avrebbe avuto un avvenire cinematografico vero. Peraltro il film di
Noel Coward e David Lean non doveva granché alla scuola documentaristica di
Grierson.
I miei dubbi sul cinema italiano non sono andati tanto in là …. Ma c’è Ladri di biciclette.
Infatti con Ladri di biciclette
De Sica ce l’ha fatta ad uscire dall’impasse,
giustificare di nuovo tutta l’estetica del neorealismo.
Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin,
op. cit.
lunedì 30 giugno 2014
Capri 17 maggio 1963 ore 17,00
OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu "
Nella primavera del 1963 Jean-Luc Godard sbarca a Capri per girarvi, set villa Malapartre, Le mepris. Non era solo, non lo poteva
mai essere, avendo scelta come
protagonista del film Brigitte Bardot. Neanche lei era sola, si portava dietro
un codazzo lungo quanto la distanza che c’è tra Capri e Napoli di paparazzi.
Esseri molto avventurosi e intraprendenti di fotografi il cui soprannome fu regalato
loro da Federico Fellini. I protagonisti
di questo documentario di Jacques Rozier sono loro e i teleobiettivi delle
macchine fotografiche a tracolla che
cercavano di rubare una posa inedita, quanto sconcia, alla bella Brigitte. Le
guardie cercavano invano di tenere a bada i caparbi rubapose, essi saltavano da tutte le parti,
dal mare o come capre dalle rocce capresi. Forse quello fu il momento più alto
vissuto da questa categoria di artisti finiti a rubare immagini anche ai più
insignificanti divi televisivi per copertine di giornali spazzatura che finiscono
sui tavolini delle sale d’attesa di medici e assicuratori. Nel documentario
Rozier monta con gusto nouvelle vague, alle musiche di Antoine Duhamel e alla
voce di Michel Piccoli, immagini di copertine di riviste con fotogrammi
frammentati della Bardot, ricreandone un mito ad libitum.
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Regia,Montaggio e Testo: Jacques Rozier . Voce: Michel Piccoli, Jean Lescot et
Davide Tonelli
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Assistente regia : Michel S. Cavillon, Hubert Watrinet -Musica : Antoine Duhamel
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Photographie : Maurice Perrimond
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Suono : Jean Baronnet - Mixage son : Louis Perrin
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