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domenica 8 settembre 2013

Verismo e tragedia in Aspromonte



   La retrospettiva sulla Calabria nel cinema prende avvio, è un dovere, con Patto col diavolo diretto nel 1949 da Luigi Chiarini e scritto da Corrado Alvaro; lo scrittore frequentò per qualche tempo, era il 1935, il Centro Sperimentale di Cinematografia al suo nascere e diretto dal Chiarini stesso. L’opera ebbe la sua prima alla Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno.
   La pellicola, qualunque sia il suo valore artistico,  irreperibile, perché i dirigenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, della Cineteca Nazionale ed i programmatori dei palinsesti RAI lo snobbano, portò male al regista come allo scrittore.  La critica lo stroncò ed i parlamentari calabresi quanto mai solleciti ne chiesero il sequestro per aver recato
 “ offese all’onore e alla dignità del popolo calabrese “.
   Lo scrittore tentò di ammalgamare il verismo verghiano con la tragedia greca, mentre Luigi Chiarini anticipò, quasi, le ricerche di Ernesto De Martino e Diego Carpitella. L ‘Aspromonte ed i paesi alle sue falde furono cinematografati per come erano allora: indietro nel tempo. Tutto questo lo si intuisce dai pochi documenti scritti e dalle foto di scena reperibili nel web.
   A questo punto mi sorge una proposta: dato che esiste un mezzo gratuito e divulgativo come You Tube, perché i capi del Centro Sperimentale e della Cineteca non editano periodicamente i film in loro possesso, anche per un breve periodo di tempo, come già fa l’Istituto Luce con i suoi documentari. A loro non costa niente digitalizzare le pellicole ed uploadarle nel tubo.

domenica 12 maggio 2013

Vittorio Storaro goes to Hollywood

Un film come Il conformista ha toccato profondamente Coppola, che ha sempre riconosciuto di essersene servito quasi come di un modello, di un oracolo addirittura, tanto che lo proiettava ai suoi collaboratori mentre girava Il Padrino. La prima volta che mi chiese di lavorare con lui fu per Il Padrino n. 2, ma rifiutai per una serie di motivi ma soprattutto per l’amicizia che mi lega a Gordon Willis, una delle pochissime persone che dopo aver visto Il Conformista mi mandò un telegramma di complimenti alla Technicolor e che ho sempre trovato straordinario, sicuramente una delle più grandi personalità figurative in America e forse nel mondo. Insomma mi sembrava più giusto che proseguissero insieme il discorso iniziato col primo Padrino. Rividi Coppola brevemente a Parigi una volta che venne a salutare Bernardo sul set di Ultimo Tango, poi a Roma; loro ultimavano Il Padrino n. 2, e noi giravamo nel teatro accanto Le orme, di Luigi Bazzoni. Dopo questi due brevi incontri parlai con Fed Ross, uno dei suoi co-produttori che venne a Roma per propormi Apocalypse Now. Rifiutai di nuovo per lo stesso motivo; intromettendomi tra Coppola e Willis avrei rotto uno di quei “ matrimoni “ artistici dagli eccellenti risultati che caratterizzano certi momenti della storia dello spettacolo. Fu Coppola ad illustrarmi personalmente il tipo particolare di visione di cui aveva bisogno per il suo film, che in effetti non conveniva alle caratteristiche del lavoro di Gordon Willis, tendenzialmente orientato verso un tipo di illuminazione da teatro di posa. Accettai solo dopo averne parlato con Willis stesso, sapendo che comunque lui non l’avrebbe fatto.
Ho avuto carta bianca per tutto ciò che era di mia competenza. Tutta la parte figurativo-fotografica di Apocalypse Now è prettamente italiana. Lavorando con i miei collaboratori mi trovavo nella posizione di responsabile assoluto della resa fotografica del film.

Vittorio Storaro
tratto dalla rivista Cinema e Cinema

giovedì 2 maggio 2013

Il dio Kurtz

Willard:  “ Sulle prime pensai che mi avessero dato la pratica sbagliata. Non potevo credere che volessero la                
                 morte di quest’uomo “.
                “ Kurtz aveva lasciato la barca, aveva tagliato i ponti con tutti i programmi del cazzo “.

Kurtz:      “ Mi aspettavo qualcuno come lei. Lei cosa si aspettava. Lei è un assassino “.
Willard:   “ Sono un soldato “.
Kurtz:       “ Né l’uno né l’altro. Lei è un garzone di bottega che è stato mandato dal droghiere a incassare i      
                  sospesi “.

  Forse Marlon Brando non si rese conto che in quelle cinque opere che sono il centro della sua vita d’artista il vero datore di lavoro è stata la Signora Morte; le va incontro in ogni caso: nelle Antille, nella New York del gangsterismo, nella Parigi dei primi anni settanta del secolo scorso, nel West degli allevatori di cavallo, nel Vietnam. Emissario dell’impero britannico, capo bastone della mafia, amante perduto,  cacciatore di ladri di cavalli, emissario dell’impero americano.
  Su Apocalypse Now non c’è niente di nuovo da dire visto che è una di quelle opere sezionate fin dal suo apparire. Era già accaduto al romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad che Milius e Coppola hanno sovrapposto all’infame guerra di John F. Kennedy e Lindon B. Johnson.
  Marlon Brando-Kurtz è la causa verso  cui tutti muovono, è la tappa finale della risalita lungo il ventre del serpente ( fiume o pellicola )di Willard. Willard voleva una missione e l’ha avuta: porre fine a Kurtz, il cancro nella cancrenosa lotta tra selvaggio e multinazionali produttrici di armi da guerra.
  Considerato dio/re/sacerdote dalla nazione da lui creata vive in mezzo a riti ancestrali e magie pagane fuori dal tempo, ma il tempo ha riacchiappato Kurtz che deve morire per far posto ad un altro re, sacrificato da quest’ultimo, novello sacerdote.
   Brando pensa e effigia la sua maschera,un cranio rasato che ricorda un altro dittatore a noi vicino; la figura statuaria orientale  con cui si presenta è quella del dio ( con la voce di Sergio Fantoni nella prima edizione del film ) che soppesa e giudica Martin Sheen, il garzone di droghiere giunto a riscuotere i sospesi.
  Questa volta, la volta finale, Brando è la presenza inscindibile da tutto il contesto: mente nei precedenti film muoveva il tutto, qui tutto è già stato mosso prima che parta la proiezione, resta solo il suo sacrificio.

lunedì 15 aprile 2013

How were Brando and Nicholson together?

Finally, I wanted to talk about The Missouri Breaks. That's one of my favourite westerns, it's very adult, poetic and surprising. Watching it again, it's astonishing how grown-up the dialogue-intercourse between Jack Nicholson and the woman is. Why do you think that that film has a reputation as being a failure in some ways?
Oh, I think that everybody was expecting, finally, a shoot-out on a western street between Brando and Nicholson, and that was never, never our intention. The odd scenes in that film just dismayed the critics on the first viewing. You know, Brando having a love scene with a horse and a mule; or Brando in the bathtub and Nicholson wanting to kill him, except that he looks like a big fat baby. Those were attempts at trying to disarm expectations. It's a rather savage film, actually, in certain aspects, but it's savage around ignominy. Brando shoots the people in relatively ignominious positions: a man going to the toilet in the outhouse is blown out of the outhouse; another man making love to a woman is shot; they're hounded by him and teased by him. He drops a live grasshopper into Randy Quaid's mouth, you know? It's all designed toward that wonderful close, I think, of Jack Nicholson saying, "You just had yer throat cut." And that was what I think we all fell in love with, that moment. So we knew we had to do a western that was convoluted in other ways away from that, away from the flat-out, face-to-face shoot-out. I have a lot of affection for that film. It had the boldness to be, to change expectations in a western with these two great stars. Well, everybody was disappointed. The studio said, "We said in the beginning it would never work unless they had a shoot-out." And that was it.
And it's the whole beauty of it.
I think it is the beauty of the film.
How had Brando changed since you last worked with him? Or had he?
He hadn't really. We had remained friends through that period. Although I'm not a Hollywood person. I've never lived out there. But we had seen each other from time to time when he came to New York, or when I went out there for a one- or two-day business trip, and we had remained friends through that period. And when we came to make the film, he was in pretty wonderful form. I'll give you a simple example. We were confronted with these things by lawyers, lawyers fighting for this, suddenly I was told, "You have Brando for 20 days and that's all." And I was rather shocked, so, as we were approaching the 20th day, I started to shoot a scene day-for-night, which I loathe, and Marlon came up and said, "Why are we shooting this day-for-night?" And I said, "On account of you, because I have to let you go tomorrow." And he said, "Aw, forget about it. Everybody, go home, we'll come back tonight, and the next night and the next night if we have to." And he was very available. He was living in a wonderfully big mobile home with his son, Christian, the poor young man who is now in jail.
How much of his quite staggering interpretation of that character was scripted?
None. None. We decided it together. Because, when we looked at the character as it was written in the script, he was nobody, he was just this dark eminence who struck like the apocalypse, you know. And I thought, this is going to be just dreadful on the screen. Then, of course, Marlon said, "Lissen, lemme play him as an Indian." And I said, "No. Marlon, no. Not as an Indian." So we sat there talking about it, and essentially we said: this guy's got to be different every time we see him. That's his personality, that he's ephemeral, that he's chameleon like and in permanent disguise. And that's where we went from, so, finally, he ends up dressed as Granny.
It is just amazing. It probably stands as the last time he seemed really super-committed to a role for the entire length of a movie. You mentioned the studio's dismay at the lack of a shoot-out; I think people were also expecting, not a physical shoot-out, but a series of scenes where these two acting giants went face-to-face. But that's another thing you almost go out of your way to avoid as long as you can.
No, we weren't really trying to avoid it; we just found it very difficult. To have them encounter each other, and not have one or the other kill each other right there and then. Because, by then, Nicholson knew that Brando was killing off his band, and Brando knew that Nicholson was the head of it. So we were trapped. So what we dealt with was, instead of the action, the obstacles to the action.
How were Brando and Nicholson together?
Oh, they were great. They live facing each other. Literally they have houses facing each other, so they're very close. And they were very close on the film. But Jack, as a good actor, withdrew from Marlon during the shooting, didn't exercise the friendship. He would go away whenever he had an opportunity, go into his trailer, just to stay away, to stay in hiding really, as a good actor should. You know, too much chatter between the two of them would have ruined what they had.
l'originale è qui:

mercoledì 10 aprile 2013

The ruler


 “ Per le prime veti pagine della sceneggiatura, io sono il personaggio di cui ognuno parla: sta per arrivare, è in arrivo. Io sono proprio quello che promette di arrivare. Povero Jack Nicholson: è lo che aspetta e io sono come un moscerino che gira attorno a una lampada. Volevo che il mio personaggio fosse diverso, un vero ritratto dell’indiano americano.
Ma Arthur Penn mi disse: o Dio Brando, non con quanto costa il film! E io: Arthur, allora lasciami almeno divertire un poco “.
Intervista con Lo Janos, in Time, 15-05-1976

  Pochi accenni sul film  e su Arthur Penn, e mi dispiace perché su questo gran western si dovrà pur tornare un’altra volta.
   Tutto sembra svolgersi all’insegna del doppio: da un lato la sceneggiatura di Thomas McGuane e dall’altro il prodotto finale del regista che non rispetta lo script; due divi che magari si fronteggiano eppure vivono di una vita propria indipendente; e ancora, due rappresentazioni della vita, quella della legge ( che non c’è) e quella dell’esterno alla legge; infine due lavori interdipendenti, l’allevatore di cavalli e i ladri di cavalli. Basta.
  Io sto con il ladro di cavalli, un bandito che ama l’orto e gli animali da cortile, a cui, finalmente, una donna dice: “ io ti ammiro ”.
  Un’ultima annotazione: in una sovversione che ammiriamo Penn ci presenta dei buoni che sono i cattivi e dei cattivi che sono i buoni. Solo in un western può accadere, ben prima l’aveva sperimentato, con grande sgomento, Sergio Corbucci ne Il grande Silenzio.
  Fine, per ora, quello che ci interessa è Marlon Brando. Questo è il secondo incontro con Arthur Penn dopo La caccia del 1965. Pontecorvo si era fatto cadere le braccia, Coppola e Bertolucci si sono lasciati condurre, Penn ha chiuso gli occhi ed ha esclamato : fai quello che vuoi, tanto al montaggio siamo soli io, Greenberg, Rotten ed il fido Dede Allen. Così è stato.
  L’Attore qui, ingrassato,assorbendo la fisionomia di un suo alter , Rod Steiger,  gigioneggia per un ruolo che appare secondario e che solo l’essere una star pone al primo posto nei titoli e nel battage pubblicitari; dove un comprimario – uno come Lee Marvin prima maniera - avrebbe avuto il “ e con “ alla fine dello scorrimento degli interpreti. Da Queimada ad Apocalypse Now mi pare che gli abbiano dato queste parti ingrate di “ruler” - tradotto come “ regolatore “ – che viene spedito o ingaggiato ad appianare un contesto instabile o anarcoide, come in questo caso. Da istrione usa tutte le maschere possibili, anche quelle della comprensione, ma poi si fa prendere la mano dal suo Creedmore. E’ in pace solo con la natura: la terra riceverà il suo sangue dopo quello che ha fatto versare a quei figli dei fiori che vogliono giocare ai ladri di cavalli, ad assaltare treni come Jesse James.
  Segnalo solo una sequenza in particolare, dove il nostro abbigliato come la moglie di un quacchero, con tanto di cuffia, dopo aver riempito di chiacchiere il malcapitato Harry Dean Stanton, lo inchioda ad  un albero con quell’ arnese che sembra una croce di Malta, quella del proiettore Cinemeccanica, che talvolta bloccandosi produce una specie di fermo immagine che brucia la pellicola.

  “ Brando rappresenta piuttosto la follia di un sistema che ci dice che possiamo uccidere senza essere colpevoli. E’ uno strumento del potere, che il potere usa per salvare se stesso e che prenderà il sopravvento. E’ uso costante della storia americana: quando avete una politica che si basa sulla degenerazione, chiamate un pazzo. Non è importante che si possa provare che sono stati proprio loro. Al potere importa che, d’accordo o no, questi pazzi ci siano “.
Arthur Penn in La Republica, 01-08-1976

giovedì 4 aprile 2013

Is Nothing Sacred? Papà ha paura di Marlon Brando

Una schietta conversazione con il primo attore
di Bruce Cook


  Voi non ci crederete: Sono a Billins, Montana, e in questa cittadina della prateria il solo argomento di conversazione è Marlon Brando. Scendo al “ Ramada Inn”  e, mentre firmo la scheda, la ragazza che sta al banco si sporge e mi dice, in tono confidenziale: “ Lo sa che c’è qui Marlon Brando? “
  Qui? Al “ Ramada Inn ? “
  “ Be’ … no”. Sembra offesa e si mette sulla difensiva: “ Ma è qui a Billings: Sta girando un film appena fuori città “ .
  “ Lo so: E? per questo che sono qui”.
  Capisco di essere cresciuto di almeno un metro nella sua stima. Non c’è bisogno di farle sapere che io non c’entro con il film; sono venuto solo per scrivere un articolo. L’uomo del mistero.
  Il fattorino avrà diciannove o venti anni ed è un ragazzo simpatico. Gli metto in mano un dollaro e, mentre compie il consueto rituale controllo degli interruttori e degli asciugamani, gli capita di dire , oh, con estrema noncuranza: 2 Saprà, immagino, che qui stanno girando un film “.
  “ Davvero? “ Faccio finta di niente . “ E chi ci recita ? “
  “ Marlon Brando! Favoloso, no? Proprio qui a Billings. L’ho visto l’altra sera “.
  “ Con i tuoi occhi? “
  “ Be?, almeno mi hanno detto che era lui su una roulotte in Rimrock Road. Non è che sia riuscito avederlo bene “.
  Quarantacinque minuti dopo, in sala da pranzo siede al tavolo accanto una famiglia che pare uscita da un film con Doris Day degli anni Cinquanta. La graziosa biondina – dovrebbe interpretare la parte di Sandra Dee – si sporge per dire alla sorella maggiore, Doris: “ Be’, sinceramente, non vedo che cosa ci sai di male. Perché non potremmo fare una corsa fin lì in macchina e chiedergli se possiamo restare a guardare un po’? Alla peggio ci dicono di no “.
  “ Ma potremmo vedere lui “.
  “ Un momento “, dice il padre. “ Chi è questo lui?”
  “ Ma, papà, lo sai benissimo. Marlon Brando “.
  “ Ah “. Dalla ruga che gli compare sulla fronte capisci subito che sta pensando all’ Ultimo tango a Parigi. Anche se non l’ha visto, ha sentito parlare di quel panetto di burro. “ Non pensateci neanche. Abbiamo cose più importanti da fare che girare per la campagna a cercare … lui”.

Tratto da:
Thomas McGuane,  MISSOURI, ed Oscar Mondadori, 1976
Trad.  Ettore Capriolo



venerdì 22 marzo 2013

Le dernier tango


Sixième long-métrage de Bernardo Bertolucci, Le Dernier Tango à Paris marque le cinéma des années 1970 à plus d’un titre. D’abord par le parfum de scandale qui l’accompagne, véhiculé non seulement par les scènes érotiques (jugées pornographiques par l’Italie, qui finit par l’interdire), mais aussi par la philosophie profondément nihiliste. Mais c’est surtout son esthétisme qui fascine encore aujourd’hui : l’éclairage, la photographie et le montage créent une atmosphère spécifique qui imprimera le style Bertolucci.


Paul (Marlon Brando), Américain d’âge mur vivant à Paris, est dévasté par le suicide de sa femme Rosa, qu’il n’a visiblement jamais su comprendre. Dans un grand appartement vide à louer, il rencontre Jeanne (Maria Schneider), jeune Parisienne, solaire et curieuse. Dans un contrat tacite où aucun des deux ne devra rien chercher à savoir de l’autre, ils réapprennent la simple danse des corps, l’étreinte originelle, la fusion sexuelle. Une expérimentation de l’acte amoureux qui s’avèrera jeu dangereux et désespérant.
Le Dernier Tango à Paris est profondément un film de tango. Pas un film sur le tango, bien sûr, mais Bertolucci s’approprie totalement le rythme et l’essence de cette musique comme fil rouge de son récit. D’abord, comme symbole du héros : danse rebelle, provocatrice et explicitement érotique, voire obscène, née dans les quartiers populaires argentins du 19ème siècle, elle est vite associée aux lupanars et aux bordels. Elle symbolise tout ce que le corps peut dire de colère et de révolte quand le discours ne sert à rien, n’est pas entendu. Précisément, des mots, la parole même, Paul n’en a plus, ne veut plus en avoir. Il ne veut plus avoir à faire qu’avec ce qui est encore vivant en lui : son corps.
Ensuite, comme rythme, qui imprègne tout le film, tantôt vif et agressif, tantôt langoureux, profondément sensuel et érotique. Un rythme adopté par la caméra de Bertolucci, qui traque un homme comme mort : on plonge sur lui, on en fait le tour avec des mouvements souvent vifs et agressifs. La musique de Gato Barbieri est totalement en accord avec ce rythme, et l’accompagne pour mieux suivre les mouvements, parfois imprévisibles et violents comme le tango, de Paul. Le fait que Barbieri ait jusqu’ici beaucoup travaillé sur des thrillers n’est sans doute pas étranger à un certain suspens qu’il insuffle à sa musique et, du coup, au récit.
Enfin, comme érotisme, qui se déploie ici comme une valse macabre, une énergie du désespoir. Quelques minutes après leur rencontre dans l’appartement, Paul s’empare de Jeanne, ils font l’amour comme on se noie. C’est le début de leur contrat dans lequel aucun ne devra chercher à connaître le nom, l’histoire, de l’autre.
La manière dont Bertolucci les met en scène montre un couple impossible, infaisable. Jamais côte à côte ni véritablement reposés l’un sur l’autre, Marlon Brandon et Maria Schneider ne sont jamais filmés dans le même axe : un décalage subsiste perpétuellement entre eux par la position même de la caméra (qui ne montre pas un couple, mais deux antagonistes), accentué par la défragmentation des personnages, filmés dans un miroir, une vitre brisée, ou dont le mouvement est coupé par une porte, un mur. On avait déjà eu d’ailleurs un aperçu de cette violence et de cette distorsion des êtres dès le générique, avec les portraits rouges aux visages déformés de Francis Bacon, dont Bertolucci reprend les couleurs et la division horizontale des images. Fragmentation des êtres accentuée par un montage souvent déroutant, qui abolit l’ancrage spatio-temporel, marque lui aussi cette rupture avec les repères sociétaux classiques et la relation de tension entre Brandon et Schneider.
Au-delà de l’érotisme et de la violence, Le Dernier Tango à Paris propose une réflexion sur l’acte amoureux et sur le couple, loin des diktats culturels (le mariage, les bonnes mœurs...) qui finissent tout de même par l’influencer. A travers les corps à corps, le film présente une oscillation continuelle entre fantasmes de domination (la célèbre scène de sodomie avec le beurre...), et fantasme de renaissance d’un nouveau moi, sans identification sociale : une autre célèbre scène est ainsi le pendant à celles qui restent dans la brutalité, celle où Paul et Jeanne sont assis sur le grand lit, nus, face à face, baignés d’une chaude lumière jaune et douce, et qu’il ne se parlent que par grognements animaux. L’espace vide de l’appartement devient le réceptacle de ces fantasmes et de cette quête, d’où le monde extérieur est absent, et les règles de la civilisation comme abolies.
Monde extérieur et société qui ne sont d’ailleurs pas totalement absents du film : ils sont les révélateurs de la recherche impossible du couple Paul/ Jeanne. A côté d’eux, un personnage notamment est particulièrement intéressant : celui de Tom, campé par un tout jeune Jean-Pierre Léaud. Apprenti cinéaste ambitieux et optimiste, fiancé de Jeanne, il représente à la fois le pendant de Paul, et le symbole d’un type de réalisateur, d’un type de cinéma. Ce personnage introduit une autre volonté du cinéaste. Dans Le Dernier Tango à Paris, il ne s’agit nullement d’une obscénité sans fin, moins encore d’une provocation gratuite. Il s’agit aussi d’interroger l’enfance et le passé des personnages, leur identité. Bertolucci enchevêtre ainsi trois fragments narratifs : Paul qui pleure sa femme et cherche l’explication de son suicide dans un hôtel filmé comme un labyrinthe, Jeanne dont le petit ami filme la vie pour un « Portrait d’une jeune fille » commandé par la télévision, mais qui ne parvient qu’à fixer des clichés sur la pellicule. Enfin, l’histoire de Paul et de Jeanne elle-même, comme mythe de la recherche d’un éden, d’une redécouverte de soi, débarrassé des oripeaux de la société.
Sarah Elkaïm

l'originale è qui:

mercoledì 20 marzo 2013

Luce azzurra, luce arancione

Finito Il Conformista c’è stato un attimo di crisi mi chiedevo: cosa può esserci dopo l’azzurro? Non avevo la più pallida idea che potesse nascere un film arancio, non potevo davvero immaginarlo. C’è voluta un’altra emozione, un altro tipo di coinvolgimento in an’altra storia che sviluppasse un altro colore nella mia vita o nella nostra. E’ stato il caso, per l’appunto, di Ultimo tango.
Bertolucci è un cineasta con una personalità particolare. Il modo di girare un film e per Bernardo un fatto viscerale, un bisogno fisico oltre che intellettuale, di girare le sequenze con quella particolare angolazione. Con un regista come lui subentra indirettamente, almeno per ciò che mi riguarda, una forma di sincronia. Io cerco di esprimermi attraverso la  luce, Bernardo mediante la cinepresa; così non c’è mai conflitto, ma sintonia.
Vittorio Storaro
L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935 – 1959 a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli

martedì 19 marzo 2013

Marlon Brando non farà più nulla di simile

“ A suo tempo definivo il film un  Jean Rouch hollywoodiano , una cinema-verità con i mezzi e con gli attori“. Bernardo Bertoluccci

Di questo film di Bernardo Bertolucci ho già parlato in un precedente post. Oggi ripeterò sicuramente qualcosa già scritta in quell’occasione, quando ho mutilato Ultimo tango delle scene che contenevano la storia tra Tom e Jeanne, un omaggio alla Nouvelle Vauge godardiana e all’Antoine Doinel truffautiano.
Oggi l’opera di Bertolucci serve per parlare di Marlon Brando e del ruolo avuto per portarlo a termine. L’ho rivisto da poco dopo quell’unica volta al cinema Trinacrica, il primo giorno, era un venerdì, al primo spettacolo, le sedici, affollatissimo per timore del sequestro;  cosa che avvenne puntualmente, e le cui peripezie censorie sono un altro film: al sequestro seguì la condanna e quindi il rogo, come Giordano Bruno.
Oggi fa ridere tutta la vicenda, quando giusto ieri la televisione di stato ha innalzato sull’altare Schicchi, padre esemplare e menager della pornografia. A quei tempi non erano le immagini che interessavano i censori, erano le  idee.
Non avevo compiuto diciotto anni e riuscii ad entrare, passando sotto il naso delle maschere, per la ressa che spingeva verso l’interno della sala, ora ahimè  scomparsa.
Marlon Brando era ancora nelle vesti di don Vito Corleone quando accettò la parte. A lui si presentarono il regista ed il produttore che era Alberto Grimaldi, anzi la leggenda vuole che Brando abbia accettato il ruolo perché si sentiva in difetto con il produttore italiano per la tempesta sollevata durante la lavorazione di Queimada.
All’americano si arrivò dopo i dinieghi e le paure di alcuni attori europei : Jean Luis Trintignant e Dominique Sanda, Jean Paul Belmondo e Alain Delon. Dinieghi che alla fine favorirono la piega che prese il film per mezzo di Brando, aldilà della sceneggiatura che portava la firma oltre che di Bertolucci, di Franco Kim Arcalli, autore pure del montaggio con Roberto Perpignani.
Ho seguito Bernardo Bertolucci fino a Il tè nel deserto e devo dire che Ultimo tango a Parigi assieme a quello citato prima ed a La Luna, che comunque al suo interno celava un lirismo di derivazione verdiana, sono le sole opere che mi sommergono di dubbi. E’il buio assoluto, le tele di Bacon sullo sfondo dei titoli di testa lo chiariscono tutto;  nero come la lava che l’Etna sta eruttando in questi giorni, affidandola allo scirocco che pensa a sospingerla sullo Stretto coprendone tetti, terrazze e broccoli. Le note del tango di Gato Barbieri che Brando e la Schneider ballano ebbri, sul finire, irretendo quanti stanno attorno, sono un preludio funebre che neppure certi passaggi felici possono in qualche modo schiarire la tela dello schermo che riflette l’azione del film. A volte alcuni grandi autori cinematografici scambiarono lo schermo cinematografico per il lettino dello psicanalista circuendo lo spettatore.
E nessuno, ripeto nessuno più di Marlon Brando poteva portarne il peso . Ultimo tango è Marlon Brando e viceversa. La lezione dell’Actor Studio è portata all’estremo per il cruento realismo della recitazione che recò qualche disturbo alla protagonista femminile, allora debuttante.  Addirittura si parlò di violenza sulla malcapitata Maria durante la messa in scena da parte dell’indistruttibile attore. Molto probabilmente Bertolucci ritenne opportuno lasciare la massima libertà d’azione a Brando, al contrario di Gillo Pontecorvo, ed in questo non gli si può dare torto.
La sequenza o scena che ancora oggi mi sconcerta e che per me vale tutto il film, è quella quando Marlon Brando si trova affianco Massimo Girotti che porta la sua identica veste da camera, data in regalo ad entrambi dalla stessa donna amata. E’ un momento autobiografico per il più grande attore hollywoodiano, l’attore di Kazan, ancora all’apice della sua carriera come, e qui qualcuno storcerà il naso, per il più grande attore italiano, quello di Blasetti, Visconti, Antonioni e Pietro Germi, per citarne alcuni. I due, confidenzialmente ed amichevolmente si fanno i complimenti per la bellezza e la prestanza fisica avuta in gioventù.
Bertolucci riferì, al momento del lancio del film, che Brando gli disse: “ Non farò più nulla di simile. E’ l’ultima volta che do fondo in questo modo alle mie energie.”

venerdì 8 marzo 2013

Your bags, senor?


Why would Queimada be Marlon Brando's favorite film? Especially when he hated Pontecorvo's obsessive direction of (up to) 49 takes per scene, and in fact deserted the shoot in Cartagena, Colombia, before the film was finished? Problems with bandits, heat and horrible conditions, a stoned-out crew... miscommunication.... (Pontecorvo spoke no English & packed a pistol) made the experience less than ideal for him. But "you have to separate people from their talent," said Brando in his acerbic recollection of Pontecorvo in Lawrence Grobel's Conversations with Brando (1991).
According to Peter Manso in his Brando biography, this wasn't a good period in the actor's life. He was in a middle-age skid, drinking heavily, doing acid, and binge-eating while holed-up in his Mulholland Drive house, and when the Pontecorvo film came along he welcomed the project as a chance to re-legitimize his career.
Action films like Morituri (1966) and The Night Of The Following Day (1967) were hack jobs done for money -- Queimada was something else, a serious script that fitted well with his social activism on behalf of the American Indian and the black civil rights movement. While he played his fake Nazi agent provocateur in Morituri to perfection, his portrayal of Sir William Walker seems less effective, although it allowed him to be both a thug and an intellectual, exploit the strengths of his acting style. He has the look, no question -- the stocky English bulldog, arrogant, cynical and dangerous, yet behind it all, a humanist. No clowning, just serious work.
"Now listen to me you black ape," says Walker, "I didn't start this. I arrived here and you were already butchering one another." Jose, who has refused to speak to Walker, just spits in his face. At this point he gives up trying to save Jose, goes to the site of the gallows where he finds a worker trying to make a noose. Walker takes the rope, deftly applies the hangman's knot, says, "You see, Paco, this is how they do it." Indeed. Walker mounts his horse; he doesn't wait around for Jose's execution, as he must hurry to his own.
© Lawrence Russell / March 2010

L’originale è qui:
http://www.culturecourt.com/F/euro/Queimada.htm

mercoledì 20 febbraio 2013

don Vito Andolini alias Corleone

La leggenda vuole che quando Franceschino (Francis Ford) Coppola ebbe in mano definitivamente, dopo varie offerte a diversi registi che andavano per la maggiore in quel momento, tra cui il sommo Sergio Leone Tolstoi, il compito di dirigere Il Padrino (The Godfather), si chiuse in clausura con l’autore del romanzo, tale Mario Puzo, per redigere la sceneggiatura del film.
Un giorno di quelli, si presentò davanti a lui, che era un giovanottone ben nutrito, con una faccia che alcuni confondevano con quella di Jerry (Grateful Dead) Garcia, folti capelli neri, barba nera da cui spuntava solo l naso sormontato dagli occhiali, si presentò dicevamo, infrangendo l’isolamento,  Marlon Brando già truccato da don Vito Corleone.
Coppola, folgorato da quella visione inaspettata, dovette faticare non poco per imporre ai tycoons della Paramount l’attore, che a quei tempi, dopo Queimada, si era fatta la reputazione d’uomo irascibile. Alla fine, e per la maggior gloria del film, il regista la spuntò e Marlon Brando ebbe il ruolo compresa la silhouette nei titolo e sui manifesti.
Qui non è il caso di ripetere quanto è già stato scritto sul film che ormai ha superato i quarant’anni suonati. A noi interessa il lavoro di Marlon Brando e la sua presenza  nel film. Egli si muove da vecchio saggio, padre di famiglia con autorità ponderata. A ben guardare la recitazione di tutti gli altri interpreti, quando lui è in scena, sembra essere direttamente portata avanti da lui: Al Pacino, James Caan, John Cazale, Robert Duvall  e gli altri stanno sotto la ala protettrice e questo succederà anche nel sequel, Il Padrino parte II, dove Robert De Niro, don Vito da giovane, reciterà il ruolo non del personaggio bensì dell’attore Marlon Brando.
Giunto nelle sale il film esplose portando soldi nelle tasche dei produttori, fortuna a Coppola come ad Al Pacino. Marlon Brando rinnovò la sua notorietà vincendo la seconda statuetta per la migliore interpretazione maschile ed a ritirarla, senza farsi smentire, mandò Sacheen Littlefeather  , che lesse un proclama sui diritti civili dei nativi americani.
A questo punto mi preme dire soltanto una cosa: i due ” Padrino”, sono opere che come poche altre, riescono a marcare un distacco tra lo spettatore e le vite turbolente di uomini spietati, al contrario di quanto avviene oggi ed in specie nel tubo catodico, da  cui lo spettatore è portato a convincersi di poter condurre anch’egli  la vita degli  intrallazzatori di ogni specie o di donne di dubbia virtù.

domenica 3 febbraio 2013

Great political movies

Great political movies (No17) Queimada (Burn!) Posted on February 7, 2011 by matthewashton

 Everyone seems to have seen The Battle of Algiers, which I reviewed last week. However for some reason it’s follow-up, Queimada, better known by its title in the US, ‘Burn!’, is now undeservedly forgotten. The director Gillo Pontecorvo revisits many of the themes of his earlier work, such as colonialism and revolution but this time has a significantly bigger budget to play around with. As result the film is made in colour and features Hollywood’s most mercurial talent, Marlon Brando, as it’s star. Queimada is a historical epic that tells the story of a decade in the life of a small Portuguese colony in the 19th century. Sir William Walker, played by Brando, is an English agent sent to the colony to help stir up revolution for the benefit of the British Empire. He arrives to discover that the man who was going to be the leader of the rebel army has just been executed by the authorities, and so sets about manufacturing himself a new one. He quickly tricks porter Jose Delores, played by newcomer Evaristo Marquez, into first robbing a bank, then killing a Portuguese guard and then taking up arms against the government. At the same time he is also fermenting revolution amongst the white settlers by making them promises of the benefits free trade will bring. The revolution is a success, but parties on all sides quickly discover that once taken power is a difficult thing to wield. Of course this isn’t Sir Walker’s problem as he is seen departing the island for similar work in Indo-China (a nod to the ongoing Vietnam War). The film then flashes forward ten years as he returns to the island to help put down the native rebellion that he created in the first place. This is one of the best ever films to explore the issues of racism and colonialism from a Marxist perspective. For instance, in the scene below Walker explains to the colonists the benefits of freeing their slaves, not because it is the right things to do, but because of the economic benefits of having a more flexible workforce, (warning: some nudity and a lot of sexism): Later in order to destroy the rebel army, Walker orders all of the crop fields to be burnt down. A representative of the sugar trading company is appalled because it will damage their profits. Walker coolly tells him that it will only impact their profits for a few years and that they have hundreds left to exploit the island. He also points out that the company has dozens of possessions like this one where the workers might be encouraged to rebel, which is why the revolution must be put down with such force. Rarely has the relationship between big business and colonial empire been given such a thorough economic critique on film. While Brando is clearly the villain of the piece, it’s a fantastic piece of acting on his part. He plays Walker as being cheerfully amoral, a man who knows the value and price of everything but is largely unconcerned by the consequences of his actions. At one stage he even admits that he is not well paid for his services but does it because he enjoys it. Apparently the film shoot was a nightmare for all concerned and they were beset by technical and language difficulties. There should probably be a rule for filmmakers that if you want to film an epic, don’t film it in the jungle with Marlon Brando. As Francis Ford Coppola discovered a decade later with Apocalypse Now, it rarely ends well. The lessons of Queimada are still relevant today. For instance, the idea of a colonial power creating a rebel movement for its own ends, but then loosing control of it, has parallels with the USA’s role in supporting the Taliban in the 1980s. It also asks the question of what happens when a revolution leaves you less free than before? Finally if that doesn’t convince you then the film also boosts one of Ennio Morricone’s best scores, as used here over the opening credits:

L'originale è qui:
http://drmatthewashton.com/2011/02/07/great-political-movies-no17-queimada-burn/

mercoledì 23 gennaio 2013

Rebels with a cause

La rassegna che oggi andiamo ad incominciare prende l’avvio con Queimada, il film più controverso (davvero, è così!) dei cinque che circoscrivono, come già detto, il periodo più felice e denso di prospettive del ‘Attore rebel with a cause. Non è un caso che questo cerchio parta, lancia in resta, parlando di colonialismo inglese nell’epoca dei lumi e finisca col colonialismo statunitense nell’epoca delle sbandierate e false democrazie.
Ad eccezione di Lui, gli autori di questa pellicola sono tutti italiani che si imposero proprio all’attenzione pubblica al principio degli anni sessanta e li cito a gloria del loro lavoro: Alberto Grimaldi, il produttore; Franco Solinas e Giorgio Arlorio, soggettisti e sceneggiatori; Giuseppe Ruzzolini e Marcello Gatti, alle luci; Mario Morra al montaggio; Iginio Lardani ai titoli; Ennio Morricone alla partitura musicale, il quale non si ferma ad abbozzare quattro note, come John Williams o Hans Zimmer, lasciando orchestrazioni ed arrangiamenti ad altri. Il maestro compose ed orchestrò, colorando e contaminando i suoni tra loro con pennellate di ritmi selvaggi o con cadenze dell’epoca di Handel. Ed in fine Gillo Pontecorvo che lo diresse, come accadde con La battaglia di Algeri, con un formato da cinegiornale per renderlo più verosimile.
C’è un però, il regista de La battaglia di Algeri si dimostrò debole, pensando di domare con la volontà
l’ Attore fornito di una dottrina di stampo sovietico, che gli condoniamo, rivista alla luce dei fatti d’Ungheria del 1956. Pensò, come dicevo di catturare ed imbrigliare un ribelle per natura.
Marlon Brando è da aggiungere alla lista dei nomi citati sopra, come autore del film. Queimada pende dalla fisionomia dell’Attore, come la sua riuscita finale. Egli si avviava verso il cammin di mezza vita e veniva da esperienze fallimentari di natura artistica e sentimentale ma era dotato di una solida base ideologica. Bisogna ricordare che è stato l’unico a mettere dietro la porta Stanley Kubrick ai tempi de I due volti della vendetta (One- Eyed Jack) nel 1961.
Queimada fu prodotto in un periodo di fermenti di rivolta giovanile poi finita come José Dolores (Evaristo Marquez). Walker (Marlon Brando) dapprima lo mette a capo della rivolta, successivamente del governo, ponendolo in fine  dentro il cappio della forca.
L’Attore solca il film come un aratro il campo da seminare, passando dalla riflessione psicologica agli scoppi d’ira, da leone qual’era. E ancora, brutale e cinico dietro le sue colorate fusciacche, tuttavia simpatizzante con José Dolores e diffidente verso i bianchi colonizzatori.
La sua statura di interprete soggioga gli altri interpreti e lo stesso buon Gillo ed alla fine il film è Lui.
Per inciso c’è da dire che il film di Gillo Pontecorvo è ancora oggi più apprezzato ed analizzato nel mondo anglosassone e dove il colonialismo miete ancora vittime, che in Italia dove la critica bianca, rossa o nera continua a snobbarlo.

lunedì 21 gennaio 2013

L'A T T O R E

La nuova retrospettiva che si va ad iniziare riguarda l’A T T O R E che più di tutti ha “sfondato” lo schermo cinematografico e lo star system hollywoodiano: Marlon Brando.
Riguarda il periodo cruciale, per me, della sua carriera e va dal 1968 al 1979: cinque film in tutto, legati sottilmente dalla sua presenza invasiva ma, se ci pensate bene, diversamente realizzati e concepiti senza il suo contributo personale e definitivo.
In breve, la carriera di Marlon Brando la suddivido in quattro periodi: l’exploit iniziale, un intermedio ed apparente declino, gli anni che prendiamo in visione,  e … il viaggio al termine dell’ATTORE.
Il periodo che intendo ripensare, lo ha condiviso in maniera diversa con i registi che lo avrebbero dovuto contenere: bruscamente , Queimada e Gillo Pontecorvo; amichevolmente, i due (ma sono tre) con Francis Ford Coppola; al servizio con Arthur Penn; solidale con Bernardo Bertolucci.

mercoledì 16 gennaio 2013

mercoledì 2 gennaio 2013

'55 Chevy vs Pontiac G.T.O.

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE

La retrospettiva dedicata a Robert Bresson termina al Cineforum con l'opera maggiore di un autore americano che riprende lo stile del maestro francese, provare per credere.
La cinepresa attrezzata di lente anamorfica indugia sulla strada e sui personaggi carpendovi gli stati d'animo ed il paesaggio in una storia tipicamente on the road, colorata dalle canzoni westcostiane dell'epoca.
James (Caroline on my mind) Taylor e Warren Oates non escono mai da quell'apparente recitazione che caratterizza il cinema bressoniano.
Mi viene un ulteriore suggerimento:in questo film Monte Hellman coniuga Robert Bresson con l'ausilio di Sam Peckimpah.



lunedì 10 dicembre 2012

L'inverno di Robert Bresson




Dio ha visto tutto ma non ha detto una parola.
Mouchette non ha progetti, non ha una “vocazione” come Michel in Pickpocket o Giovanna d’Arco nel Processo. Essa non è più che un destino. In questo film, dove si vede il più libero, moralmente, il più forte dei suoi eroi, Bresson ha voluto far sentire una mano superiore che dirige gli avvenimenti. Jean Semulé

Il “cattolico” Bresson, mentre si ispira a Bernanos, continua a descriverci un mondo senza Grazia.: l’impossibilità di rapporto della protagonista (“sola contro tutti” diceva l’autore del romanzo) è totale, i suoi occhi si posano su un universo gretto e insensato, la sua adolescenza avverte ed esaurisce in poche stagioni (che si compendiano e precipitano negli avvenimenti di una sola giornata) tutta la mortificazione e il dolore di esistere. Bresson si allontana ancora dal “giansenismo” risentito, a suo modo attivo, del Condannato e dello stesso Processo a Giovanna, verso una sorta di cristianesimo ateo, senza riscatto, in cui l’unico gesto libero che l’uomo sembra compiere è quello di morire. Una morte che non è più l’estrema conseguenza dell’ ”utopia” dei protagonisti, di fronte al “realismo” degli altri e dell’istituzione sociale repressiva, ma un triste congedo senza pretesa di “esemplarità”. Ma non senza la certezza cresciuta nel sangue e nel pensiero, di doversi separare da quella faticosa e mortificata contraffazione della vita che è l’esistenza degli altri e, in quel contesto, la propria. Questa determinazione eroica di annullamento che accentua, fuori di ogni pietismo consolatorio di specie cristiana e/o populistica, la grande Giovanna e l’oscura Mouchette, è qualcosa di diverso, di più umile, ma anche di più “radicale” e voluto sino in fondo dal nero abisso che “accoglie solo i predestinati” (Bernanos)  Adelio Ferrero
Avevo parlato di primavera a proposito delle Quattro notti di un sognatore, con Mouchette ci siamo addentrati nell’inverno più freddo.  Mouchette è il pianto della terra orribilmente devastata e violentata.
Irreversibilmente.

Alla sua età, morire o diventare una signora sono due avventure chimeriche.

lunedì 19 novembre 2012

Un fuoco che brucia sulla spalla di Gesù Cristo

La struttura e la scansione del diario, conservate amorevolmente dal regista, accentuano, esasperandola, la condizione di isolamento: le pagine del quaderno sulle quali il curato annota i poveri fatti e i grandi dubbi e trasalimenti delle sue giornate, riempiono lo schermo fin dall’inizio e vi torneranno più di una volta, a racchiudere e scandire il luogo di una riflessione  solitaria e implacata. Le parole, tracciate sui fogli con una grafia incerta e smozzicata, vengono restituite contemporaneamente dalla voce  uniforme e sommessa del protagonista, spegnendone l’inflessione drammatica, presente nella pagina del romanziere, nella neutralità di quel parlare “recto tono” su cui si ferma André Bazin, per il quale il Diario poteva essere definito “un film muto con sottotitoli parlati”. Adelio Ferrero

Che mi si rimprovera? D’essere quel che siete … la gente non odia la vostra semplicità, se ne difende. E’ una specie di fuoco che brucia.

La vera miseria non ha per risultato né il male né il bene, la vera miseria non ha via d’uscita. La vera miseria dei miserabili non ha uscita che in Dio, ma non vuole una liberazione. Essa si chiude in se stessa. E’ murata come l’inferno. Io credo che una tale miseria, che dimenticato finanche il suo nome, che non cerca più, che non ragiona più, che volge l caso la sua fronte torva, deve risvegliarsi un giorno sulla spalla di Gesù Cristo.


Journal d'un curé de campagne di xavier_sirven
Le Journal d'un curé de campagne - la moto di Patamars