giovedì 13 novembre 2014

"Europa 51" un capolavoro maledetto




Cominciata con un capolavoro incompreso ( Umberto D ) l’annata termina con un altro capolavoro maledetto, Europa 51 di Roberto Rossellini. Come si era rimproverato a De Sica di aver fatto un melodramma sociale, così si è accusato Rossellini di cadere nell’ideologia politica confusa e stavolta piuttosto reazionaria. Significava ancora una volta ingannarsi sull’essenziale giudicare il soggetto astraendo dallo stile che gli conferisce il suo senso e la sua dignità estetica. Una giovane donna ricca, e frivola, perde l’unico figlio che ha tentato di suicidarsi una sera che sua madre, troppo preoccupata dalla mondanità, l’ha mandato a letto con disattenzione. Lo choc morale è così violento da sprofondare la giovane donna in una crisi di coscienza di cui cerca dapprima la soluzione nell’azione sociale seguendo i consigli di un cugino intellettuale comunista. Ma a poco a poco essa ha la sensazione che non si tratti ancora che di un piano intermedio che deve superare verso una mistica tutta personale della carità al di là delle categorie della politica e perfino della morale sociale e religiosa. Così è portata a curare fino alla morte una prostituta, poi ad aiutare a fuggire un giovane criminale. Quest’ultima iniziativa fa scandalo e lo stesso marito, che la capisce sempre ,meno, preferisce vederla rinchiusa in una “ casa di cura “ con la complicità di tutta la famiglia spaventata della sua demenza. Si fosse iscritta la partito comunista o fosse entrata in convento, la società borghese avrebbe avuto meno da ridire: Europa 51 è il mondo dei partiti e dei reclutamenti sociale sotto tutte le forme. Da questa’angolazione, è vero che la sceneggiatura di Rossellini non è priva di ingenuità, nonché di incoerenze, e comunque di pretese. E’ facile immaginare in particolare in quel che l’autore ha preso dalla biografia di Simone Weil senza ritrovarne peraltro la solidità di pensiero. Ma queste riserve non tengono davanti alla totalità del film che bisogna comprendere e giudicare sulla base della sua messa in scena. Che varrebbe, ridotto al suo assunto logico, L’idiota di Dostoevskij? Poiché Rossellini è un vero regista, la forma del film non è in lui l’ornamento della sceneggiatura, ne è la materia stessa. L’autore di Germania anno zero è personalmente e profondamente ossessionato dallo scandalo della morte dei bambini e più ancora del loro suicidio. E attorno a questa esperienza spirituale autentica che il film prende corpo; il tema della santità laica, tema eminentemente moderno, vi si sviluppa naturalmente; la sua organizzazione più o meno abile in sceneggiatura importa poco; ciò che conta è che ogni sequenza sia una sorta di meditazione, di canto cinematografico, per il tramite della messa in scena, su questi temi fondamentali. Non si tratta di mostrare ma di mostre. E come resistere alla sconvolgente presenza spirituale di Ingrid Bergman, e al di là dell’interprete, restare insensibili alla tensione di una messa in scena in cui l’universo sembra organizzarsi sulle stesse linee di forza spirituale fino a disegnarle in maniera altrettanto leggibile della limatura di ferro sul campo magnetico della calamita? Raramente la presenza dello spirituale negli esseri e nel mondo era stata espressa con una così abbagliante evidenza.
 E’ vero che il neorealismo di un Rossellini appare in questo caso ben diverso, se non contraddittorio, da quello di un De Sica. Ci sembra tuttavia corretto accostarli come i due poli di una stessa scuola estetica. Là dove De Sica fruga la realtà con curiosità sempre più tenera, Rossellini al contrario sembra spogliare sempre più, stilizzare con un rigore doloroso ma impietoso, insomma ritrovare il classicismo dell’espressione drammatica attraverso le regole e attraverso la scelta. Ma a guardare da vicino, deriva dalla medesima rivoluzione neorealista. Per Rossellini come per De Sica si tratta di ripudiare le categorie della recitazione e dell’espressione drammatica per costringere la realtà a dare il suo senso a partire dalle sue sole apparenze. Rossellini non fa mai recitare i suoi attori, non gli fa esprimere questo o quel sentimento, li costringe solo ad essere in una certa maniera di fronte alla macchina da presa. In una tale messa in scena, il posto rispettivo dei personaggi, la loro maniera di camminare, i loro spostamenti nell’ambiente, i loro gesti hanno molta più importanza dei sentimenti che si dipingono sul loro volto, oppure di ciò che dicono. De tresto, che “ sentimenti “ potrebbe mai “ esprimere “ Ingrid Bergman? Il suo dramma è ben al di là di ogni nomenclatura psicologica. Il suo volto non è che la traccia di una certa qualità di sofferenza.
Che una tale messa in scena richiami una stilizzazione il più evoluta possibile, Europa 51 lo prova con evidenza. Un  film del genere è il contrario stesso del realismo “ colto sul vivo”: l’equivalente di una scrittura austera e rigorosa spoglia a volte dell’ascesi. Giunto a questo punto il neorealismo ritrova l’astrazione classica e la sua generalità. Di qui questo apparente paradosso: la versione buona del film non è quella italiana doppiata ma la versione inglese in cui è stato conservato il massimo di voci originali: Al limite di questo realismo l’esattezza della realtà sociale esterna ridiventa indifferente. I bambini delle strade di Roma possono parlare inglese senza che noi pensiamo a questa verosimiglianza. La realtà per il tramite dello stile si riallaccia alle convenzioni dell’arte.


Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.

Nessun commento:

Posta un commento