La cooperativa Nuova Ricerca di Messina è stata fondata da Fabio Mollica, con lui collaborarono Pippo Denaro, Filippo Scilipoti, Luigi Mittiga. Ebbe il merito di istituire a Messina il corso per Operatore Culturale che ebbe tra gli altri docenti il mai dimenticato professor Sebastiano Di Marco, fondatore del Circolo " Charlie Chaplin" di Reggio Calabria.
Mimmo Addabbo - Lolli,Ubaldo Vinci, Gianni Parlagreco,Catalfamo,Fabris, Valentino,Margareci,Crimi,Fano e i Sigilli
domenica 30 novembre 2014
mercoledì 26 novembre 2014
Purificata di nome, non di fatto
OGGI
Al Circolo di Cultura Cinematografiva "Yasujiro Ozu"
La magia del mezzogiorno d’Italia
merita di essere studiata bene perché il paese è un calderone di demonologia in
cui credenze orientali importate direttamente dall’Egitto, la patria classica
della stregoneria, si sono mescolate a quelle dell’occidente.
Norman Douglas, Old Calabria, Aldo Martello editore,
1962
Le famiglie nel cinema italiano non si contano: i Bava, i
Rossellini, i Vanzina ecc. ecc. … i Rondi. Ecco a noi interessano i Rondi:
Brunello e Gian Luigi, il diavolo e l’acquasanta. Brunello è passed away nel 1989 mentre il secondo,
longevo, miete ancora riconoscimenti in Italia come all’estero. Uno dei più
importanti è quello datogli da Pier Paolo Pasolini : “Sei così ipocrita che
quando l’ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all’inferno e ti crederai in
paradiso”. Brunello di
contro ha una carriera cominciata con Rossellini e finita nel genere licenzioso
; secondo noi gli montò la testa Federico Fellini. Tant’è. Nel 1963 diede agli
schermi un film, Il demonio, che
ancora oggi cattura schiere di sostenitori
e noi siamo tra questi. Merito di Carlo Bellero, di Piero Piccioni, di Mario
Serandrei, di Daliah Lavi, di Frank, McBain, Wolff e merito soprattutto di
Ernesto De Martino. I lavori e le ricerche del grande etnoantropologo sono alla
base della pellicola, come vi è pure La
taranta di Gianfranco Mingozzi di un anno prima. C’è anche posto per Superstizione , documentario del 1949 di
Michelangelo Antonioni. Le streghe e le possedute nel cinema italiano sono
tardive, prendono piede solo nei primi anni settanta. Il loro cantore nel
cinema è stato Carl Theodor Dreyer e qui
vogliamo ricordare pure Malombra,
1917,di Carmine Gallone con protagonista una strega di tutto rispetto, Lyda
Borelli. Malombra rimandava ad
Antonio Fogazzaro ma anche ad Edgar Alla Poe. Finiamola qui è terreno minato,
anzi stregato.* Ne Il demonio la regia di Brunello Rondi lascia stupiti: il
soggetto ma soprattutto lo scenario come le figure anonime sono afferrate senza
indulgenza. Il fascino di un mondo fuori dal mondo restituito con uno stile che
senza difetti risente delle collaborazioni già citate con Rossellini e Fellini.
Come in Dreyer siamo condotti sinceramente ad avere compassione di Purif e
delle sue vicende. Ella accetta la sua diversità ed il suo sacrificio come Anne
in Dies Irae.
* A questo
proposito muovendosi di qualche anno in avanti mi viene da citare Il dio nero e il diavolo biondo (Deus e o diabo na terra do sol, 1964) di Glauber Rocha, il cui sfondo, il Sertao, non è molto
dissimile dalla Basilicata del Il demonio
come anche stregoni e mistiche suggestioni. A Matera il citato Pasolini
(il film di esordio di Brunello Rondi era un adattamento de Una vita violenta) vi girerà Il Vangelo ma è nella Medea (1969) che compaiono gli
accostamenti: Medea, la strega euripidea del mito, con i suoi cerimoniali per la fertilità della terra derivati ancora da
Ernesto De Martino e James Frazer. Per finire, le sonorità di Piero Piccioni
anticipano e ci fanno venire all’orecchio alcuni motivi del Maestro Morricone, editate
da CAM, BEAT e CINEVOX, quando ancora a quest’ultimo non difettava la
fisiologia della riproduzione, non dovendosi
ancora assicurare un posto in Paradiso,
come fa con gli score della vecchiaia.
lunedì 24 novembre 2014
Note mondane e spettatrici chic
NOTE
MONDANE
Anzi al proprietario avrei da fare una proposta. In tutte le città, nell'occasione dell’esposizione del
Kinefotografo, si stabilirono delle serate e ore destinate alle dame: Segua anch' egli lo esempio e vedrà come le gentili signore accorreranno ad ammirare lo spettacolo.
Niente invero di più gradito per una dama di poter assistere ad un sorprendente spettacolo in un ambiente reso chic dall’intervento di tante distinte spettatrici
domenica 23 novembre 2014
Godard - Antonioni e Il deserto rosso
Intervista
con Michelangelo Antonioni
(novembre 1964)
di Jean-Luc
Godard
I suoi tre film
precedenti, L'avventura, La notte e L'eclisse, ci davano
l’impressione di una
linea dritta,
che procede davanti a sé, che cerca: adesso, sembra essere arrivato in un posto
diverso, che
forse si chiama Il deserto rosso, che è forse un deserto per questa
donna, ma che
per lei è al
contrario qualcosa di più pieno e completo: un film sul mondo tutto, e non solo
sul
mondo di oggi…
Mi riesce molto difficile parlare
di questo film, adesso. È ancora troppo recente. Sono ancora
troppo legato alle “intenzioni”
che mi hanno spinto a farlo, non ho né la lucidità ne il distacco
necessario per dare un giudizi.
Ma credo di poter dire che, per una volta, non si tratta di un film sui
sentimenti.
I risultati ottenuti nei miei
film precedenti (buoni o cattivi, belli o brutti che siano) sono stati
sorpassati e resi caduchi. Il
fine è completamente diverso. Prima, a interessarmi erano sopratutto i
rapporti dei personaggi tra di
loro. In questo film, il personaggio principale si confronta anche con il
contesto sociale, e questo mi
porta a trattare la storia in modo del tutto diverso. È troppo
semplicistico dire, anche se sono
stati in molti a dirlo, che io faccio un atto di accusa contro questo
mondo industrializzato ed inumano
che schiaccia l’individuo e lo nevrotizza. Al contrario, la mia
intenzione (anche se spesso uno
sa molto bene da dove parte, ma non ha idea di dove arriverà) era
di rendere la bellezza di quel
mondo. Anche le fabbriche possono essere dotate di grande bellezza.
Le linee rette e curve delle
fabbriche e delle loro ciminiere possono essere anche più belle di un
filare d’alberi che l’occhio ha
già visto troppe volte. È un mondo ricco, vivo, utile.
Per me, e ci tengo a dirlo, quella
specie di nevrosi che si vede in Il deserto rosso è sopratutto una
questione di adattamento. C’è chi
è riuscito ad adattarsi e chi non l’ha ancora fatto, perché è rimasto
ancora troppo legato a strutture
e a ritmi di vita ormai superati. È il caso di Giuliana: è la violenza
dello scarto, dello sfasamento
tra la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua psicologia, e la
cadenza che le viene imposta a
provocare la crisi del personaggio. È una crisi che non riguarda
soltanto i suoi rapporti
epidermici col mondo, la sua percezione dei rumori, dei colori, dei
personaggi freddi che la
circondano, ma anche il suo sistema di valori (educazione, morale, fede),
che non sono più validi e non la
sostengono più. Si trova allora nella necessità di rinnovarsi
completamente, come donna. È
quello che le consigliano i medici e che lei si sforza di fare. Il film,
in un certo senso, è la storia di
questo sforzo.
Come si
inserisce in questo contesto l’episodio della storia che Giuliana racconta al
bambino?
C’è una donna e c’è un bambino
malato. La madre deve raccontare una favola al figlio, ma
quelle che conosce lui le sa già
tutte. Dunque deve inventarsene una nuova. Considerando la
psicologia di Giuliana, mi sembra
naturale che per lei questa storia diventi - inconsciamente - una
fuga dalla realtà che la
circonda, verso un mondo in cui i colori appartengono alla natura, in cui il
mare è azzurro e la sabbia è
rosa. Anche gli scogli prendono forma umana, l’abbracciano e cantano
con dolcezza.
Ricorda la scena in camera, con
Corrado? Lei dice, appoggiata al muro: “Sai cosa vorrei? Tutti
quelli che mi hanno amata… averli
tutti qui, intorno a me, come un muro”. Ha bisogno che l’aiutino
a vivere, perché ha paura di non
farcela da sola.
Il mondo moderno
è, dunque, solo l’elemento rivelatore di una nevrosi più antica e profonda?
L’ambiente in cui Giuliana vive
accelera la crisi del personaggio, ma perché questo accada
bisogna che il personaggio sia
già terreno fertile per la crisi. Determinare cause e origini della
nevrosi non è facile: si
manifesta sotto forme molto differenti tra loro, rasentando a volte la
schizofrenia, i cui sintomi
spesso richiamano quelli nevrotici. Ma è proprio attraverso questo tipo di
esasperazione del personaggio che
si riesce a circoscrivere una situazione. Mi è stato rimproverato
di aver scelto un caso
patologico. Ma se avessi scelto una donna che fosse felicemente riuscita ad
adattarsi, non ci sarebbe stato
più nessun dramma: il dramma appartiene a chi non riesce ad
adattarsi.
Non vi sono già
delle tracce di questo personaggio nella protagonista dell’Eclisse?
Il personaggio di Vittoria nell’Eclisse
è tutto il contrario di quello di Giuliana. Nell’Eclisse,
Vittoria è una giovane donna
calma ed equilibrata, che riflette su ciò che fa. Non c’è in lei nessun
elemento di nevrosi. La crisi,
nell’Eclisse, è di tipo sentimentale. In Il deserto rosso i
sentimenti
sono dati per scontati. E del
resto i rapporti tra Giuliana e suo marito sono normali. Se qualcuno le
domandasse: “Ami tuo marito?”,
risponderebbe di sì. Fino al suo tentativo di suicidio, la crisi è
sotterranea, non è visibile.
Vorrei sottolineare che non è
l’ambiente a far nascere la crisi, la fa semplicemente scattare. Si
potrebbe anche pensare che al di
fuori di questo ambiente non vi sia crisi, ma non è vero. La nostra
vita, anche se non ce ne rendiamo
conto, è dominata dall’industria. E per industria non dobbiamo
intendere solamente le fabbriche,
ma anche e sopratutti i prodotti. I prodotti sono dovunque, entrano
nelle nostre case, sono fatti di
plastica o di altri materiali sconosciuti anche solo fini a pochi anni fa,
ci raggiungono dovunque siamo. E
grazie all’aiuto della pubblicità, che tiene sempre più conto della
nostra psicologia e del nostro
subconscio, ci ossessionano.
Posso dire che, situando la
vicenda di Il deserto rosso nel mondo delle fabbriche, sono risalito
alla sorgente di questa specie di
crisi che come un fiume riceve mille affluenti e si divide in mille
bracci per sommergere tutto e,
spargersi dappertutto.
Ma questa
bellezza del mondo moderno non è allo stesso tempo la soluzione delle
difficoltà
psicologiche dei
personaggi, non ne mostra la vanità?
Non bisogna sottovalutare il
dramma di questi esseri umani tanto condizionati. E forse senza
dramma degli esseri umani non
esisterebbero nemmeno. Né credo che la bellezza del mondo
moderno, da sola, possa risolvere
le nostre difficoltà. Al contrario, ritengo che, una volta che ci
saremo adattati alle nuove
tecniche di vita, forse saremo noi a trovare nuove soluzioni ai nostri
problemi.
Ma perché mi fai parlare di
queste cose? Non sono un filosofo, e tutti questi ragionamenti non
hanno niente a che vedere con
l’“invenzione” di un film.
Per esempio, la
presenza del robot nella stanza del bambino è benefica o malefica?
Benefica, almeno secondo me.
perché grazie a questo tipo di giocattoli il bambino si adatterà
molto bene alla vita che
l’aspetta. Ecco, abbiamo già ripreso la nostra conversazione di poco fa. I
giocattoli sono un prodotto
dell’industria, che in questo modo riesce ad influenzare anche
l’educazione dei nostri figli.
Sono rimasto stupefatto, e lo
sono tuttora, da una conversazione che ho avuto con un professore
di cibernetica di Milano, Silvio
Ceccato, che gli americani considerano una specie di Einstein. Un
tipo formidabile, che ha inventato
una macchina capace di guardare e di descrivere, di guidare
l’automobile, di fare un
reportage da un punto di vista estetico, etico, giornalistico, ecc. Non è una
televisione, è un cervello
elettronico. Quest’uomo, che peraltro ha dato prova di una lucidità
straordinaria, non ha mai
pronunciato, nel corso della nostra conversazione, termini tecnici che io
avrei rischiato di non capire.
Ciononostante, ci stavo perdendo
la testa. Nel giro di cinque minuti già non capivo più nulla di
quello che mi stava dicendo. Lui
si sforzava di servirsi della mia lingua, ma si finiva per ritrovarsi
in un altro mondo. Insieme a lui
c’era una bella ragazza di ventiquattro o venticinque anni, di
estrazione piccolo-borghese, la
sua segretaria. Lei sì che lo capiva perfettamente. In genere in Italia,
sono ragazze molto giovani,
semplici, che hanno soltanto un diploma, a occuparsi di stabilire la
scaletta di operazioni che dovrà
eseguire un cervello elettronico. Per loro ragionare in modo
comprensibile a un cervello elettronico
è semplice, è facile: mentre non lo è affatto, almeno per me.
Sei mesi fa, un altro scienziato,
Robert M. Stewart, è passato a farmi visita a casa mia, a Roma.
Aveva inventato un cervello
chimico, ed era diretto a Napoli, ad un congresso di cibernetica, per dar
conto della sua scoperta, una
delle più straordinarie al mondo. Si tratta di una specie di scatoletta
montata su tubi: contiene delle
cellule nella cui composizione chimica entra anche l’oro, assieme ad
altre sostanze. Queste cellule
stanno in un liquido chimico, e vivono di vita propria, hanno delle
reazioni. Se lei entra nella
stanza, le cellule prendono una certa forma, se ci entro io ne prenderanno
un’altra e così via. In quella
scatoletta trovano posto solo pochi milioni di cellule, ma a partire da lì
si può riuscire a ricreare il
cervello umano. Questo scienziato nutre le cellule nella scatoletta, le fa
dormire… Mi parlava di questa
scoperta, era tutto molto chiaro, ma talmente incredibile che a un
certo punto mi sembrava di non
riuscire più a seguirlo. Invece chi sin da bambino ha sempre
giocato con i robot potrà capire
molto bene, e se gli viene voglia non avrà problemi a partire per lo
spazio a bordo di un razzo.
Io guardo tutto questo con un po’
di invidia, e vorrei essere già in questo nuovo mondo. Ma
purtroppo non ci siamo ancora, ed
è un dramma per più di una generazione: la mia, la sua, quella
dell’immediato dopoguerra. Penso
che negli anni a venire si verificheranno trasformazioni molto
violente, sia nel mondo esterno
che all’interno degli individui. la crisi di oggi viene da questa
confusione spirituale, confusione
delle coscienze, della fede, della politica: sono tutti sintomi delle
trasformazioni che verranno.
Allora mi sono detto: “che cosa c’è da raccontare, oggi, al cinema?”, e
ho avuto voglia di raccontare una
storia fondata sulle motivazioni di cui le parlavo poco fa.
Tuttavia, i
protagonisti del suo film sono integrati in questa mentalità: sono ingegneri,
fanno
parte di questo
mondo…
Non di tutti. Richard Harris fa
un personaggio quasi romantico: pensa di fuggire in Patagonia,
non ha alcuna idea di cosa
bisogna fare. Scappa, e crede così di risolvere il problema della sua vita.
Ma il problema è dentro, e non
fuori di lui. Ed è ancora più vero, perché gli basta l’incontro con
una donna a provocare in lui una
crisi, e già non sa più se partire o no, questa storia lo sconvolge.
Vorrei mettere in luce un
momento, nel film, che è un atto di accusa contro il vecchio mondo:
quando questa donna in crisi ha
bisogno di qualcuno che l’aiuti, trova invece un uomo che si
approfitta di lei e della sua
crisi.
Si trova davanti il vecchio
mondo, ed è il vecchio mondo a turbarla e a vincerla. Se avesse
incontrato un uomo come suo
marito, quest’uomo si sarebbe comportato diversamente: prima
avrebbe cercato di curarla, poi,
dopo, forse… Mentre in questo caso è il suo stesso mondo a tradirla.
Dopo la fine del
film, la protagonista diventa come suo marito?
Credo che, in seguito agli sforzi
che compie per creare un legame con la realtà, la protagonista
finisce per trovare un
compromesso. I nevrotici hanno crisi, ma anche momenti di lucidità che
possono durare tutta la vita.
Trova forse un compromesso, ma la nevrosi resta in lei.
Credo di aver dato l’idea di una
continuità nella malattia con questa immagine un po’ fluo: la
protagonista è in una fase
statica. Che ne sarà di lei? Per saperlo, bisognerebbe fare un altro film.
Pensa che la
presa di coscienza di questo nuovo mondo si ripercuota sull’estetica e sulle
concezioni degli
artisti?
Credo di sì. Cambia il nostro
modo di vedere, di pensare: cambia tutto. La pop art dimostra che
siamo alla ricerca di cose
diverse. Non bisogna sottovalutare la pop art. È un movimento “ironico”,
e questa ironia cosciente è molto
importante. I pittori della pop art sono consapevoli di star facendo
cose il cui valore estetico non è
ancora del tutto maturo - tranne Rauschenberg, che è più pittore
degli altri. Anche se la
“macchina da scrivere molle” di Oldenburg è molto bella. Mi piace molto.
Credo che sia un bene che tutto questo
venga fuori, perché non può che accelerare il processo in
questione.
Ma lo scienziato
ha la nostra stessa coscienza? Ragiona come noi in rapporto al mondo?
Ho fatto questa stessa domanda a
Stewart, l’inventore del cervello chimico. Mi ha risposto che il
suo lavoro, così particolare,
aveva senza dubbio una risonanza nella sua vita privata e influiva anche
sui suoi rapporti con la
famiglia.
Dobbiamo
conservare i nostri sentimenti?
Che domanda! Crede che sia facile
rispondere? La sola cosa che posso dire a proposito dei
sentimenti, è che bisogna che
cambino. “Bisogna” non è la parola adatta. Stanno già cambiando.
Sono già cambiati.
Nei romanzi di
fantascienza non ci sono mai personaggi di artisti o poeti…
È vero, ed è strano. Forse
credono che si possa fare a meno dell’arte. Forse noi siamo gli ultimi a
produrre cose dall’apparenza
tanto gratuita, come sono le opere d’arte…
Deserto rosso
l’ha forse aiutata a risolvere problemi anche personali?
Facendo un film si vive, e si
risolvono anche, sempre, dei problemi personali. Problemi che
riguardano il nostro lavoro ma
anche la nostra vita privata. Se le cose di cui parliamo oggi non sono
più quelle di cui parlavamo
nell’immediato dopoguerra, è perché senza dubbio il mondo intorno a
noi è cambiato, ma anche noi
siamo cambiati. Le nostre esigenze, i nostri scopi, i nostri temi sono
cambiati. Subito dopo la guerra
c’erano moltissime cose da dire: far vedere la realtà sociale, la
condizione sociale dell’individuo
era interessante. Oggi tutto questo è già stato fatto, è già stato
visto. I temi nuovi di cui
possiamo trattare oggi sono quelli di cui abbiamo appena parlato. Non so
ancora come si possano
affrontare, come presentarli. Ho cercato di sviluppare uno di questi temi in
Il deserto rosso, e non penso
affatto di averlo esaurito. Non è che l’inizio di una serie di problemi e
di aspetti conflittuali della
nostra società moderna e di questa maniera di vivere, che è la nostra.
D’altro canto, anche lei, Godard,
fa film molto moderni, e il suo modo di trattare i soggetti rivela la
sua esigenza di rompere con il
passato.
Quando comincia
o termina certe inquadrature su forme quasi astratte, oggetti o dettagli, lo
fa in uno
spirito pittorico?
Sento il bisogno di esprimere la
realtà in termini che non siano del tutto realistici. La mia linea
bianca, astratta, che entra
nell’inquadratura all’inizio della sequenza della stradina grigia
m’interessa molto di più della
macchina che sta arrivando: è un modo di affrontare il personaggio
partendo dalle cose, più che
dalla sua vita. In fondo la sua vita mi interessa molto relativamente. È
un personaggio che prende parte
alla storia in funzione del suo essere donna, del suo aspetto e del
suo carattere femminile, che per
me sono l’essenziale. Ed è proprio per questa ragione che ho
voluto far recitare questa parte
in modo un po’ statico.
Il fatto di
girare a colori ha rappresentato un cambiamento significativo?
Molto significativo. Ho dovuto
cambiare tecnica per questo motivo, ma non solo per questo
motivo. Sentivo già il bisogno di
cambiare la mia tecnica, per le ragioni di cui abbiamo parlato. Le
mie esigenze non erano più le
stesse. Il fatto di servirmi del colore ha accelerato questo
cambiamento. Con il colore non si
usano gli stessi obbiettivi che col bianco e nero. Mi sono anche
accorto che certi movimenti di
macchina non si accordavano sempre con l’uso del colore: una
panoramica rapida è efficace su
un rosso vivo, su un verde marcio non serve a niente, a meno che
non si stia cercando un contrasto
nuovo. Secondo me c’è un rapporto tra i movimenti di macchina e
il colore. Un solo film non basta
a studiare tutti gli aspetti del problema, ma è sicuramente un
problema che va approfondito. Su
questo punto avevo fatto delle prove molto interessanti in 16mm,
ma durante le riprese non sono
riuscito a mettere in pratica alcuni degli effetti che avevo
sperimentato. In quei momenti ci
si sente troppo bloccati.
Lei sa che esiste una
psicofisiologia del colore: sono stati fatti studi e ricerche su questo tema.
Abbiamo dipinto gli interni della
fabbrica che si vede di rosso nel film: quindici giorni più tardi, gli
operai si picchiavano tra loro.
L’abbiamo ridipinta di verde chiaro, ed è tornata la pace. L’occhio
degli operai deve riposare.
In base a che
cosa ha scelto il colore del negozio?
Bisognava scegliere tra colori
caldi e colori freddi. per il negozio Giuliana vuole dei colori
freddi, sono quelli che cozzano
meno con i prodotti in esposizione. Se si dipinge un muro
d’arancione, si vedrà che quel
colore ha il potere di cancellare le cose circostanti, mentre l’azzurro o
il verde chiaro mettono in
risalto gli oggetti senza schiacciarli.
Volevo questo contrasto tra
colori caldi e colori freddi: c’è l’arancio, il giallo, il soffitto marrone,
e il mio personaggio si accorge
di come tutto questo non vada bene per lei.
Il primo titolo
del film era Celeste e verde…
L’ho abbandonato, perché non mi
sembrava un titolo abbastanza virile: era troppo direttamente
legato al colore. Non ho mai
pensato al colore prima, in sé per sé. Il film è nato a colori, ma io ho
sempre pensato prima alle cose
che dovevo dire, com’è naturale, e di cui facilitavo l’espressione
attraverso il colore. Non ho mai
pensato: adesso qui ci metto un blu, e qui vicino ci metto un
marrone. Ho dipinto l’erba che
circonda la baracca sulle rive della palude per rinforzare il senso di
desolazione e di morte. C’era una
verità del paesaggio che dovevo rendere: morti, gli alberi hanno
quel colore.
Non si tratta
più dunque, di un dramma psicologico, ma plastico…
È la stessa cosa.
E tutte quelle
inquadrature di oggetti durante la conversazione sulla Patagonia?
È come una ”distrazione” del
personaggio. È stanco di sentire tutti quei discorsi. Sta pensando a
Giuliana.
I dialoghi sono
più semplici e più funzionali di quelli dei suoi film precedenti: forse perchè
la
loro funzione
tradizionale di “commento” viene svolta dal colore?
Sì, credo sia vero. Diciamo che
qui i dialoghi sono ridotti al minimo indispensabile, e che, in
questo senso, sono legati al
colore. Per esempio, non avrei mai girato la scena nella baracca in cui si
parla di droghe e di sostanze
eccitanti senza utilizzare il rosso. In bianco e nero non l’avrei proprio
girata. Il rosso induce nello
spettatore uno stato d’animo che gli permette di accettare quel dialogo.
È il colore giusto per i
personaggi (che ne vengono giustificati) e anche per lo spettatore.
Si sente più
vicino alle ricerche di un pittore che a quelle di un romanziere?
Non mi sento lontano dalle
ricerche del noveau roman, ma mi aiutano meno di altre:
m’interessano di più la pittura e
la ricerca scientifica, anche se non credo che mi influenzino in
maniera diretta. In questo film
non c’è nessuna ricerca pittorica, mi sembra che siamo lontani dalla
pittura.
E naturalmente queste esigenze,
che in pittura non hanno alcun contenuto narrativo, ne ritrovano
uno al cinema: è qui che le
ricerche del romanzo si incontrano con quelle della pittura.
Avete modificato
il colore in laboratorio, dato che il Technicolor lo permette?
Proprio così. Non credo che ci si
debba fidare troppo del lavoro che si può riuscire a realizzare in
laboratorio. Non è colpa loro. È
che tecnicamente siamo ancora molto in ritardo, per quanto
riguarda il colore.
Secondo lei,
Giuliana vede i colori così come lei li ha ripresi?
Sa, ci sono nevrotici che vedono
i colori in modo diverso. I medici hanno fatto degli esperimenti
in materia, con la mescalina ad
esempio, per cercare di scoprire cosa vedono. C’è stato un momento
in cui ho pensato di realizzare
effetti di questo genere. Ma nel film è rimasta solo una scena così, in
cui si vedono delle macchie su un
muro.
Avevo anche pensato di modificare
il colore di certi oggetti, ma poi il fatto di adoperare tutti
questi trucchi è diventato
immediatamente qualcosa di molto artificiale ai miei occhi. Era un modo
artificiale di dire cose che
potevano essere dette in modo più semplice. Allora ho eliminato questi
effetti. Ma si può anche pensare
che Giuliana veda i colori in modo diverso.
È divertente: in questo momento
sto parlando con Godard, uno dei registi più moderni e più
dotati del presente, e poco fa ho
pranzato con René Clair, uno dei maggiori registi del passato:
abbiamo avuto due conversazioni
molto diverse. Clair è preoccupato per il futuro del cinema. Noi
due, al contrario (credo che lei
sia d’accordo con me), abbiamo fiducia nel futuro del cinema.
Che farà adesso?
Un episodio con Soraya, che mi
interessa perché mi darà modo di continuare le mie ricerche sul
colore, e di spingermi ancora
oltre con gli esperimenti che ho tentato in Il deserto rosso. Poi farò
un
film che mi interessa molto di
più, sempre se trovo un produttore che me lo faccia fare…
(Intervista con
Michelangelo Antonioni apparsa sul numero 159 dei “Cahiers du cinèma”,
novembre 1964)
mercoledì 19 novembre 2014
La caviglia di Amelia - super 8 - 1985 - di Francesco Calogero
La Coop. ENTR'ACTE
con il patrocinio
della
REGIONE SICILIANA
Assessorato Beni Culturali e Ambientali
presenta
CINE VIDEO MEDIATECHE E TERRITORIO
LA CAVIGLIA DI AMELIA
un film di Francesco Calogero
interpretato d
a
AMELIA ARAGONA ROBERTO GIGANTE
DANIELE PASSARO GISELLA ASMUND FULVIO GEMELLI
FABIO DE ARCANGELIS VIRNA VILLARI
alessio asmundo - francesco calogero - giuseppe
d'amico - franco jannuzzi
giovanni calogero - silvana cappuccio - fulvio capria
- cettina giacoppo
lino catinella - laura cappuccio - sergio chimenz -
donatella de giorgi
26 e 27 dicembre 1985
sala laudamo
orario spettacoli: 16,30 - 18,20 - 20,10 - 22,00
* * * * se ne consiglia la visione dall'inizio * * * *
regia: FRANCESCO CALOGERO
soggetto e sceneggiatura: FRANCESCO CALOGERO (con la
collaborazione di SERGIO CHIMENZ)
assistente alla regia: FRANCO JANNUZZI
fotografia: FRANCO G. CALOGERO e MARIO PEZZILLO
supervisione ai costumi: GISELLA ASMUNDO
montaggio: FRANCESCO CALOGERO e MARIO PEZZILLO
didascalie: LUIGI MITTIGA
segretaria di edizione: LAURA CAPPUCCIO
fotografo di scena: FULVIO CAPRIA
direttore del doppiaggio: FRANCO G. CALOGERO
(G. Asmundo è doppiata da ANNA DE LIBERTO e L.
Catinella da GIOVANNI MACCHIA)
musiche: "Amelia" di Joni Mitchell eseguita
dall'autrice (assolo di chitarra Pat Metheny)
"Amelia" (trad. spagn.) eseguito da "La
Tuna".
brani d'opera tratti da: "Amelia al ballo"
di Giancarlo Menotti
"Il duca d'Alba" di Gaetano Donizetti
"Simon Boccanegra" di Giuseppe Verdi
"Un ballo in maschera" di Giuseppe Verdi
produzione: FRANCESCO CALOGERO e ROBERTO GIGANTE
super 8 - colore - 80 minuti anno edizione 1985
prima proiezione: 19 novembre 1985 alla Biennal di
Barcelona (Spagna)
lunedì 17 novembre 2014
Troppo amore uccide
OGGI
Vance
a Cathy
Chissà qual è stato il ruolo svolto
dal Colonnello Tom Parker nell’introducing
Elvis sullo schermo. Sicuramente i soldi. Ma questo non ci interessa dopo quasi
sessanta anni dall’uscita di Fratelli
rivali (Love me tender, 1956). Per noi conta la pellicola di Robert D. Webb con
protagonisti Richard Egan, Debra Paget, il famigerato Neville Brand. Molti hanno declassato il film anche come western. Senza contare gli
intermezzi canori, molto meglio il commento di Lionel Newman, la storia è
quella dei fratelli Reno. I più grandi tornano dalla guerra civile con un
bottino che scotta, tra di essi c’è Vance (il maggiore), sicuro di ritrovare
Cathy e di sposarla. Il fato non è con lui: ritenuto morto assieme agli altri
fratelli, la fidanzata, nel frattempo
accolta in casa, sposa il minore, Clint. Sorpresa per Vance, musone di
Cathy. Gli yankee intanto scoprono gli autori del furto, mentre Clint pensa di
scoprire un ritorno di fiamma tra moglie e fratello; metteteci lo zampino di
Neville Brand e … Vance si riprende Cathy. Certo, raccontato così il film fa
schifo. Da tutto noi siamo felici di estrarre e salvare la parte figurativa. Robert D. Webb sarà un
mestierante però dietro la macchina da presa ci sa fare con piani, carrelli,
sparatorie, cavalli, treni, cinemascope
e se non ci fosse Clint ( che non è e non sarà mai Eastwood) in mezzo, la
pellicola andrebbe veloce e sicura verso
il The
End.
il colonnello Tom Parker e Elvis
qui sotto la più bella cover di Love me tender fatta da Linda Ronstand
e qui il film
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