Neorealista, Ladri di biciclette
lo è secondo tutti i principi che si possono ricavare dai migliori film
italiani da 1946 ad ora. Intrigo “ popolare “ e addirittura populista: un
incidente della vita quotidiana di un lavoratore: E non uno di quegli
avvenimenti straordinari come quelli che succedono agli operai predestinati
alla Gabin. Niente delitto passionale o enorme coincidenza poliziesca, che non
fanno che trasporre nell’esotismo proletario le grandi dispute tragiche
riservate un tempo ai familiari dell’Olimpo. Un incidente davvero insignificante,
banale persino: un operaio passa tutto il giorno a ricercare a Roma la
bicicletta che gli hanno rubato. Questa bicicletta era diventata il suo
strumento di lavoro e, se non la trova, tornerà senza dubbio ad essere
disoccupato. La sera, dopo ore di corse inutili, cerca anche lui di rubare una
bicicletta, ma viene preso, e poi lasciato andare, e si ritrova altrettanto
povero, con solo, in più, la vergogna di
essersi abbassato al livello di un ladro.
L’avvenimento non possiede in se stesso alcuna valenza drammatica
propria. Prende senso solo in funzione della congiuntura sociale (e non
psicologica o estetica) della vittima. Non sarebbe che una banale disavventura
senza lo spettro della disoccupazione che lo situa nella società italiana del
1948. Ugualmente, la scelta della bicicletta come oggetto chiave del dramma è
caratteristica sia dei costumi urbani italiani sia di un’epoca in cui i mezzi
di trasporto meccanici sono ancora rari e onerosi.
La tecnica della regia soddisfa, anch’essa, alle più rigorose esigenze
del neorealismo italiano. Neppure una scena in teatro di posa. Tutto è stato
realizzato per la strada. Quanto agli interpreti, non uno di loro aveva la
minima esperienza di teatro o di cinema.
L’operaio esce dalla Breda, il bambino è stato scoperto per strada fra
gli sfaccendati, la donna è una giornalista.
Se Ladri di biciclette è un puro capolavoro paragonabile per il rigore
a Paisà, è per un certo numero di
ragioni ben precise che non appaiono mai nel semplice riassunto della storia e neppure
nell’esposizione superficiale della tecnica di regia.
La sceneggiatura è innanzitutto di un’abilità diabolica, poiché regola,
a partire dall’alibi dell’attualità sociale, più sistemi di coordinate
drammatiche che la puntellano in tutti i
sensi. Ladri di biciclette è
certamente da dieci anni ad oggi il solo film comunista valido, appunto perché
conserva un senso anche se si astrae dal suo significato sociale. Il suo
messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all’avvenimento, ma è
chiaro che nessuno può ignorare e ancor
meno ricusarlo poiché non è mai esplicito come messaggio. La tesi implicata è
di una meravigliosa e atroce semplicità: nel mondo in cui vive questo operaio,
i poveri, per sussistere, devono rubarsi
fra di loro.
Il film si guarda dal barare con la realtà, non solo combinando la
successione dei fatti in una cronologia accidentale e come aneddotica, ma trattando ognuno di
essi nella sua integrità fenomenica. Che
il bambino nel bel mezzo di un inseguimento, abbia bruscamente voglia di fare
pipì: fa pipì. Che un acquazzone
costringa padre e figlio a rifugiarsi in un portone, ecco che dobbiamo, come
loro, rinunciare all’inchiesta per attendere la fine del temporale. Gli
avvenimenti non sono nella loro essenza segni di qualcosa, di una verità che
dovremmo convincerci; essi conservano tutto il loro peso, tutta la loro
singolarità, tutta la loro ambiguità di fatto.
In questa disavventura privata l’attacchino è altrettanto solo (a parte
i colleghi, che però sono una faccenda privata) al sindacato che in chiesa. Ma
questa similitudine è una suprema abilità, poiché fa scoppiare un contrasto.
L’indifferenza del sindacato è normale e giustificata, poiché i sindacati
lavorano per la giustizia e non per la carità. Ma il paternalismo invadente dei
“ quaccheri “ cattolici è intollerabile, poiché la loro “ carità “ è cieca di
fronte a questa tragedia individuale, senza fare nulla per cambiare veramente
il mondo che è in causa. La scena più riuscita da questo punto di vista è
quella del temporale sotto gli archi, quando uno stormo di seminaristi
austriaci capita attorno all’operaio a a suo figlio. Non abbiamo alcuna ragione
valida di rimproverar loro di essere tanto ciarlieri, e per di più, di parlare
tedesco. Ma era difficile creare una situazione oggettivamente più anticlericale.
Come si vede – e potrei trovare altri venti esempi – gli avvenimenti e
gli esseri non sono mai sollecitati nel senso di una tesi sociale. Ma la tesi
ne esce tutta agguerrita e tanto più irrefutabile in quanto non ci viene data
in sovrappiù. E’ il nostro spirito a ricavarla e costruirla, non il film. De
Sica vince ogni volta sul tableau in cui … non ha puntato.
Questa tecnica non è affatto nuova nei film italiani e abbiamo
insistito a lungo sul suo valore, a proposito di Paisà e, più di recente, di Germania anno zero, ma questi due
ultimi film si rifacevano ai temi della Resistenza e della guerra. Ladri di biciclette è il primo esempio
decisivo della conversione possibile di questo “ oggettivismo “ a soggetti
interscambiabili. De Sica e Zavattini hanno fatto passare il neorealismo della
Resistenza alla Rivoluzione.
Cosi la tesi del film si eclissa dietro una realtà sociale
perfettamente oggettiva, ma questa, a sua volta, passa in secondo piano
rispetto al dramma morale e psicologico che basterebbe da solo a giustificare
il film. La trovata del bambino è un colpo di genio di cui non si sa se è in
ultima analisi di sceneggiatura o di regia. E’ il bambino a dare all’avventura
dell’operaio la sua dimensione etica e a scavare una prospettiva morale
individuale in questo dramma che potrebbe essere solo sociale. Toglietelo e la
storia resta sostanzialmente identica; la prova: la riassumereste nella stessa
maniera. Il bambino si limita infatti a seguire il padre trotterellandogli accanto.
Ma è il testimone intimo, il coro particolare legato alla sua tragedia. E’
supremamente abile aver quasi evitato il ruolo della donna per incarnare il
carattere privato del dramma nel bambino. La complicità che si stabilisce tra
il padre e il figlio è di una sottigliezza che penetra fino alle radici della
vita morale. E’ l’ammirazione che il bambino in quanto tale ha per il padre e
la coscienza che questi ne ha a conferire al finale del film la sua grandezza
tragica. La vergogna sociale dell’operaio smascherato e schiaffeggiato in mezzo
alla strada non è niente di fronte a quella di aver avuto il figlio testimone.
Quando gli viene la tentazione di rubare la bicicletta, la presenza silenziosa
del bambino che indovina il pensiero del padre è di una crudeltà quasi oscena.
Se tenta di sbarazzarsene mandandolo a prendere il tram, è come quando si dice
al bambino, negli appartamenti troppo piccoli, di andare ad aspettare un’ora
sul pianerottolo. Bisogna riandare ai migliori film di Charlot per trovare
situazioni di una profondità più sconvolgente nella concisione. Si è spesso mal
interpretato a questo proposito il gesto finale del bambino che ridà la mano al
padre. Sarebbe indegno del film vedervi una concessione alla sensibilità del
pubblico. Se De Sica offre questa soddisfazione agli spettatori è perché essa è
nella logica del dramma. Quest’avventura segnerà una tappa decisiva nelle
relazioni fra il padre e bambino, qualcosa come una pubertà. L’uomo, fino a
quel momento, era un dio per suo figlio; i loro rapporti sono sotto il segno
dell’ammirazione. Il gesto del padre li ha compromessi. Le lacrime che versa
camminando fianco a fianco, le braccia penzoloni, sono la disperazione di un
paradiso perduto. Ma il bambino torna al padre attraverso la sua decadenza, lo
amerà adesso come un uomo, con la sua vergogna. La mano che fa scivolare nella
sua non è il segno né del perdono né di una consolazione puerile, ma il gesto
più grave che possa segnare i rapporti fra un padre e un figlio: quello che li
fa uguali.
Sarebbe senza dubbio lungo enumerare soltanto le molteplici funzioni
secondarie del bambino nel film, sia per ciò che riguarda la costruzione della
storia che la stessa messa in scena. Bisogna tuttavia far notare almeno il
cambiamento di tono (quasi nel senso musicale del termine) che la sua presenza
introduce a metà del film. Il bighellonare fra il bambino e l’operaio ci
riporta infatti dal piano sociale ed economico a quello della vita privata, e
il falso annegamento del ragazzino, facendo di colpo prendere coscienza al
padre della relativa insignificanza della sua disavventura, crea, nel cuore
della storia, una sorta di oasi drammatica (la scena della trattoria), oasi
naturalmente illusoria, dato che la realtà di questa felicità intima dipende in
definitiva da questa famosa bicicletta. Così il bambino costituisce una sorta
di riserva drammatica che, a seconda dei casi, serve da contrappunto, da
accompagnamento o passa al contrario al primo piano melodico. Questa funzione
interna alla storia è del resto perfettamente sensibile nell’orchestrazione
della camminata del bambino e dell’uomo. De Sica, prima di decidersi per questo
bambino, non gli ha fatto fare delle prove di recitazione, ma solo di
camminata,. Voleva, accanto alla camminata da lupo dell’uomo, il trotterellare
del bambino, essendo l’armonia di questo disaccordo di per sé di una importanza
capitale per l’intelligenza di tutta la messa in scena. Non sarebbe esagerato
dire che Ladri di biciclette è la
storia della camminata per le strade di Roma di un padre e di suo figlio. Che
il bambino stia davanti, dietro, a fianco o, al contrario, come nel broncio
dopo lo schiaffo, a una distanza vendicativa, il fatto non è mai
insignificante. E’ al contrario la fenomenologia della storia.
E’ difficile immaginare data questa riuscita della coppia dell’operaio
e del figlio che De Sica potesse ricorrere a degli attori conosciuti.
Certo, gli italiani sono, con i russi, il popolo più naturalmente
teatrale. Un qualsiasi ragazzino di strada vale un Jackie Coogan e la vita
quotidiana è una perpetua commedia dell’arte; ma mi sembra difficilmente
verosimile che questi doni di commedianti siano ugualmente divisi fra i
milanesi, i napoletani, e i contadini del Po o i pescatori siciliani. Oltre
alle differenze di razza, i contrasti storici, linguistici, economici e sociali
basterebbero a compromettere questa tesi, se si volesse attribuire alle sole
qualità etniche la naturalezza degli interpreti italiani. E’ inconcepibile che
film così diversi per soggetto, tono, stile, tecnica come Paisà, Ladri di biciclette, La terra trema e persino Cielo sulla palude abbiano in comune
questa qualità suprema dell’interpretazione. Si potrebbe ancora ammettere che
l’Italia delle città sia più particolarmente dotata per questo istrionismo
spontaneo, ma i contadini di Cielo sulla
palude sono dei veri uomini delle caverne in confronto agli abitanti di Farrebique. La sola evocazione del film
di Rouquier a proposito di quello di Genina basta a relegare – almeno da questo
punto di vista – l’esperienza del francese al livello di un toccante tentativo
dilettantesco. La metà del dialogo di Farrebique
è detta fuori campo perché non si poteva impedire ai contadini di ridere
durante le battute un po’ lunghe. Genina in Cielo
sulla palude , Visconti in La terra
trema manovrano decine di contadini o di pescatori, affidando loro ruoli di
una complessità psicologica estrema, facendo dire loro testi lunghissimi nel
corso di scene in cui la macchina da presa scruta i visi in maniera altrettanto
impietosa che in un teatro di posa americano.
De Sica ha cercato molto a ungo i suoi interpreti e li ha sceti in
funzione di caratteri precisi. La naturale nobiltà, quella purezza popolare del
volto e del passo … Ha esitato mesi fra l’uno e l’altro, ha proceduto a
centinaia di provini prima di decidersi finalmente, in un secondo per intuito,
di fronte alla sagoma incontrata all’angolo di una strada. De Sica in cerca di
un produttore, aveva finito per trovarlo a condizione che il personaggio
dell’operaio fosse interpretato da Cary Grant. Basta porre il problema in
questi termini per farne apparire l’assurdità. Cary Grant, in effetti, è
eccellente in questo genere di ruoli, ma è chiaro che in questo caso non si
trattava appunto di interpretare un ruolo ma di cancellarne addirittura l’idea.
Era necessario che quest’operaio fosse insieme altrettanto perfetto, anonimo e
oggettivo della sua bicicletta.
Una tale concezione dell’attore non è meno “ artistica “ dell’altra.
L’interpretazione di quest’operaio implica tante doti fisiche, tanta intelligenza,
comprensione delle direttive del regista quanto quella di un attore consumato.
Il cinema italiano secondo André Bazin,
op. cit.
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