lunedì 20 maggio 2013

I quasi adatti

OGGI
AL CINEFORUM PEPPUCCIO TORNATORE
Questo gran bel film di Ingmar ve lo propongo con un commento molto appropriato di Leonardo Persia; io aggiungo solo che l'opera in questione di Bergman, con Crisi ( 1945 ) dello stesso Bergman andrebbe inserita in un gruppo comprendente Gioventù perduta ( 1947) di Pietro Germi, I vinti ( 1952 ) di Michelangelo Antonioni e Rebel without a cause ( Giventù bruciata, 1955 ) di Nicholas Ray, ma anche quale anticipatrice del free cinema inglese.

Hamnstad (Città portuale/Città nella nebbia)
regia di Ingmar Bergman (Svezia/1948)
recensione a cura di Leonardo Persia

Dopo i film acquei per la Sveriges Folkbiografer (Piove sul nostro amore, La terra del desiderio), opere sul viaggio come stato dell’essere, Bergman arriva, per stabilizzarsi, a Città portuale (titolo originale) o Città della nebbia (titolo italiano), che segna il ritorno alla Svensk Filmindustri di Crisi.
Entrambi i titoli della pellicola, su soggetto (romanzo) di Olle Lansberg, esprimono un sentimento liquido persistente, si tratti dell’acqua sospesa e condensata della nebbia oppure della struttura posta sul litorale del porto. La nebbia simbolica è quella afferente alla zona profonda e non del tutto a fuoco della psiche. Patina e oscurità, problemi che continuano a essere insolubili. È lo stato brumoso della coppia di amanti protagonisti del film, Berit e Gösta (Nine-Christine Jonsson e Bengt Eklund), il cui passato oscuro e indelebile, costituisce un (re)iterato motivo di sofferenza.
Ma in Bergman il negativo è positivo, così non solo i due si incontrano per via del tentato suicidio della donna al porto, ma è l’approdo-sfida (piuttosto che la fuga inquieta dei vecchi film) a definire l’opera, punto fermo della coppia proletaria, decisa a non lasciarsi travolgere dal disegno scritto della loro esistenza, fino ad allora viaggio perpetuo nella delusione e nel vuoto. «Se vai per mare vedi tante di quelle cose, ma hai sempre la sensazione che stai perdendo qualcosa». Lo dice Gösta, ma potrebbe essere anche il punto di vista di Bergman su una possibile scelta stilistica del suo cinema.
Il regista ricordava il film come quello in cui ebbe modo di sperimentare e apprendere definitivamente la tecnica, in un momento in cui, dopo tanti esercizi estetici più o meno provvisori, il giovane autore auspicava per sé un risultato stilistico definitivo. La vicenda dei due ragazzi adombra un dato autobiografico traslato, una volontà dei personaggi e del cineasta ancora più scoperto che altrove e forse, proprio per questo, meno ispirato e sincero.
Il dato artificioso si coglie nel soggetto in questione, che riprende, nel tentativo di migliorarla, una narrazione assai simile a quella de La terra del desiderio, l’opera primissima fase di cui, fino a quel momento, Bergman era rimasto maggiormente soddisfatto. Come rifacitura ufficiosa di quell’opera, il lavoro svela per primo il gusto del cineasta per la serializzazione, o per la ripresa di situazioni e personaggi, un work in progress di battute e di contesti, su cui poco si è riflettuto.
L’eccentrico autobiografismo si coglie nell’età del protagonista, più o meno la stessa del regista (classe 1918), che lui urla disperato a una prostituta, dopo aver lasciato Berit: «Lo sai quanti anni ho? Ventinove: non ci si crede, eh? Anch’io non riesco a crederci». In quanto al periodo di tempo passato per mare, Gösta riapproda in città otto anni dopo, un anno in più rispetto al protagonista dell’altra pellicola (venuto pure dall’India). Si vuole alludere probabilmente all’anno intercorso tra questo e il precedente film.
Il conflitto del vecchio personaggio con il papà diventa adesso scontro con la mamma da parte della ragazza di cui si l’uomo si innamora. Entrambi i personaggi schiaffeggiano, rispettivamente, padre o madre, genitori rivali che hanno riservato ai figli l’odio per loro stessi. Vi si coglie il risentimento edipico dell’autore, costante esistenziale e del suo cinema.
Non a caso, la scena più bella è un flashback di Berit da piccola, costretta ad assistere alle liti dei genitori. Si sveglia, li osserva, rimane attonita. Il papà la prende in braccio ma la madre cerca di strappargliela via. I due continuano a darsele, ognuno rivendicando per sé la bambina strattonata e stretta tra i due corpi. Quando la poverina riesce a fuggire e nascondersi sotto il letto, abbracciando una bambola (il rifugio bergmaniano nella finzione), ecco la madre pronta a trascinarla per i piedi, buttandole via il giocattolo e mettendosela in braccio, in una violenta ed egoistica simulazione di affetto, ripicca algida nei confronti del marito.
I maschi, nel film, sono deboli, sfuocati, pavidi e insicuri, privi di spessore e personalità, persino da un punto di vista drammaturgico. Sono pettegoli e vuoti, si consideri l’accoglienza che, da un tavolo da gioco, fanno al protagonista appena sbarcato. Il personaggio più interessante è l’amico incupito e deluso di Gosta, una caverna profonda di frustrazione e di isolamento dal mondo (dall’altro sesso), a cui giova probabilmente il rapido accenno riservatogli dallo script. Mantiene un tono misterioso ed economo, che ne esalta il ritratto. Anche nei film precedenti, soprattutto con le coppie, Bergman si era rivelato un maestro nel tratteggiare psicologie cupe e disperate en passant, quasi sempre più riuscite di quelle dei personaggi principali, evidentemente inficiati da residui letterari manieristici.
Nei tratti di quest’uomo si ravvisa ancora l’ambiguità produttiva dei personaggi negativi bergmaniani. È lui, con le sue contraddizioni, a spingere il protagonista, ancora indeciso, tra le braccia dell’amata («Va sempre tutto a rotoli, è tutto orribile. Sempre e solo egoismo» – «Non c’è nulla che non possa durare?» – «Non chiederlo a me» – «E allora a chi?» – «Idiota! Chiedilo alla tua ragazza. Se hai bisogno di stringere una mano, allora stringi la sua. Nessun altro si offre volontario».)
La centralità del personaggio di Berit attesta una volontà dell’autore di soffermarsi sulle figure femminili La ragazza è la vittima sacrificale di una genitrice dura e bigotta, che la precipita in un calvario di assistenti sociali e case di correzione (a gestione femminile), aggravato dalla presenza di altre virago, madri dei fugaci fidanzati della donna, i maschi mosci di cui sopra. La psiche femminile è perlustrata nelle opposte ma complementari sfumature di vittima e carnefice, di sottomissione e alienazione (le scene al riformatorio, tra fumo e droghe), di durezza indotta e di aridità sentimentale.
L’aspetto simbolico dell’acqua condensata definisce pure questo aspetto di involuzione e non sbocco della personalità, un elemento che meritava un maggiore approfondimento, ma che riesce ad essere persuasivo per l’abilità dell’autore nel tratteggiare rapidamente le figure minime e minori di cui si è detto. Sintetiche e affilate le scene di mistificazione religiosa al correzionale. Ma un personaggio come Gertrud, destinata a morire per un aborto clandestino, è una concessione a un cinema di denuncia che non appartiene al regista.
Deciso a fermarsi in uno stile proprio, ma ancora indeciso su quale debba essere questo stile, Bergman spinge adesso il pedale sul dato sociale mutuato dal neorealismo affermatosi anche fuori dai confini italici. Un Rossellini di superficie è il suo modello. Sperimenta la carta degli esterni e interni autentici, porto e cantieri, fabbriche e balere, una sala cinematografica e le stanze occupate dagli operai. La colata nera che caratterizza la bella fotografia di Gunnar Fischer e il dominio armonico della tecnica non bastano. È il debito con il solito realismo poetico di Marcel Carné, e la sostanziale estraneità all’aspetto sociologico delle cose (vedi pure i successivi La vergogna e L’uovo del serpente) a togliere aria all’opera.
Di certo il regista si trova a un bivio, proprio come i due amanti nel finale di Piove sul nostro amore. Ha raggiunto la “felicità” della propria vocazione e tuttavia ne è spaventato. Si legga in tal senso la battuta di Berit: «Penso che sarebbe stato meglio se non ci fossimo incontrati. Ora che so che cos’è la felicità, la vita non potrà che peggiorare».
Il film va preso quindi come programma d’intenti. Vale come ricapitolazione e per l’idea di approdo che ne è alla base. Segna la fine di un incerto quanto promettente (e non privo di pregio) periodo di prove stilistiche. Il film successivo è quello che sancisce, per la critica e lo stesso regista, la nascita di un autore. Prigione sarà indicato come la sua prima opera davvero personale, il primo compiuto tentativo di costruire un proprio mondo delle idee.
l'originale è qui:


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