mercoledì 16 luglio 2014

lunedì 7 luglio 2014

mercoledì 2 luglio 2014

Dopo il Neorealismo


La cosa che oggi mi pare più sorprendente nella produzione italiana è che essa sembra dover uscire dall’impasse estetica in cui si poteva credere che la tenesse il  “ neorealismo “.  Passata l’esplosione degli anni ’46 e ’47, si è potuto temere che questa utile e intelligente reazione contro l’estetica italiana della grande messa in scena e, d’altra parte, più in generale, contro l’estetismo tecnico di cui soffriva il cinema di tutto il mondo, non potesse andare oltre l’interesse di una sorta di super-documentario, o di reportage romanzati. Ci si è trovati a constatare  ch il successo di Roma città aperta, di Paisà, di Sciuscià era inseparabile da una certa congiuntura storica, che esso partecipava del senso stesso della Liberazione e che la loro tecnica era in qualche modo magnificata dal valore rivoluzionario del soggetto. Come certi libri di Malraux o di Hemingway trovano in una sorta di cristallizzazione dello stile giornalistico la forma di un racconto più appropriato alla tragedia dell’attualità, così i film di Rossellini o di De Sica dovevano solo ad un accordo accidentale della forma e della materia il fatto di essere delle opere maggiori, dei “ capolavori “. Ma una volta che la novità ma soprattutto il pimento di questa crudezza tecnica hanno esaurito il loro effetto sorpresa, che resta del “ neorealismo “ italiano, quando deve per forza di cose tornare a soggetti tradizionali: polizieschi, psicologici o anche di costume?  Passi ancora per la macchina da presa per le strade, ma la splendida interpretazione non professionale non si condanna da sola a mano a mano che le rivelazioni vanno ad ingrossare le file delle vedette internazionali? E per generalizzare questo pessimismo estetico: il “ realismo “ non può avere in arte che una posizione dialettica, è più una reazione che una verità- Resta da integrarlo in seguito all’estetica che sarà, così, venuto a verificare. Gli italiano non erano del resto gli ultimi a dir male del loro “ neorealismo “.   Credo che non ci sia un regista italiano compresi i più“ neorealisti “, che non assicuri energicamente che bisogna uscirne.
Così il critico francese si sente preso da scrupoli – tanto più che il famoso neorealismo ha dato ben presto segni di visibile stanchezza. Delle commedie, per altro abbastanza divertenti, sono venute a smerciare con una visibile facilità la formula di Quattro passi fra le nuvole o di Vivere in pace. Ma la cosa peggiore di tutte è statala comparsa di una sorta di super-produzione “ neorealista “ in cui la ricerca della cornice vera, dell’azione di costume, della pittura di un ambiente popolare, degli sfondi “ sociali “ diventava un luogo comune accademico. Cosi quest’anno, a Venezia, Patto col diavolo di Luigi Chiarini, cupo melodramma di amore campagnolo, cercava visibilmente di trovare in una storia di conflitto tra pastori e boscaioli un alibi secondo il gusto del momento. Per quanto riuscito da altri punti di vista, In nome della legge, che gli italiani hanno tentato di spingere avanti a Knokke-le-Zoute, non sfugge affatto agli stessi rimproveri. Si noterà di passaggio, con questi due esempi, che il neorealismo punta adesso sul problema rurale, forse per prudenza verso i successi del neorealismo urbano. Alle “ città aperte “ succedono le campagne chiuse.
Cominciavamo già a volgerci verso l’Inghilterra, la cui rinascita cinematografica è anch’essa in parte frutto del realismo: quello della scola documentaristica che, prima e durante la guerra, aveva approfondito le risorse offerte dalle realtà sociali e tecniche. E’ probabile che un film come Breve incontro sarebbe stato impossibile senza il lavoro decennale di Grierson, Cavalcanti o Rotha. Ma gli inglesi, invece di rompere con la tecnica e la storia del cinema europeo e americano, hanno saputo integrare all’estetismo più raffinato le acquisizioni di un certo realismo. Niente di più costruito, di più concentrato, di Breve incontro, niente di meno concepibile senza le risorse più moderne del teatro di posa, senza attori abili e consumati; si può immaginare tuttavia pittura più realistica dei costumi e della psicologia inglese?
Breve incontro fece allora quasi altrettanta impressione di Roma città aperta. Il tempo si è incaricato di mostrare quale dei due avrebbe avuto un avvenire cinematografico vero. Peraltro il film di Noel Coward e David Lean non doveva granché alla scuola documentaristica di Grierson.

I miei dubbi sul cinema italiano non sono andati tanto in là …. Ma c’è Ladri di biciclette.
Infatti con Ladri di biciclette De Sica ce l’ha fatta ad uscire dall’impasse, giustificare di nuovo tutta l’estetica del neorealismo.

Il neorealismo e il post-neorealismo.
Il cinema italiano secondo André Bazin, op. cit.















lunedì 30 giugno 2014

Capri 17 maggio 1963 ore 17,00

OGGI
al Circolo di Cultura Cinematografica " Yasujiro Ozu "
    



Nella primavera del 1963 Jean-Luc Godard sbarca a Capri per  girarvi, set villa Malapartre, Le mepris. Non era solo, non lo poteva mai essere,  avendo scelta come protagonista del film Brigitte Bardot. Neanche lei era sola, si portava dietro un codazzo lungo quanto la distanza che c’è tra Capri e Napoli di paparazzi. Esseri molto avventurosi e intraprendenti di fotografi il cui soprannome fu regalato  loro da Federico Fellini. I protagonisti di questo documentario di Jacques Rozier sono loro e i teleobiettivi delle macchine fotografiche a tracolla  che cercavano di rubare una posa inedita, quanto sconcia, alla bella Brigitte. Le guardie cercavano invano di tenere a bada i caparbi  rubapose, essi saltavano da tutte le parti, dal mare o come capre dalle rocce capresi. Forse quello fu il momento più alto vissuto da questa categoria di artisti finiti a rubare immagini anche ai più insignificanti divi televisivi per copertine di giornali spazzatura che finiscono sui tavolini delle sale d’attesa di medici e assicuratori. Nel documentario Rozier monta con gusto nouvelle vague, alle musiche di Antoine Duhamel e alla voce di Michel Piccoli, immagini di copertine di riviste con fotogrammi frammentati della Bardot, ricreandone un mito ad libitum.

·         Regia,Montaggio e Testo: Jacques Rozier . Voce: Michel PiccoliJean Lescot et Davide Tonelli
·         Assistente regia : Michel S. Cavillon, Hubert Watrinet -Musica : Antoine Duhamel
·         Photographie : Maurice Perrimond
·         Suono : Jean Baronnet - Mixage son : Louis Perrin


Antonioni chiuso in Ferrara



 Mi si rimprovera di guardare tutto da lontano. È il mio modo di raccontare, non una posa. Questa “distanziazione ” è forse un pò di pudore. Mi capita d”immaginare una scena emozionante, ma non la
 realizzo. Forse è perché ne sono commosso io prima degli altri. Forse anche perché sono del nord,
 di Ferrara, una città in cui ci si sente terribilmente chiusi.
Michelangelo Antonioni

giovedì 26 giugno 2014

Aporia e doni in Caulonia (RC)

     


“ Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare  il legame sociale tra le persone ”. Jacques T. Godbout
Al momento di girare Il dono (2003) Michelangelo Frammartino era un architetto che costruiva delle video-installazioni. Il dono è una video installazione gonfiata in 35 mm.
Il film come le video-installazioni non ha una trama, poggia su delle immagini dentro cui si muovono le figure, la luce e soprattutto, e qui sta la sua forza, i suoni o, se per voi è meglio, i rumori –  catturati con discrezione da Davide Sampieri  - creando l’armonia della musica. I dialoghi sono preventivamente esclusi.
C’è un paese, c’è un vecchio che ha lo sguardo sottaciuto di Buster Keaton, c’è un’ebete che si crede posseduta dal demonio, in realtà si dona a chiunque la carica in macchina, compreso il barbiere del paese. Questa però soccorre con il suo aiuto ( dono ) le vecchie che non hanno nessuno che si prenda cura di esse.
L’ebete è soccorsa dal vecchio che le regala una Vespa e sembrerebbe quasi che la voglia emancipare da quel darsi ai paesani.
Infine c’è il mare, con i suoi relitti sulla riva dove si vanno ad infrangere le onde.
“ L’ho chiamato Il dono il mio primo film perché il dono è un concetto aporetico, nel senso che il dono esiste e non esiste. Se tu doni non ma hai memoria del dono fatto vuol dire che senti il credito, allora non è più un dono, è uno scambio, allora devi farlo e dimenticarlo, cioè nello stesso istante in cui lo fai non lo devi fare, non dev’esserci “. Michelangelo Frammartino
Il dono è un film libero, che libera lo spettatore di farsi catturare dall’armonia, che è anche l’armonia della natura.
Girato a Caulonia a monte dell’antica Kaulon, in piena Magna Grecia, paese natale della famiglia Frammartino, il lavoro attraverso quei suoni di cui si diceva ci restituisce intaccati i luoghi e i colori della nostra infanzia: i vicoli silenziosi; le vecchie case, spesso disabitate; lo scorrere lento del tempo ricordato dal rintocco della campana della chiesa; la vallata che si espande sul mare Jonio; la fiumara, riflettente la luce solare.


mercoledì 25 giugno 2014