Ecco un titolo, come molti, non accreditato al buon Lardani. Lo accredito io a lui.
Le animazioni, la grafica e gli effetti di tuka rimandano a Colpo maestro al servizio di Sua Maestà britannica, di Michele Lupo, dello stesso anno.Tutto il lavoro verrà ripreso per Città Violenta del 1970 di Sergio Sollima. Con i Sergio del cinema italico Iginio Lardani giocava sicuro.
A PARTIRE dalla metà degli anni sessanta del secolo della bomba atomica quanti frequentavano i Cineforum o i Circoli del Cinema cominciarono ad interessarsi di Andreij Tarkovskij. A ripensarci, e nulla togliendo alla poesia di Tarkovskij, ci si accorge, ora, che era un autore facile ed adattabile all’occidente meccanizzato fruitore di mode effimere. Alla sua fama Andreij Tarkovskij diede un contributo non indifferente con opere di vario genere. Il continuo viaggiare per motivi di dissenso ideologico con il potere centrale dell’URSS lo rese famoso nei salotti di tutta Europa. Per fortuna l’Andreij non perse la sua anima russa. Egli divenne preda, così, degli uffici stampa che cercavano di contrapporlo con chi la Russia non l’abbandonò mai. E in quel tempo il cinema russo era vivo e vegeto come dimostrano ancora oggi le opere di Elem Klimov, Marlen Hutsiev, Serghei Bondarchuk per citare che pochi. Quel cinema era in fermento anche per l’opera letteraria, cinematografica, e alla presenza scenica, di Васи́лий Мака́рович Шукши́н, Vasily Makarovic Shukshin. La Russia, anzi le Russie, di quel tempo erano ancora legate alla terra ed a un drammatico passato recente come la Seconda Guerra Mondiale. Da questo traeva origine l’arte di Vasily Makarovic. E meglio ancora dall’urbanizzazione inarrestabile dei mужик, mužik, che andava perdendo, per questo, la sua identità come il senso di appartenenza alla terra ed alle stagioni che, per ricordarlo, in quelle regioni sono corte per via dell’innevamento che occupa buona parte dell’anno.
L’opera di Vasily Shukshin è caratterizzata dal breve tempo della sua esistenza terrena essendo scomparso, a soli quaranta cinque anni, mentre ancora era nell’alba della sua maturità artistica. È successo però che, da quel momento, la sua influenza non si è arrestata. I suoi lavori letterari, per lo più racconti, hanno continuato ad essere trasposti sullo schermo, a volte con la presenza della moglie Ли́дия Никола́евна Федосе́ева-Шукшина́ Lidiya Fedoseeva-Shukshin, fino ai giorni nostri.
Se vi è una perdita nell’opera di Shukshin va trovata solo – l’ho dedotto solo in questi giorni visionando varie trasposizioni cinematografiche più recenti - nella natura del supporto da cui traggono origine le immagini. La pellicola era il vero, naturale appoggio biologico per una trasposizione corretta del pensiero di Vasily Makarovic, essendo il supporto digitale dei giorni nostri alquanto privo di anima.
Breve filmografia
di Vasily Shukshin:
come regista
Из Лебяжьего сообщают,Dal
rapporto Lebiazhie, 1960,film di
laurea
Живет такой
парень, Così vive un uomo,1964
Ваш сын и брат, Vostro figlio e fratello, 1965
Странные люди, Strana gente, 1969
Печки-лавочки, Il viaggio di Ivan Serghevic, 1972
Калина
красная, Il viburno rosso, 1974
principali trasposizioni letterarie
Пришёл
солдат с фронта, Tornano i soldati dal fronte,1971
Конец
Любавиных, La fine di Lyubavin, 1971
Земляки,
Connazionali, 1974
Позови
меня в даль светлую, Chiamami da lontano,1977
IL PUBBLICO delle
sale cinematografiche italiane ha fischiato, e sonoramente fischiato, taluni
film di produzione nazionale: 5 o 6 su un complesso di circa quaranta.
Non esitiamo farne
i nomi, per intenderci chiaramente:
UN BACIO A FIOR D’ACQUA,
1
PIERPIN, 2
LUCE DEL MONDO, 3
ARMA BIANCA, 4
COLPO DI VENTO, 5
IL GRANDE
SILENZIO, 6
tutti film che
hanno meritato la loro sorte.
Ma bisogna che il
pubblico prenda nota di due fatti; dopo di che potrà continuare a fischiare
serenamente tutti i brutti film che gli saranno presentati.
II primo fatto è
il seguente: tutte le cinematografie, non solo le minori ma anche, e
soprattutto, le maggiori, hanno una percentuale elevatissima di opere sbagliate
o, peggio, condannate in sul nascere. Se il pubblico si divertirà a fare le percentuali
dei brutti film stranieri che ha veduto durante la stagione, in confronto ai
buoni, eppoi ripeterà questa statistica per i film italiani, si accorgerà, con
gioia, che la cinematografia italiana, ha una percentuale elevatissima di buoni
film: infinitamente superiore in confronto ai cattivi, a quella che può vantare
qualsiasi altra industria.
Secondo fatto!
anche nella attuale riorganizzazione della nostra industria cinematografica
esistono e persistono dei residuati di vecchie mentalità che agiscono al di
fuori di qualsiasi controllo, con iniziative private destinate al fallimento.
Gli organi competenti preferiscono ignorare queste sporadiche iniziative che non
hanno nessun valore e nessuna importanza di fronte al complesso: è sul complesso
che occorre giudicare la nuova cinematografia nazionale, non sui singoli fatti.
Che il pubblico
continui a fischiare ma, razionalmente, con “judicio”. Anche questi residuati
spariranno.
CINEMAquindicinale di divulgazione cinematografica, Luglio-Dicembre 1936 –
XV
Tutt’altra faccenda per l’ultimo film europeo della Garbo, La via senza gioia, che è firmato da
Pabst. La Vienna dell’inflazione e della fame, in quell’altro dopoguerra così
simile (tutte le sciagure s’assomigliano) al dopoguerra 1945. Unica differenza
le divise dei vincitori. Allora v’erano anche ufficiali in grigioverde che
invitavano le belle viennesi affamate sulle Fiat e invece di Chesterfield
regalavano Macedonia.
Si può pensare quello che si vuole di Pabst come regista.
Probabilmente, quanto a preparazione culturale, è uno di quegli intellettuali
che i francesi chiamano << primaires >>, cioè uno che non s’accorge
delle sfumature, uno che non sa che certi problemi sono antichi come la vita, e
soprattutto che l’arte non s’affronta gonfiando bicipiti e gote... Però è anche
uno che ha il cinema nel sangue, che ogni tanto è percorso dall’alito ineffabile della grazia. Per nostro conto sentiamo
di dovergli alcune delle sensazioni più piacevoli di spettatori induriti. Chi
non ricorda? Il can-can di Atlantide,
i mulini di Don Chisciotte, in primo
piano sullo sfondo di gonfie nuvole meridionali, e, ne I commedianti, girato dal povero umanitario Pabst sotto la ferula
nazista, la carrellata del banchetto, che fu subito celebre. Ma Greta e Pabst
ne La via senza gioia toccarono una
sorta di perfezione, ebbero un gran momento di quelli che la vita non ripete.
Fu un curioso connubio, non destinato a durare.
Insieme a Pabst e a Greta erano due favolosi attori, Werner Krauss, la
cui mefistofelica figura è strettamente legata al cinema espressionistico
tedesco, e la maggior << diva >> dell’epoca, Asta Nielsen. Ne La via senza gioia vi erano due azioni
parallele; una donna commetteva un delitto che avrebbe confessato solo alla fine
del racconto; una fanciulla pura, ma avvilita dalla miseria, veniva insidiata e
stava per perdersi ad opera di un losco figuro. Nel finale (evidentemente di
comodo) l’illibata fanciulla veniva salvata da un ufficiale degli eserciti di occupazione.
Per un’intuizione da grande artista Pabst era il primo a trasferire nel
cinematografo quel «fantastico sociale >› che Baudelaire aveva scoperto donando
alla poesia quella nuova provincia, che il cinema avrebbe in seguito esplorata
sino ai limiti estremi. Le incongruenze della civiltà industriale, i tristi
risultati delle speculazioni edilizie, i poveri esseri asserragliati nei
quartieri miseri come in un ghetto, la strana, dolente poesia delle case
misere, dei muri umidi, senza sole, erano per la prima volta conquistati da uno
sguardo intelligente e profondo. In questa direzione mai Pabst riuscirà in seguito
a fare di meglio.
Ne La via senza gioia Greta è
già l’attrice che tutti celebreranno più tardi nei film famosi d’America. Essa
ha appreso sin troppo bene la lezione impartitale da Stiller (ardente maestro
che brucerà la sua vita alla gloria dell'allieva); s’è dimenticata con la naturalezza
di una << comica >> vera le modeste origini, le avvilenti
esperienze, l’umile prova d’inizio del film comico Pietro il vagabondo. Ha già
quell’incesso regale, quello sguardo profondo, carico di significati patetici,
cui nessun maschio civilizzato resiste.
Il mondo cammina e le donne camminano con la storia; in testa alla
colonna capelluta e dalle tenere linee curve, vengono le figlie del Nord. La
Svezia del bellicoso Carlo XII s’è convertita al femminismo di Ibsen: il
benessere venuto con i frigoriferi, con le baleniere e con il pesce in barile,
porta la gente a considerare con rispetto la problematica dell’anima femminile.
Per reazione, gli intellettuali tipo Stiller non tardano a porgere un orecchio
compiaciuto ai << trolls >>, gli spiriti maligni evocati con tanta
passione dal piccolo speziale scandinavo.
Dopo il film di Pabst carico di realtà, di malinconia, dove si esprime
un giudizio su certi fenomeni sociali, Greta, chiamata a Hollywood, scivolerà
fatalmente, incoraggiata dal filisteismo dei produttori, sul piano inclinato
del divismo. Lo scotto verrà pagato molti anni più tardi, dopo il tentativo di
liberazione di Ninotchka, con Non tradirmi con me, restato fino ad oggi
senza resurrezione.
Attrice istintiva, e poco << intelligente >> (come invece
sono << intelligenti >> Bette Davis e Marlene Dietrich), Greta ha
compiuto cinquantun anni in settembre. È perciò, definitivamente, fuori giuoco,
a meno che accetti parti che non siano più di innamorata. Svelta negli affari,
ma timida, schiva, carica di <<complessi», Greta si mise in testa che il
capitombolo di Non tradirmi con me
era stato il frutto di una cabala di invidiosi, di una congiura ordita ai suoi
danni e non, come invece è vero, uno spiacevole infortunio professionale.
Insistette nella sua solitudine, forse avendo capito confusamente che il suo tempo
era passato. Figlia di Ibsen, non avrebbe potuto resistere alle imminenti
offensive di Sartre. Sopravvive ora, patetica, goffa e anche un pochino
ridicola, alla sua gloria. Resta nel cuore di innumerevoli suoi ammiratori un
ricordo, una << presenza >> che ha valore soprattutto perché fa
corpo con la loro giovinezza. Ma è un ricordo che perirà assieme a quelli che
amarono svisceratamente la << divina >> nel buio dei cinematografi
GRETA GARBO
Per chi non ha passato i quarant’anni, essa non è altro che un nome o poco meno. Né vale l’osservazione che le pellicole di Greta Garbo, non tutte, purtroppo, girano ancora per il mondo, ammirate da grandi e piccini: Grand Hotel, Ninotchka, Margherita Gautier, La regina Cristina. Importante non è vedere la <<divina >>, come allora venne chiamata, in film antichi che sottolineano con crudeltà la differenza fisica esistente tra la bella donna dell’<< età del jazz» e l’anziana signora nevrastenica, che detesta i fotografi, e che ciò nonostante viene ritratta in tutti i rotocalchi, infagottata in abiti qualunque, in compagnia di George Schlee, il marito di una sarta amica di Greta. Infatti la svedese fu niente di meno di un mito. Si sapeva benissimo, naturalmente, che da ragazza aveva spennellato con schiuma densa di sapone il viso dei clienti di un piccolo barbiere di cui era commessa; si sapeva pure che aveva cominciato a lavorare per il cinema prestandosi, in costume da bagno, a far la pubblicità per certi prodotti. Ma che importa? Greta era soprattutto la donna fatale de La carne e il diavolo; colei la cui sola apparizione era bastata per far dimenticare subito le << Vamp >> del cinema muto italiano, Lyda Borelli e Francesca Bertini, Italia Almirante e Pina Menichelli. Senza contare le << dive locali >>, Mae Murray e Pola Negri, Gloria Swanson e Wilma Banky.
Ricordiamo come se fosse ieri, e son passati quasi trent’anni, il pomeriggio in cui ci accadde di vedere per la prima volta il patetico volto di Greta. Aveva un abito bianco con luccichii argentei e una scollatura favolosa: l’alto collo dell’abito da sera alla Maria Stuarda accentuava l’incanto del profilo languido, degli occhi appassionati. Gli adolescenti della nostra generazione vennero scossi dal lungo bacio tra lei e John Gilbert ne La carne e il diavolo come da una scarica di elettrochoc, e la faccenda non fu più dimenticata. Di rincalzo vennero i film europei della << divina >>, anteriori nel tempo ma presentati in Italia dopo il successo de La carne e il diavolo: La leggenda di Gösta Berling e La via senza gioia. La sorpresa della scoperta era tale infatti soltanto per noi. Amica e allieva di un geniale, sregolato e infelice regista del suo paese, Mauritz Stiller, Greta era un tipico prodotto della vecchia Europa. Greta Garbo si presenta infatti nel cinema europeo con due artisti molto dotati, il già ricordato Mauritz Stiller e G.W. Pabst, e ne esce per cadere, a Hollywood, nelle mani di registi abili ma privi di mordente, di originalità, di poesia. Per noi questo non è un semplice caso. Hollywood è quella che è: i suoi vizi, il suo conformismo, la sua arida e livellatrice mentalità industriale li conosciamo da un pezzo. E pure Hollywood ci ha dato un genio del cinema, Chaplin, e una quantità di direttori artistici originali e profondi: Vidor, Ford, Hawks, Capra, Sturges, Huston... Come mai
Greta Garbo non ha incontrato nessuno a Hollywood capace di comprenderla in pieno, in grado di superare il dato << divistico >>, di immergerla in una atmosfera concreta e nello stesso tempo fatale? Come mai una fortuna di tal sorta è toccata alla Lombard di XX secolo, alla Davis di Le piccole volpi, alla Stanwyck di Proibito, persino alla Goddard di Tempi moderni e non a Greta Garbo? La risposta ci sembra semplice: Greta è restata sempre, a Hollywood, una straniera, un’attrice di passaggio che si tiene finché fa incassare dollari e che si licenzia come una cameriera quando non << rende >>. In verità essa è sempre rimasta la Greta di Stiller e di Pabst, la Greta << europea >>.
Abbiamo un ricordo non troppo limpido del primo film importante di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto da Mauritz Stiller. Soltanto alcuni anni dopo abbiamo saputo che il film era giunto mutilato nelle sale delle vecchie città d’Occidente, da pochi anni tolte al loro sonno profondo per merito di uno spettacolo curioso, che si svolgeva al buio, mentre qualcuno suonava al pianoforte valzer di Strauss e notturni di Chopin.
An another Sergio, Grieco, camuffato sotto Terence Hathaway made use of Iginio. La grafica è inconfondibile, aggiungete il Maestro supportato da Maurizio Graf e il prossimamente is served.